All’origine del contratto d’area torrese stabiese (1991 – 1994)

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1. La fine del secolo breve

Anni difficili, ricchi di storia, quelli a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta del secolo trascorso. Si comincia nel novembre del 1989, con la caduta del Muro di Berlino, segnando uno spartiacque tra vecchio e nuovo secolo.

Lo storico marxista inglese, Eric J. Hobsbawm, in un saggio pubblicato nel 1994 definì il Novecento il Secolo breve (1914 – 1989), mentre il politologo americano Francis Fukuyama, più drasticamente, pronosticò la fine della storia facendola coincidere con il crollo dell’Unione Sovietica e del comunismo, intesa come fine delle ideologie e vittoria finale del liberalismo democratico.1

In Italia l’inizio della fine prossima ventura dell’implosione dell’Unione Sovietica e dei suoi satelliti, ebbe immediate ripercussioni nel Pci: Achille Occhetto, l’ultimo Segretario Generale del più potente Partito Comunista dell’occidente, decise di portare alle estreme conseguenze una discussione e un dibattito già avviato da tempo sulla necessità di cambiare il nome al glorioso Pci creando le condizioni per approdare all’unificazione con i socialisti e si presentò il 12 novembre 1989 ad una riunione di partigiani riuniti per commemorare la battaglia della Bolognina, uno scontro tra partigiani e nazifascisti verificatosi il 15 novembre 1944.

 

Intervenendo nel capoluogo emiliano, Occhetto colse l’occasione per lanciare la più radicale proposta di cambiamento, di trasformazione del grande partito di Gramsci nella nuova Cosa, per essere pronti alla sfida del terzo millennio.

Se il crollo del muro di Berlino aveva lasciato senza parole, increduli, molti militanti e se lo shock per l’improvvida fine dell’Unione Sovietica, qualche anno dopo, sarà grande, ai limiti del trauma, per un considerevole numero di compagni cresciuti nel mito del Soviet, non meno dolorosa fu la decisione di porre fine alla storia del Pci.

Superati i primi attimi di smarrimento, seguì la reazione, in alcuni casi rabbiosa, violenta e il Partito si divise tra favorevoli e contrari, rompendo amicizie, incrinando matrimoni, provocando risse tra compagni legati da sempre.2

La passione avvolse il popolo della sinistra dividendolo nel terribile confronto tra no e sì, ma quando ci si contò in congresso, il XX e ultimo del Pci, furono oltre il 65% a pensarla positivamente sulla nascita della nuova forza politica poi denominata Partito Democratico della Sinistra (Pds), all’ombra di un nuovo simbolo che mandava in soffitta la vecchia falce e martello per sostituirlo con una quercia.

Il prezzo pagato fu la scissione voluta dal vecchio Armando Cossutta (1926 – 2015), militante del Pci dal lontano 1943 e filosovietico per antonomasia, dall’ex sindacalista della Cgil, Sergio Garavini (1926 -2001) e dalla stabiese Ersilia Salvato, eletta appena pochi mesi prima nella Direzione nazionale del Pci.3

Castellammare si dissanguò nella fratricida guerra, e se nella sezione Togliatti prevalse il Sì, nella Grieco e all’Italcantieri vinsero invece i No, e non mancarono momenti d’alta tensione, ai limiti della rissa perfino tra compagni noti per la propria flemma.

E la scissione locale avvenne per opera di un gruppo di vecchi militanti guidati da Luigi D’Auria, Franco Martoriello e Giuseppe Ricolo, vecchio avvocato dell’ufficio vertenze della Camera del Lavoro stabiese, nel PCI da sempre e per sempre.4

Il primo Circolo della Rifondazione comunista aprì la sua sede in Via Massimiliano Kolbe, una stradina alle spalle della centralissima Piazza Principe Umberto.

Il 1991 non si era aperto soltanto con il Congresso del Pci convocato per sancire la nascita della Cosa voluta da Occhetto, altri fatti più drammatici sopravvennero, sconvolgendo il già delicato equilibrio nel rissoso medio oriente coinvolgendo il resto del mondo: gli Stati Uniti su ordine del suo 41° Presidente, il repubblicano George Herbert Bush senior, alla testa di una coalizione internazionale di 27 Stati, tra cui l’Italia, invase l’Iraq di Saddam Hussein.

La prima Guerra del Golfo contro il feroce dittatore, responsabile del genocidio del popolo curdo e della lunga e sanguinosa guerra dei dieci anni contro l’Iran dell’ayatollah Khomeini, costò circa un milione di morti e l’odio imperituro del mondo islamico contro l’impero del male americano e occidentale.

A far traboccare la classica goccia d’acqua era stata l’invasione, nell'agosto 1990, del confinante Kuwait, considerato da Saddam, una sua provincia e come tale in diritto di annetterla, in realtà per soddisfare la sua sete espansionistica ed avere uno sbocco a mare per realizzare una sua flotta navale. I considerevoli interessi occidentali, e americani in particolare, legati ai pozzi petroliferi del piccolissimo e ricchissimo emirato non potevano lasciare indifferenti gli Stati Uniti, decisi a liberarsi del pericoloso ex alleato, spintosi oltre il dovuto.

I pacifisti non aspettarono l’inizio del conflitto, 16 gennaio 1991, per far sentire la loro protesta. Fin dal settembre 1990 in Italia e nel mondo si susseguivano le iniziative popolari per sensibilizzare l’opinione pubblica, con manifestazioni, volantinaggi, assemblee pubbliche, documenti sindacali, forze politiche e associazioni di varia natura.

Castellammare, fedele alla sua tradizione, fu tra le prime a mobilitarsi con iniziative dei circoli della sinistra comunista, della Camera del Lavoro e ordini del giorno diramati dai Consigli di Fabbrica.

Infine su iniziativa degli studenti di sinistra, il 18 gennaio fu organizzata una delle più grandi manifestazioni contro la guerra messa in piedi dalla gioventù stabiese, con quasi diecimila persone in piazza a protestare. Il conflitto terminerà a fine febbraio, lasciando sul terreno centomila morti irakeni, mentre la coalizione avrà 213 caduti, di cui 146 americani.

Per la paura di un vuoto di potere o, più correttamente, per le oscure trame della politica, fu evitata la caduta del regime, lasciando al suo posto il dittatore irakeno.

Per vedere la fine di Saddam Hussein (1937 – 2006) bisognerà attendere dodici anni, pagando il costo assurdo di una nuova guerra e un numero infinito di morti innocenti.

La seconda guerra del golfo, inizierà il 20 marzo 2003, quando gli Stati Uniti, per riprendersi dall’orripilante shock causato dall’attacco terroristico fatto nel cuore dell’America, contro le due torri gemelle, l’11 settembre 2001, con 2.749 morti accertati, deciderà di dichiarare guerra al terrorismo internazionale attaccando prima l’Afghanistan, dov’era nascosto l’ideatore del folle attentato, Bin Laden (1957 – 2011), e successivamente l’Iraq di Saddam Hussein, colpevole, secondo Bush e il suo establishment, d’essere sostenitore del terrorismo internazionale e di possedere armi chimiche.

Si scoprirà in un secondo momento la falsità delle accuse, in gran parte costruite a tavolino dai servizi segreti americani, inglesi e italiani, ma tutto ciò, per un opinione pubblica mondiale ormai spaventata dal farneticante terrorismo degli integralisti islamici sarà soltanto un dettaglio superfluo.

Aveva ormai preso piede il pensiero unico della difesa dei valori dell’Occidente contro il pericolo islamico, un tasto su cui si batterà molto, fino alla fine la stessa Oriana Fallaci (1929 – 2006), una delle più lucide giornaliste di fama mondiale, passata dal fronte progressista alle posizioni sempre più conservatrici e retrive degli ultimi anni della sua vita.

Il terrificante attacco americano e dei suoi alleati porterà all’abbattimento del regime e alla cattura dello stesso dittatore, non senza pagare un altissimo prezzo in vite umane, vittime nel lungo, interminabile dopoguerra della guerriglia irakena e dei sempre più numerosi attacchi suicidi, i martiri islamici, con autobomba e cinture esplosive.

Cifre non ufficiali parlano di almeno un milione di morti tra gli irakeni a fronte degli oltre 4.500 caduti militari americani Un costo pagato dagli italiani con almeno 33 morti tra militari e civili, di cui 19 a Nassiriya, a seguito di un attentato suicida irakeno contro la base militare italiana, il 12 novembre 2003 provocando, complessivamente, 28 morti e 140 feriti. Più alto il prezzo in vite umane pagato in Afghanistan dove i caduti ammontano a 45, di cui gli ultimi tre in seguito ad un incidente nel febbraio 2012.5

Neanche la morte di Osama Bin Laden, ucciso il 2 maggio 2011 nel corso di uno spettacolare blitz da parte delle forze speciali americane, intervenute con due elicotteri e 79 uomini della Navy Seal, in un azione lampo durata 40 minuti atterrando nella villa in cui si nascondeva ormai da diversi anni, nella città di Abottabad, presso Islamabad in Pakistan, ferma l’estremismo islamico di al-Qaeda.

Pochi giorni dopo la morte del carismatico leader del fanatismo islamico, infatti, un attentato suicida provocò 87 morti tra giovani reclute all’interno di un centro di addestramento delle guardie di frontiera a Shabqdar nello stesso Pakistan.6

Mentre questi grandi avvenimenti sconvolgevano il mondo e non lasciavano indifferente l’antica Stalingrado del Sud, qui i lavoratori continuavano, tra le altre innumerevoli incombenze, a dibattersi tra le mille angustie del vivere quotidiano, le piccole speranze, i fragili sogni come la nascita della sesta provincia, ancora tutta da inventare, inseguendo un’autonomia senza futuro.

Quando la speranza di creare una nuova provincia sembrò volatizzarsi, sotto la spinta dei reciproci veti, l’eclettico Presidente della provincia, Salvatore Piccolo, utilizzando le norme sull’autonomia locale previste dalla legge 142/90, che dava un anno di tempo per ridisegnare nuovi assetti territoriali nell’ambito delle aree metropolitane da costituire, ideò allora un nuovo progetto, inventandosi, o meglio riscoprendo un’antica, abolita istituzione: i Circondari di monarchica memoria.

L’idea era quella di dividere i 92 comuni della provincia in cinque circondari, tenendo conto di aree omogenee per storia, cultura, economia e tradizione, avendo per capoluogo Castellammare, Pozzuoli, Nola e un non meglio identificato comune dell’area a nord di Napoli (Afragola? Casoria? O che?) e, naturalmente la stessa ex capitale del Mezzogiorno.

Il progetto, di per sé non era malvagio se inserito in un contesto nazionale di totale abolizione delle province e la loro sostituzione con i più agili circondari, alleggeriti della sempre più inutile sovrastruttura politica e avendo come riferimento l’ente regionale.

Ma questo non era e di proposta in proposta, la follia avanzava, non trovando più confini, fino a sbizzarrirsi nella divisione della stessa Napoli, in sei, otto o addirittura 21 municipi, tanti quante erano le circoscrizioni.

Una battaglia tutta politica e tutta interna alla Democrazia Cristiana napoletana, e in parte al Psi, con i suoi leader, grandi e piccoli, a sbranarsi sulle zone di competenza come tanti piccoli viceré in cerca di un regno da conquistare, governare e spremere.

Da questa disputa, sempre più aleatoria, non riuscirono a starsene fuori neanche le organizzazioni sindacali del comprensorio, partorendo a loro volta un documento in cui si schieravano a favore della sesta provincia.

Un sogno inseguito fin dal 1926 e destinato a rimanere tale per sempre. Infatti, il governo tecnico di Mario Monti, l’uomo che sognava la Grande coalizione per avere più forza dentro l’Unione monetaria, già nell’ormai lontano 1998, al tempo in cui era commissario europeo, subentrato a Silvio Berlusconi nel novembre del 2011, affonderà la prima picconata verso il sostanziale superamento di un organismo diventato ormai obsoleto, trasformandolo in ente di secondo grado, con consiglieri e presidenti non più eletti dal popolo ma dai sindaci e dai consiglieri comunali della stessa provincia, producendo, per questo solo fatto, un risparmio valutato intorno ai 320 milioni di euro.

Gli stessi organismi furono estremamente ridotti e portati da un minimo di dieci ad un massimo di sedici consiglieri.7

Intanto nella vicina Torre Annunziata esplodeva la protesta dei 230 operai della Deriver, azienda passata dalle partecipazioni statali ad una società lombarda, la Radaelli, nella speranza di un rilancio presto trasformatosi nell’incubo di un pesante ridimensionamento.

Si vissero giorni infernali, un febbraio da dimenticare, con la città prigioniera delle proteste tra blocchi stradali e ferroviari. E quando tutto questo non bastò, a pagare il prezzo della rabbia operaia furono i pendolari dell’intera regione, quando le tute blu invasero la Stazione Centrale delle Ferrovie dello Stato della città di Oplonti, snodo fondamentale del traffico ferroviario non soltanto regionale.

E certo non potevano bastare una decina d’avvisi di garanzia e d’arresti domiciliari, da parte della magistratura, verso quelli ritenuti i principali responsabili dei disordini avvenuti tra il 30 gennaio e il 1° marzo, operai e delegati di fabbrica incriminati per difendere il posto di lavoro, a fermare la protesta operaia.

 

2. Il III Congresso comprensoriale della Camera del Lavoro.  1991.

In quegli stessi anni, successivi alla nascita del comprensorio vesuviano esterno, si era andato formando sul territorio torrese stabiese un nuovo gruppo dirigente sindacale con Catello di Maio, Segretario Generale della potente Fiom comprensoriale, un dipendente dei cantieri navali, come tradizione voleva; Raffaele Scala, proveniente da una fabbrica di legnami di Napoli, Segretario generale della Fillea, entrambi stabiesi; Giuseppe Acanfora, dipendente comunale di Pompei, alla guida della Funzione Pubblica, poi sostituito da Antonio Santomassimo, originario di San Giorgio a Cremano, dipendente comunale di quel municipio; Franco D’Angelo alla testa della Flai, sostituito prima da Antonio Mosiello e poi da Orazio Caccia; Segretario generale della Filcams, dopo la partenza di Umberto Apicella per la Camera del Lavoro di Salerno, fu eletto Antonio Aprea, napoletano puro sangue.

Alla guida del sindacato Scuola c’era Pasquale Petrazzuolo, dalla fluente e bianca barba alla Carlo Marx, originario di Torre Annunziata.

La segreteria confederale era composta da Carlo Corretto, Renato Tito, Segretario Generale Aggiunto, vecchio socialista della sinistra lombardiana, operaio della Ciba, in segreteria fin dalla fondazione della zona sindacale Cgil del lontano 1973, poi sostituito dal più giovane e ambizioso Giuseppe Mogavero, un salernitano giunto a Castellammare nel 1988; Ciro Scognamiglio, già impiegato dei cantieri navali, poi Segretario generale della Fiom, predecessore di Catello di Maio e della stessa Camera del lavoro e Alfonso Natale, anch’egli da sempre in Cgil prima come giovanissimo Responsabile dei Braccianti e poi dal 1976 nella segreteria confederale della Zona sindacale, incarico confermato con la nascita del comprensorio.

Quando cominciò a spargersi la notizia dell’imminente partenza di Carlo Corretto per Napoli, destinato a ricoprire nel capoluogo campano l’incarico di direttore provinciale dell’Inca, Istituto Nazionale Confederale di Assistenza, il servizio di patronato della Cgil, più di un dirigente sindacale stabiese sperava di essere chiamato a ricoprire quel ruolo. La notizia di una scelta diversa da parte della segreteria regionale, caduta su Giovanni Zeno, fu accolta quindi con scetticismo, disappunto e qualche vena di preoccupazione.

Sindacalista di grande esperienza, Zeno era nato il 18 luglio 1943 ad Ercolano dove aveva maturato le sue prime esperienze politiche nel circolo giovanile comunista all’inizio degli anni Sessanta, per poi diventare funzionario della Federazione provinciale del Pci.

 

«Giovanni Zeno era un uomo già allora molto quadrato, nonostante la sua ancora giovane età dava un’idea di stabilità, di sicurezza. E anche quel suo modo ragionevole e costruito di parlare, di dire le cose, di rapportarsi agli altri, con grande sicurezza e determinazione, per me rappresentava un punto di riferimento di quello che erano i comunisti. Mi parlava molto della sua famiglia, di suo padre, della pesca dei suoi fratelli, di questo mondo popolare e affascinante…»8

 

Entrato nella Cgil si era formato nella categoria dei Braccianti, battendo le campagne del nolano, del giuglianese, del vesuviano e del salernitano.

 

«Ricordo di aver ascoltato il primo comizio di Giovanni in un’assolatissima piazza di Nola, non so se era luglio oppure agosto, di sicuro vi era un caldo torrido e Giovanni parlò dalle 11 alle 12, un’ora di comizio in una manifestazione di braccianti, donne e uomini riuscitissima. Il giorno dopo, con nostra grande sorpresa la leggemmo su tutti i giornali non solo locali ma anche sulle pagine nazionali dell’Unità. Non so se era il 1971 oppure il 1972.»9

 

Diventato Segretario Generale della Camera del Lavoro di Salerno nel 1977, dopo un’esperienza nella segreteria regionale della confederazione, fu protagonista dei famosi fatti di Persano, nella Piana del Sele, avvenuti il 7 novembre 1979

 

«quando nel corso di una manifestazione pacifica per la messa a coltura di quelle terre incolte appartenenti al demanio militare, vi furono violente cariche contro contadini e manifestanti da parte delle forze dell’ordine, con il fermo del segretario della Camera del Lavoro, Giovanni Zeno e del segretario della Federazione del Pci di Salerno, Paolo Nicchia (...).»10 

 

Nel 1981 fu eletto segretario regionale della potente categoria dei Trasporti (Filt) e in molti ancora ricordavano il memorabile sciopero dei trasporti a Napoli del 2 marzo 1987, quando rimase paralizzata l’intera città e si bloccarono i traghetti in partenza per le isole maggiori, Sicilia e Sardegna e perfino l’aeroporto di Capodichino si bloccò per due ore.

Giovanni ricordava con piacere quella giornata di sole, di quando salì in barca per vedere dal mare l’effetto del blocco portuale, il sapore della salsedine che gli ricordava la fanciullezza, di quando andava sul peschereccio di famiglia. E di quel giorno ricordava il comizio fatto nel cinema Armonia, dove si erano radunati i lavoratori, con Massimo Montelpari e altri.11

Giovanni Zeno era descritto, da quanti lo avevano in precedenza frequentato, come un uomo dal carattere difficile e di cui si poteva tranquillamente dire un gran bene come dirigente sindacale, ma anche un gran male sul suo temperamento d’uomo, soprattutto in tanti non esitavano a porre l’accento sul suo carattere astioso e vendicativo.

Si era alla vigilia del XII Congresso nazionale della CGIL, un’assise particolare perché per la prima volta, dopo quella del 1945, ci si sarebbe divisi su mozioni contrapposte: da un lato le tesi di maggioranza di quanti si richiamavano al Segretario Generale, Bruno Trentin (1926 – 2007), dall’altra quelle alternative di chi confluiva nell’area di Essere Sindacato, una corrente di sinistra critica nei confronti della politica incentrata sulla concertazione e costituita da Fausto Bertinotti, nella segreteria nazionale della Cgil fin dal 1985 e prossimo segretario di Rifondazione Comunista dopo le dimissioni di Sergio Garavini.

Nel più grande sindacato italiano si respirava un clima di contrapposizione, influenzato com’era dagli avvenimenti politici di quei mesi, con lo strappo di Achille Occhetto all’indomani della caduta del muro di Berlino e la nascita del Pds con il suo primo Congresso tenutosi tra la fine di gennaio e i primi giorni di febbraio di quel bollente 1991.

Nella Cgil le ripercussioni erano state inevitabili, amplificate dall’imminenza del congresso. A Castellammare, nella fase precongressuale si erano schierati con Essere Sindacato, pur senza aderire a Rifondazione Comunista, il segretario confederale, Alfonso Natale, la Fillea, con Raffaele Scala e Pasquale Nigro; una parte della Fiom con Luigi Russo, impiegato delle Raccorderie Meridionali e membro della segreteria comprensoriale dei metalmeccanici.

A Castellammare si conosceva la posizione politica di Giovanni Zeno, schierato con quanti si erano opposti alla nascita del Pds e come, nella imminente battaglia congressuale della Cgil, fosse vicino alle idee e al programma di cui si faceva portatrice Essere Sindacato. Chi scrive conobbe Giovanni Zeno proprio nel gennaio 1991, nel sotterraneo salone della Federazione napoletana del Pci in via dei Fiorentini, durante una rumorosa assemblea di quadri e militanti comunisti per una delle ultime discussioni sulla svolta che stava determinando la fine del Partito e la nascita della nuova formazione politica.

Il caso volle ci sedessimo accanto senza sapere niente l’uno dell’altro.

Lo ricordo benissimo, a distanza di tanti anni: Giovanni indossava il suo eterno cappotto blu e fumava una dopo l’altra Merit lunghe, le sue preferite.

Ci scambiammo dei commenti sui vari interventi, ma senza approfondire chi eravamo. Seppi più tardi, da Alfonso Natale, di essermi seduto accanto al nostro futuro segretario.

Per giorni fui preso in giro su questo episodio, insinuando per scherzo che mi fossi seduto appositamente al suo fianco per farmi conoscere anzitempo.

Qualche settimana prima del suo arrivo a Castellammare, Zeno cambiò la sua posizione politica, schierandosi, apparentemente senza alcuna motivazione valida, con le Tesi congressuali della maggioranza. Un ripensamento dell’ultima ora, probabilmente legato alla sua nuova e ormai prossima designazione alla guida del comprensorio vesuviano.

La stessa cosa fece Carlo Corretto nel momento in cui lasciava Castellammare, annunciando di passare con la maggioranza del Segretario Generale uscente, Bruno Trentin. Precedute da queste voci, il 26 aprile si tennero le consultazioni sul suo nome tra i gruppi dirigenti del comprensorio e il trenta di quello stesso mese fu convocato il direttivo sancendo il cambio della guardia tra Carlo Corretto e Giovanni Zeno, con il voto favorevole della pur forte minoranza congressuale.12

Nei giorni successivi si riuscì a costruire un clima unitario, già pensando alle strategie da realizzare subito dopo il congresso. Nella mente razionale e fredda del nuovo Segretario Generale già doveva esserci l’embrione di una piattaforma rivendicativa di largo respiro, come si evince da un ordine del Giorno della Camera del Lavoro emesso il 3 giugno:

 

«Da qui l’urgenza di riaprire, partendo dalla soluzione dei difficili problemi aperti nelle aziende, nei settori, nelle città, un processo d’elaborazione programmatica che veda impegnate insieme le strutture territoriali e le categorie. Una ricerca che renda protagoniste aggregazioni sociali, civili, religiose, nella costruzione di proposte che aprano itinerari sindacali e istituzionali al grande tema della connessione delle funzioni produttive dell’area con le direttrici nazionali ed europee dello sviluppo che avanzano nella fascia mediana della Regione Campania (…).»

 

Il terzo congresso del Comprensorio Vesuviano Esterno – Penisola sorrentina, si tenne il 27-28 giugno al Moon Valley di Vico Equense e fu tutto proteso, dalla relazione introduttiva, ai diversi interventi dei dirigenti di categoria, fino a quello dei delegati delle maggiori industrie, verso la carta rivendicativa ancora in fase di scrittura ma già ampiamente delineata nei suoi concetti cardine fin dalle prime riunioni preparatorie di quell’assise.

 

«La proposta rivendicativa non può che iscriversi nel più generale disegno di connessione dell’area campana ai sistemi di sviluppo del centro nord, di riqualificazione delle attrezzature di servizio (...)»

 

si scriveva nella relazione introduttiva, ricca di quei riferimenti sui trasporti e mobilità regionale frutto della sua lunga esperienza nella Filt Cgil, la potente Federazione Italiana Lavoratori Trasporti, facendo sintesi di una discussione già molto accesa, fino a infiammare gli animi dei gruppi dirigenti nelle loro diverse articolazioni.

 

3. La Carta rivendicativa

Il Congresso della Cgil si chiuse con la riconferma dei gruppi dirigenti, alcuni dei quali rinnovati soltanto da pochi mesi, ma non si dormì sugli allori. Le riunioni con le diverse categorie e in particolare con la Fiom, la Fillea, la Filcams e la Funzione Pubblica erano praticamente quotidiane. Si ricostruirono le cause delle cicliche crisi di ogni singola azienda, la loro storia, i fallimenti, le possibilità di ripresa, gli eventuali finanziamenti pubblici già stanziati a favore di opere, progetti e ristrutturazioni.

Si preparavano schede, si stilavano primi appunti, cercando di dare corpo a un’idea, sostanza a un progetto il cui contenuto prendeva sempre più forma e avanzava, seppure lentamente in ognuno dei dirigenti sindacali.

Per dare maggiore rigore al lavoro in atto fu chiamato l’ingegnere Roberto Gerundo, un professore universitario già impegnato in passato con la Cgil napoletana. Gerundo a sua volta si avvalse di un gruppo di giovani collaboratori con i quali andò elaborando il documento finale, dandogli un respiro più ampio e meglio definendo i vari capitoli: dal piano di riassetto territoriale a quello regionale dei trasporti, con particolare riferimento alle necessità dell’area torrese stabiese.

Impossibile dimenticare le lunghe estenuanti discussioni, fino a tarda ora, sulle possibilità dell’area, sul riassetto del territorio, sulle infrastrutture progettate e mai realizzate e riesumando quelle recuperabili da inserire nella piattaforma sindacale.

Si individuavano i fattori di sviluppo attraverso il riassetto urbanistico, la valorizzazione dei beni artistici e ambientali, la riqualificazione dell’apparato produttivo. Alla fine ne venne fuori un elaborato di ventisei pagine, presentato ufficialmente il 18 novembre alle forze politiche e istituzionali locali e alla stampa, presso l’Hotel Medusa di Castellammare, con tanto di premessa e capitoli

Intorno a questa nuova piattaforma lo scetticismo non mancava: troppe erano state le illusioni seguite dalle inevitabili delusioni negli anni ’80, troppi gli scioperi spesi, gli impegni assunti e non mantenuti per credere a un possibile, effettivo cambiamento.

Ma la crisi industriale mordeva e gli effetti nefasti dei processi di deindustrializzazione cominciavano a farsi sentire pesantemente sulla pelle degli operai, mentre gli iscritti nelle tre circoscrizioni del collocamento dell’area torrese stabiese, diventate quattro nel 1987, con la divisione dell’area tipicamente stabiese dai comuni della penisola sorrentina, crescevano irrimediabilmente, passando da 89.826 iscritti del 1986 ai 111.468 del 1994.

Un’operazione ritenuta necessaria fu quella di restituire dignità alla Camera del Lavoro di Torre Annunziata, da circa un decennio ridotta a sportello di servizio, nominando un responsabile che assumesse la direzione politica della Zona torrese.

Era questo uno dei tanti impegni mancati, assunti in un recente passato dalla Cgil comprensoriale e non mantenuti. C’era, infatti, chi ancora ricordava la Conferenza d’organizzazione dell’area torrese stabiese tenutasi a Castellammare il 7 novembre 1988 e dove si era deciso (…) «un’assunzione di responsabilità, in primis del gruppo dirigente comprensoriale (…)», come ebbe ad affermare Alfonso Natale, nella sua qualità di Responsabile organizzativo, nella relazione introduttiva a lui affidata.

In realtà tutto si ridusse alla nomina di un coordinamento guidato da Andrea Fiorillo, responsabile del patronato Inca di Torre Annunziata, con due delegati di fabbrica, Cesare Ciaravola, impiegato della Dalmine e Giuseppe Maresca, operaio dell’azienda farmaceutica Ciba, poi Novartis. Un coordinamento che per oggettive difficoltà operative non ebbe mai modo di funzionare.

In quell’autunno del ’91 si aprirono subito feroci polemiche e rivendicazioni municipalistiche da parte dei dirigenti delle fabbriche e del Pds di Torre Annunziata, sul nome del nuovo segretario della Camera del Lavoro oplontina, «Stanchi di subire il colonialismo da parte della vicina Castellammare», così almeno si esprimevano diversi dirigenti locali sindacali e di partito. In questa delicata fase il nuovo Segretario Generale della Cgil comprensoriale commise il suo primo gravissimo errore, mai più perdonato, quello di alimentare tra i gruppi dirigenti di Torre Annunziata, di partito e di fabbrica, la convinzione di poter scegliere autonomamente il Responsabile di Zona della Camera del Lavoro.

Questi avviarono, con scrupolosa serietà, al loro interno un’estenuante trattativa, fino a restringere la rosa di nomi a un paio di nominativi e infine avanzarono allo stesso Zeno, in via informale, una prima candidatura. L’approvazione da parte del Segretario Generale autorizzò il Comitato formatosi per l’occasione a proseguire in quella direzione per la nomina finale.

Nel frattempo altri fatti accadevano: il Congresso comprensoriale della Funzione Pubblica, nella primavera del ’91, aveva sancito il cambio di guardia del Segretario Generale della categoria, dal pidiessino Giuseppe Acanfora, chiamato ad assumere un nuovo incarico a Napoli, nell’ambito della stessa organizzazione, al socialista Antonio Santomassimo.

In quei mesi trascorsi a Napoli, Acanfora si era sentito come emarginato dalla categoria o forse più semplicemente non si era adeguato al suo nuovo incarico e quindi a più riprese aveva chiesto di rientrare a Castellammare.

Dalla Cgil stabiese, da parte di un gruppo di compagni, nacque allora l’iniziativa di proporre il suo rientro per affidargli il nuovo incarico in discussione. Giuseppe Acanfora era originario di Pompei, zona rientrante nell’area sindacale di Torre Annunziata.

Zeno si convinse ben presto che questa poteva essere effettivamente la soluzione migliore: affidare la Camera del Lavoro di Torre Annunziata a dirigenti senza nessuna esperienza di direzione sindacale, se non di ambito aziendale, poteva rappresentare un problema in più da gestire nella particolare e delicata fase in cui ci si stava muovendo per il rilancio del territorio, mentre Giuseppe Acanfora vantava una lunga esperienza di direzione nella Funzione Pubblica ed era un dirigente di provata capacità.

Una volta convintosi della bontà dell’operazione, Giovanni Zeno comunicò la nuova e definitiva decisione assunta ai gruppi dirigenti di Torre Annunziata, dimentico dell’impegno che con loro aveva assunto, provocando un immediato pandemonio.

Il fatto grave accadde la sera di venerdì 13 dicembre, quando fu teso un vero e proprio agguato al Segretario generale della Cgil comprensoriale. Giovanni fu invitato a partecipare a una riunione nella sede sindacale di Torre Annunziata per chiarire le diverse posizioni.

La riunione si rivelò in realtà una trappola perché, ancor prima d’iniziare una qualunque discussione, fu letteralmente aggredito e picchiato da Pasquale Popolo, il mancato responsabile della Camera del Lavoro, un dipendente comunale figlio di un carismatico dirigente locale del Pci scomparso nella primavera del 1976.13

Nell’aggressione furono coinvolti Alfonso Natale e Giuseppe Mogavero, i quali si erano offerti di accompagnare Zeno a Torre Annunziata perché messi in guardia da qualche sospetto.

Non a caso Alfonso era un profondo conoscitore della realtà torrese e dei suoi gruppi dirigenti.

I tre sindacalisti furono aggrediti dallo stesso Pasquale e da suo fratello Agostino. Al momento dell’aggressione nella Camera del Lavoro si trovavano Michele Perfetto, ex delegato sindacale della Dalmine, ora dirigente cittadino del Pds e Andrea Fiorillo, Responsabile del patronato locale dell’Inca Cgil e dotato di un certo ascendente sui compagni della sinistra di Torre Annunziata. Entrambi si trovarono a rivestire il disperato ruolo di pacieri in una situazione sfuggito a ogni controllo.

Qualche giorno dopo, Agostino Popolo, consigliere provinciale del Pds, già inserito alla vigilia di quelle elezioni amministrative in una sorta di lista nera redatta dal Prefetto sui candidati dei vari partiti, rispose sulla stampa alle accuse lanciate dalla Cgil.14

 

«In realtà a provocare sono stati i vertici comprensoriali, infatti, alla carica di Segretario della Camera del Lavoro doveva essere eletto mio fratello, ma loro hanno fatto proposte alternative che non avevano il consenso della base. Antidemocratici saranno perciò Zeno e la segreteria comprensoriale».15

 

Il 14 gennaio 1992 arrivò al comune di Torre Annunziata la comunicazione della sospensione dalla Cgil del dipendente comunale, Pasquale Popolo.

Negli stessi giorni Acanfora rientrava nella segreteria comprensoriale della Funzione Pubblica e, ormai superato lo scoglio delle ostilità originate dalla mancata nomina di Pasquale Popolo e con ogni velleità, definitivamente affossata dalla inopinata aggressione a Zeno, a scavalco ricopriva anche il ruolo di segretario confederale con l’incarico di Responsabile della Zona sindacale di Torre Annunziata.

Giuseppe Acanfora si mise al lavoro con l’entusiasmo dei suoi 37 anni e una gran voglia di mettersi ancora una volta alla prova. In quello stesso mese fu prodotto un documento di Lineamenti e indirizzi di quadro generale per la costituzione di una proposta di sviluppo dell’area torrese e un successivo Documento organizzativo di costituzione della Zona torrese, per dare il senso della svolta e del lavoro concreto che si intendeva svolgere su quel territorio.

Il 1992 era iniziato all’insegna della lotta operaia con i 470 dipendenti della Dalmine di Torre Annunziata, entrati in sciopero il 7 gennaio per protestare contro il pericolo della cassa integrazione e il mancato rispetto di un accordo in cui era stato previsto il rilancio dell’azienda, mentre a Castellammare continuava da mesi la protesta degli operai delle Raccorderie Meridionali.

Nel 1990 l’azienda era stata ceduta dalla Falck alla Prinefin di Bergamo, un gruppo finanziario che aveva rilevato lo stabilimento di Castellammare con l’intenzione di avviare una nuova produzione passando dai raccordi in ghisa, prodotto in cui da sempre era specializzato, al vetro soffiato e agli oggetti in ceramica.

Questa riconversione non vedrà mai la luce, continuando invece a produrre raccordi per conto della Falck.

Nel dicembre 1991 la mancata corresponsione della tredicesima mensilità aveva fatto precipitare la situazione provocando la reazione dei 145 lavoratori con la ripresa degli scioperi. Si mobilitarono le organizzazioni sindacali e le stesse confederazioni, consapevoli di trovarsi a fronteggiare una vertenza, la cui importanza andava oltre il mancato rispetto della paga, ma riguardava il futuro della stessa azienda, non offrendo la nuova proprietà prospettive sicure, avvolta com’era in una profonda crisi finanziaria.

La richiesta d’incontro inviata al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Nino Cristofori, non trovò immediata accoglienza, provocando una più rabbiosa risposta dei lavoratori, occupando il 18 dicembre l’aula consiliare. L’intenzione era di rimanervi fino a quando non fosse giunta la convocazione da parte del governo.

A sua volta, la Prinefin, dimostrando tutto il proprio disinteresse per l’azienda stabiese, rispose con l’abbandono dello stabilimento.

La notizia della convocazione da parte della Presidenza del Consiglio giunse alla vigilia di Natale, ma l’incontro avutosi l’8 gennaio 1992 si rivelò interlocutorio con i rappresentanti del gruppo bergamasco venuti alla riunione soltanto per ribadire il loro progetto di riconversione industriale, da realizzare a condizione di un finanziamento da parte del ministero dell’industria, da tempo richiesto e mai ricevuto.

Il sottosegretario s’impegnò, a sua volta, a seguire personalmente l’intera vicenda.16

A essere in crisi era l’intero apparato industriale del comprensorio come dimostrarono gli scioperi delle settimane successive, a partire dai Cmc e dall’Avis, le due aziende impegnate nel settore delle riparazioni ferroviarie, dove da tempo si parlava unicamente il linguaggio della cassa integrazione e della riduzione dell’occupazione, se non addirittura di chiusura per entrambi gli stabilimenti.

Il 31 gennaio e il 13 febbraio si rivelarono due giornate campali con centinaia di lavoratori trasformati in muraglia umana per paralizzare il traffico cittadino con i loro lunghi cortei, così come si fecero di nuovo sentire i dipendenti delle Raccorderie di fronte all’ennesimo mancato impegno della Prinefin, a corto di denaro per pagare gli stipendi. Febbraio trascorse tra minacce di licenziamenti, blocchi stradali, occupazione dell’aula consiliare e manifestazioni varie da parte dei lavoratori delle tre fabbriche metalmeccaniche.

A queste condizioni la proclamazione dello sciopero generale cittadino per il 6 marzo fu soltanto lo sbocco naturale di una tensione accumulata da troppo tempo, rappresentando l’avvio della mobilitazione dei lavoratori dell’area a sostegno della vertenza territoriale.

A tenere il comizio finale fu Natale Forlani, segretario nazionale della Cisl.

Alcuni giorni prima il 26 febbraio, c’era stato l’omicidio di un commerciante durante una rapina e questo aveva provocato tra i cittadini uno sdegno senza precedenti, con l’immediata risposta delle organizzazioni sindacali e della stessa Ascom, portando oltre 5mila persone a partecipare ai suoi funerali il sabato successivo. 

Sull’onda della protesta popolare l’associazione dei commercianti proclamò per il 4 marzo la serrata cittadina, invitando la popolazione a partecipare alla manifestazione per contrastare il fenomeno delinquenziale che stava uccidendo il commercio.

Il corteo, composto da migliaia di persone, partì da via Tavernola, dov'era il negozio del commerciante Michele Cesarano, barbaramente assassinato ad appena 51 anni per essersi opposto al tentativo di rapina, snodandosi per le strade della città fino a Piazza Municipio dove intanto era stato convocato un consiglio comunale aperto. In questa insolita sede una delegazione di commercianti consegnò un documento circostanziato con le varie richieste, utili secondo l’Ascom, a contrastare la criminalità diffusa e la micro delinquenza.

Il documento approvato dal consiglio comunale fu consegnato al Presidente della Commissione Antimafia, Gerardo Chiaromonte.17

Oltre diecimila furono invece i partecipanti allo sciopero generale del 6 marzo, rinverdendo i migliori giorni della vecchia Stalingrado del Sud, capace di riempire le strade e le piazze cittadine in una due giorni di straordinaria mobilitazione popolare contro la criminalità e la violenza quotidiana ormai insopportabile.

 

«Si apre – ricordò il segretario comprensoriale della Cgil, Giovanni Zeno nel suo comizio in villa comunale – con lo sciopero di oggi una vertenza complessa di lungo periodo, che richiede un impegno da parte del governo, della Regione e della Provincia. E’ necessario riorganizzare per Castellammare un sistema di servizi, sanità e delle pubbliche funzioni, della viabilità, dei trasporti e dei parcheggi. Tutto, naturalmente, presuppone che tutti, lo Stato, i lavoratori, gli imprenditori, le associazioni giovanili, quelle religiose diano il massimo impegno nella lotta contro la criminalità diffusa e per la sicurezza dei cittadini».18

 

Ma contro la violenza diffusa prevaleva l’impotenza e a nulla servivano le marce di proteste, gli scioperi, le grida di dolore di quanti chiedevano una presenza più capillare dello Stato, una più rigorosa applicazione delle leggi vigenti, punizioni esemplari per quanti si macchiavano dei reati più gravi.

Perfino le baby gang si facevano beffa dello Stato pestando e disarmando un poliziotto intervenuto per fermare una ventina di ragazzi intenti a lanciare pietre contro le auto che transitavano per via Bonito, sul lungomare stabiese, nella notte dell’otto marzo. All’intimazione di farla finita i giovani teppisti lo assalirono, in particolare due sedicenni continuarono a pestarlo fratturandogli il setto nasale e procurandogli diverse contusioni, scappando poi via con la pistola d’ordinanza dell’agente.19

Un’arroganza che non si fermava di fronte a niente e a nessuno, arrivando a chiedere la tangente perfino all’impresa che doveva realizzare il palco con relativo altare da realizzare per la visita del Papa, Giovanni Paolo II prevista per il 19 marzo a Castellammare, lasciando interdetta la stessa Santa sede e provocando la sdegnata reazione dell’Osservatore Romano.

Di per sé piccoli fatti di cronaca, poca cosa rispetto a quanto stava accadendo negli ultimi anni, a quanto ancora doveva accadere. Infatti non si era ancora spenta l’eco dell’omicidio del negoziante di articoli sportivi, Michele Cesarano e della grande risposta civile data dalla città, quando, l’11 marzo, Castellammare ripiombò nel terrore con l’omicidio del consigliere comunale del Pds, Sebastiano Corrado.

Figlio di un operaio comunista dei cantieri Metallurgici, da dodici anni dipendente dell’Usl 35, dove rivestiva il delicato compito di responsabile dell’economato e presiedeva la commissione d’appalto del servizio mensa, e lo smaltimento dei rifiuti e dei lavori interni all’ospedale,  Sebastiano Corrado era stato un militante del Partito Repubblicano fino al 1987, candidandosi l’anno successivo per le amministrative da indipendente per il Pci conquistando 1.200 preferenze, secondo tra gli eletti della sua lista.

Il primo dei suoi due figli era Nicola Corrado, studente universitario impegnato in una associazione anticamorra e attivo militante del circolo della Sinistra Giovanile del Pds.

Tre anni prima, il 31 luglio 1989, con una lettera al Presidente della Giunta Regionale della Campania, unitamente agli altri membri comunisti, Sebastiano Corrado aveva dato le dimissioni da consigliere dell’Usl 35 del comprensorio di Castellammare di Stabia.

 

«Tale gesto si è reso necessario per denunciare nel modo più clamoroso lo sfascio cui è giunta la gestione della sanità nella nostra zona (…)».20

 

La notizia del barbaro omicidio conquistò immediatamente le prime pagine dei giornali nazionali, dall’Unità alla Repubblica, dalla Stampa al Corriere della Sera e da tutti fu rappresentato come un eroe dei nostri tempi, un martire sacrificatosi per i suoi ideali, un onesto, un uomo semplice e bravo e a suffragare questo diluvio di aggettivi positivi fu lo stesso commissariato di polizia facendo trapelare la figura esemplare di Sebastiano Corrado, un uomo che stava dalla parte giusta.

Quindi per tutti fu un omicidio di camorra contro una persona perbene e ancora una volta, appena il giorno dopo l’efferato delitto, giovedì 12, la Castellammare civile e democratica fece sentire la sua voce, la sua protesta, con una straordinaria, indimenticabile marcia anticamorra in cui, ancora una volta sfilarono oltre 10mila cittadini.

La testa del corteo, il cui concentramento era stato stabilito a Piazza Spartaco, l’antica largo Fusco, fu lasciata ai ragazzi dell’Associazione, I care, guidata da Nicola Corrado.

Seguivano i parlamentari del Pds, Giorgio Napolitano, della Dc, Flaminio Piccoli (1915 – 2000) e il vice segretario della Cgil, Ottaviano Del Turco.21

A rendere omaggio alla famiglia della vittima vennero il Segretario generale Aggiunto della Cgil, Ottaviano del Turco, oratore nel comizio in Piazza Municipio, durante lo sciopero generale del 12 marzo, il Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga (1928 – 2010), venuto a Castellammare in visita privata per chiedere scusa alla famiglia a nome della nazione, «Il mio tremendo pellegrinaggio laico di dolore, di sdegno, di condanna, di solidarietà e di incitamento», dichiarò poi alla stampa. E nella città stabiese venne anche il segretario dei Pds, Achille Occhetto, spintosi a denunciare «Il martirio di un onesto, colpito perché in prima fila contro la camorra».22

L’ultimo omaggio, prima che la verità cominciasse a venire a galla, fu dell’organo ufficiale della Santa sede, l’Osservatore Romano, inserendolo il 18 aprile in un elenco di servitori dello Stato uccisi da una criminalità sempre più proterva, a fianco di uomini come il giudice Rosario Levatino, ucciso dalla mafia a 38 anni, il sovrintendente di polizia, Salvatore Aversa e tanti altri giudici, poliziotti, carabinieri e per ultimo l’esponente politico stabiese, Sebastiano Corrado. In realtà non ci fu neanche il tempo di seppellirlo e già cominciarono a circolare le prime voci, le prime insinuazioni, i primi sospetti.

Lo scandalo venne fuori, giorno dopo giorno, quando si cominciò a scoprire come “l’integerrimo” funzionario dell’Usl 35 ed ex sindacalista aziendale della Cgil, simbolo della lotta alla corruzione, era in realtà un boss delle tangenti ucciso perché non voleva spartire una mazzetta da 400 milioni.23

Infine arrivarono le prove testimoniali di come Sebastiano Corrado, «era organico a un sistema di tangenti che ruotava intorno all’Usl 35».24

Il 19 giugno ci fu il primo di una serie di blitz dei carabinieri con l’arresto di 54 indiziati, tra loro sindacalisti, consiglieri comunali, ex parlamentari, imprenditori senza scrupoli, alcuni dipendenti della stessa Usl. Tra gli arrestati della tangentopoli campana i nomi eccellenti dell’ex senatore Francesco Patriarca e Vittorio Vanacore, quest’ultimo

 

«per un trentennio padrone incontrastato della sanità stabiese, prima come Presidente dell’ospedale San Leonardo, poi ex Presidente del Comitato di gestione dell’USL e infine dell’assemblea dei garanti. Da quattro mesi è latitante».25

 

Poi arrivarono i primi pentiti a scoperchiare la fogna infinita degli appalti truccati e l’inizio di un processo senza fine per i 38 rinviati a giudizio nell’aprile del 1993.

In questo drammatico contesto la visita ampiamente e lungamente programmata per il 19 marzo di Papa Giovanni Paolo II, il polacco Karol Wojtyla (1920 – 2005) sembrò portare, almeno per quel giorno, una ventata di pace e di serenità agli oltre 50mila accorsi ad ascoltarlo, riempiendo fino all’inverosimile la Villa Comunale.

Memorabile la sua visita nella fabbrica simbolo di Castellammare, la Fincantieri, con l’intervento del Rappresentante di Fabbrica della Fiom, Francesco Avallone. Il delegato sindacale parlò della crisi delle fabbriche, della fame di lavoro, della necessità di difendere la dignità operaia. Grandi applausi, operai in lacrime, alcuni in ginocchio al suo passaggio verso il palco dove si teneva l’incontro con le maestranze, tutti estasiati dalla visita del papa venuto da lontano e già in odore di santità.26

Ma il papa andò via, una meteora passata senza lasciare nessuna traccia, mentre la crisi mordeva sempre più pesantemente.

Lo scioglimento del consiglio comunale di Castellammare di Stabia, deciso il 22 settembre dal Prefetto Umberto Improta, a seguito delle dimissioni di 39 consiglieri su 40, sembrò la decisione più giusta per chiudere una fase tremenda e iniziare un tempo nuovo. La città fu affidata a Goffredo Sottile, affiancato, in virtù della complessa e particolare situazione stabiese, da tre funzionari, Pasquale Manzo, Maria Elena Stasi e Gaspare Mannelli. 

Pochi mesi, il tempo di arrivare alle nuove elezioni amministrative del 13 dicembre, quando nuovi partiti si affacceranno alla ribalta della politica mentre la Democrazia Cristiana si sta avvitando nella spirale di una crisi senza ritorno portandola alla sua definitiva scomparsa, travolta da una tangentopoli nata sottovalutando la sua portata e invece porterà alla fine della prima Repubblica.

Castellammare sarà una delle prime città sulla quale soffierà il nuovo vento favorevole alla sinistra, ritornata al potere dopo quindici anni, riuscendo a tenerselo stretto nei successivi venti anni, prima di perderlo per la sua incapacità di capire.

Il 30 gennaio 1993 fu eletto sindaco di una maggioranza di sinistra, il docente universitario, Catello Polito un 52enne eletto per la prima volta nelle file dell’ex Pci il 26 novembre 1972, assessore nelle diverse barcollanti Giunte di sinistra del socialista Flavio Di Martino tra il 1973 e il 1975, in quella guidata da Liberato De Filippo nel 1976, l’ultimo sindaco del Pci nella Castellammare della prima Repubblica, e da Giovanni La Mura nel 1978.

Alla testa di un pentapartito composta da Pds, Psi, Pri, Psdi e Verdi, mentre Rifondazione garantiva l’appoggio esterno inaugurando, quest’ultimo, un modo di fare politica poco consono alla storia del Pci, di cui pure si considerava l’unico erede e continuatore, Catello Polito affronterà la sua nuova avventura politica percorrendo una strada irta di difficoltà e trabocchetti, costringendolo a continue mediazioni tra le diverse anime dei partiti di maggioranza.

Non a caso in questa sua prima consiliatura si avranno ben tre amministrazioni con un continuo turn over nei diversi assessorati, rimanendo ben saldo sulla poltrona di primo cittadino e diventando uno dei protagonisti della battaglia politica e sociale della Castellammare degli anni Novanta, in prima fila nelle numerose lotte operaie condotte da Cgil, Cisl e Uil comprensoriali.

 

4. Il riconoscimento dell’area di crisi

La venuta del papa con le sue parole di pace e di speranze non fermarono, neanche per un giorno la feroce guerra di camorra. A Castellammare ripresero gli omicidi degli affiliati tra i clan in lotta e tornarono le proteste dei lavoratori delle fabbriche, sempre più sotto l’incubo senza fine della cassa integrazione e dei licenziamenti: dai Cmc alle Raccorderie Meridionali, dall’Avis ai Cantieri navali.

Non meno drammatica la situazione nella vicina Torre Annunziata con la Dalmine, la Deriver, l’ex Italtubi e la Scac in continua fibrillazione.

Le diverse articolazioni di lotte e manifestazioni culminarono nella proclamazione di due nuovi scioperi generali, il 26 novembre a Castellammare e il 1° dicembre di quel terribile 1992 a Torre Annunziata.

A concludere la manifestazione dei diecimila, nella Villa Comunale stabiese, venne il segretario nazionale della Cgil, Angelo Airoldi (1942 – 1999), cogliendo un malumore operaio rivolto contro i vertici sindacali, incapaci di dare risposte alla drammatica situazione vissuta nelle fabbriche in crisi e sempre più senza prospettive.

Di questo se ne resero ben conto i vertici della politica nazionale, giunti uno dopo l’altro nella Città delle Acque in occasione delle amministrative del 13 dicembre, Dal socialista Bettino Craxi, per la prima volta a Castellammare, al pidiessino Achille Occhetto, dal democristiano Mino Martinazzoli al comunista Sergio Garavini, dal missino Gianfranco Fini, per finire con l’ex democristiano Leoluca Orlando, fondatore del movimento politico, La Rete.

Un anno senza fine quel 1992, a suo modo spettacolare e terribile, un thriller mozzafiato ricco di colpi di scena, con riunioni annullate, impegni disattesi, e la samba infernale prodotta da una classe operaia esasperata ma non doma, tra marce, cortei, sit in, blocchi stradali e ferroviari, veglie laiche e religiose, fino agli scioperi generali proclamati ormai in serie per produrre il risultato di un’ultima e ormai obbligata tappa romana, con la convocazione a Palazzo Chigi del 3 dicembre, dove ad attendere le organizzazioni sindacali furono il sottosegretario alla Presidenza del consiglio, Fabio Fabbri, il sottosegretario all’Industria, Felice Iossa e il Presidente del Coordinamento delle Iniziative per l’Occupazione, Gianfranco Borghini.

La neonata Task Force si era costituita in settembre, per volontà del Presidente del Consiglio, il socialista Giuliano Amato, con l’intenzione di creare uno strumento specifico in grado di seguire le situazioni di crisi delle aree industriali del Paese e darvi soluzione utilizzando misure eccezionali concordate con i diversi ministeri competenti e con lo stesso governo.27

L’incontro era naturalmente interlocutorio, nonostante fosse seguito di persona dalle 145 unità lavorative delle Raccorderie Meridionali, accampate in strada ad attendere la conclusione della riunione.

Questi sapranno poi come il piano presentato dall’industriale milanese, Rinaldini, non era stato ritenuto attendibile dal ministero dell’Industria e quindi invitato a ripresentarlo con maggiori garanzie, se voleva il finanziamento di 30 miliardi per produrre i suoi oggetti in porcellana.

In successivi incontri si sarebbero poi affrontate le diverse questioni, riguardanti l’intero apparato industriale dell’area, attraverso un vero e proprio programma di rilancio.

Un incontro interlocutorio quindi, ma anche l’instaurarsi di un rapporto costante, interrotto soltanto dal continuo defatigante ricambio di protagonisti per il continuo avvicendarsi nel complesso e complicato scenario politico italiano, ormai diviso fra centro destra e centro sinistra, in una contrapposizione che, di fatto, indebolì fino al naufragio il risanamento dell’area.

Ben 12 governi in 15 anni, con sei Presidenti del Consiglio alternatosi tra loro, spesso annullando quanto fatto dal predecessore, rappresentano uno dei motivi dello sfascio, non solo economico e sociale, in cui precipiterà il Paese nel secondo decennio del XXI secolo, fino a mettere in discussione il suo stesso futuro.

Con il governo di centro destra uscito vincitore dalle elezioni politiche del 2001, il contratto d’area divenne un residuo di cui liberarsi al più presto.28

L’unico interlocutore stabile si rivelò Gianfranco Borghini, antico segretario regionale della Lombardia e membro del Comitato Centrale del Pci negli anni ’70, ora inossidabile Presidente della Task Force, passato indenne attraverso l’altalena dei governi che si susseguivano, indipendentemente dal loro colore politico.

Il 1993 iniziò come si era chiuso l’anno appena scomparso, con gli operai della Fincantieri in piazza, sempre più preoccupati per il loro futuro, al punto da picchettare il loro stabilimento con turni di squadre operaie, in una sorta di occupazione soft, come segnale all’azienda e al potere politico di non essere disponibili a cedere su nessun fronte.

Non meno drammatica la situazione delle altre fabbriche storiche della Stalingrado del Sud, dall’Avis con la metà dei dipendenti in cassa integrazione, alle Raccorderie Meridionali, il cui piano di riconversione industriale per la produzione di porcellane, presentato da un imprenditore milanese era stato respinto dalla stessa Presidenza del Consiglio in quanto poco attendibile, mentre la stessa Cmc rimaneva in attesa di commesse dalle Ferrovie dello Stato.29

Ma le promesse erano destinate a rimanere tali nonostante gli impegni solenni dell’Amministratore straordinario delle Ferrovie dello Stato, Lorenzo Necci, chiamato a portare a compimento un severo piano di ristrutturazione e di ridimensionamento dell’ente, di assegnare nuovi lavori agli stabilimenti stabiesi dell’Avis e della Cmc, impegni formali li prese anche il Ministro dei Trasporti, Giancarlo Tesini, garantendo 450 miliardi a sostegno della cantieristica in attuazione della sesta direttiva Cee.

Chi non aveva santi cui appendersi erano invece i 50 edili a rischio licenziamento della Cedelt, impresa appaltatrice dell’Enel.

I dipendenti erano da diversi giorni in sciopero, ma la loro protesta sembrava non trovare sufficiente spazio, soffocati da vertenze più grandi di loro, ma non per questo si perdevano d’animo riuscendo a inscenare rumorose manifestazioni tra Castellammare e Centro Direzionale di Napoli, dov’era la sede centrale dell’Ente nazionale per l’energia elettrica.  

Spirito d’iniziativa e fantasia che non mancava nemmeno agli operai della Fincantieri e delle altre fabbriche ormai boccheggianti, così si sprecarono le veglie con la presenza dello stesso vescovo Felice Cece, le marce, i presidi, i blocchi stradali e ferroviari, i negozi chiusi e le luci spente in segno di solidarietà e non si contavano i summit con i sindaci della zona, il Prefetto di Napoli, il Presidente della Regione Campania.

Tra gennaio e febbraio ci fu una lunga teoria di cortei e manifestazioni di protesta dell’Avis, della Fincantieri, dei Cmc, della Deriver.

Per la prima volta alle manifestazioni dei metalmeccanici, da sempre protagonisti unici delle piazze di Castellammare di Stabia e Torre Annunziata, si vide la partecipazione compatta dei lavoratori edili, dipendenti delle più importanti imprese del settore delle costruzioni, come l’Elettrostabia e la Cedelt, specializzate nella costruzione e installazione di impianti elettrici per conto dell’Enel e consorzi edili operanti nell’ambito di grandi appalti pubblici come la Disa, impegnata nella realizzazione del depuratore alla foce del fiume Sarno, della Coop Sud, che stava realizzando la Strada SS 268, della Canalsarno, impegnata nella copertura del canale artificiale denominato Conte di Sarno.

Alla pari delle leggendarie tute blu combattevano gli edili e lo stesso filo da torcere davano i lavoratori del settore del cemento e dei manufatti, come la Scac, la Tecnotubi, ex Italtubi e l’Imec.

Resi più forti da manifestazioni senza precedenti per partecipazione popolare, continuità e rabbia espressa, Cgil Cisl Uil denunciavano come nonostante

 

«(…) l’intenso e serrato confronto sui problemi dell’emergenza industriale e occupazionale strettamente connessi alla configurazione di un piano di reindustrializzazione e rilancio produttivo dell’area torrese stabiese (…)»

 

il confronto vivesse ormai un vero e proprio blocco. I sindacati denunciavano quindi, «l’assenza sull’intera vertenza di scelte di politiche industriali nazionali».

Da qui, in mancanza di risposte certe, la decisione di programmare un vero e proprio calendario di lotte, con protagonisti delle spettacolari, a volte drammatiche proteste, i lavoratori delle maggiori industrie delle due città e in particolare metalmeccanici e lavoratori del settore delle costruzioni, con l’occupazione dell’autostrada, dei binari della Circumvesuviana e delle Ferrovie dello Stato, assemblee permanenti delle fabbriche, veglie e preghiere pubbliche del Vescovo Felice Cece.

Mentre vittime indifese e predestinate erano quasi sempre gli incolpevoli viaggiatori dei treni e i poveri automobilisti paralizzati dalle improvvise, rabbiose iniziative dei cipputi dell’area torrese stabiese.

S’intrecciavano ora gli incontri in prefettura, mentre saltavano i cosiddetti tavoli ministeriali, spesso alternati da riunioni fatte con i sindaci delle città interessate, con il Presidente della Provincia e con quello della Regione.

Da ognuno una promessa senza possibilità di essere mantenuta, impegni quasi sempre cancellati dall’impossibilità di portarli a termine, provocando nuove ondate di protesta, in una sorta di tourbillon senza fine.

L’incontro tanto agognato si tenne il 10 marzo con Fabio fabbri, sottosegretario del Presidente del Consiglio, Giuliano Amato. Tra impegni e promesse, il varo di un decreto legge, il 57/93, dove, per la prima volta si definiva questo territorio, Torrese Stabiese, riconoscendolo area di crisi e si stanziavano trenta miliardi di lire quale finanziamento straordinario per interventi sul territorio e a sostegno dell’occupazione.

Durante la riunione nella sede del governo, dove erano presenti diversi ministri, molti parlamentari campani e lo stesso Prefetto di Napoli, per sostenere la gravità del momento, Cgil Cisl Uil territoriale presentarono i loro, Obiettivi di programma. Selezione rivendicativa per l’area torrese stabiese, con le proposte di ristrutturazione dell’apparato produttivo, delle infrastrutture da realizzare e poi più complessivamente i vari interventi necessari sull’ambiente e nell’economia per il risanamento e lo sviluppo di quella fascia costiera a sud di Napoli.

Sette pagine dense di contenuto ma senza futuro. Un comunicato della Presidenza del Consiglio elencava gli impegni assunti, riconosceva la validità del documento sindacale, assicurava come (…) esso «sarà utilizzato nell’ambito del lavoro preparatorio che è necessario iniziare immediatamente (…)» e stilava un calendario di nuovi incontri.30

Le organizzazioni sindacali, invece, da un lato prendevano atto di un primo riconoscimento di un’intensa stagione di lotte, di proposte, di negoziati, ma dall’altro si rilevava come

 

«(…) queste misure governative recano ancora il segno di una vecchia pratica di distribuzione di risorse su aree di crisi senza una programmazione di sistema (…)».

 

Ancora una volta il documento unitario ripercorreva la necessità d’interventi globali che puntassero alle infrastrutture, all’ambiente, all’economia urbana, a una moderna rete informativa.

Le riunioni erano diventate quasi quotidiane, gli impegni assunti non si contavano, i progetti non mancavano e i finanziamenti neanche, eppure la situazione continuava a precipitare perché niente di quanto si diceva e scriveva era poi confermato dai fatti concreti.

Solo la cassa integrazione era prorogata e anche questa, per averla, bisognava spesso lottare con i denti e con le unghie, mostrando la faccia cattiva e il cuore violento, soprattutto, per essere ascoltati, era obbligatorio infrangere la legge, causando problemi di ordine pubblico e disagi sociali, senza i quali la protesta era raccolta soltanto dal vento.

Il Decreto Legge fu reiterato per essere poi trasformato in L. 236 del 19 luglio ma non per questo la situazione andò modificandosi, anzi, gli “Interventi urgenti a sostegno dell’occupazione”, rimasero lettera morta, provocando nuove e più esasperate reazioni da parte dei lavoratori, con iniziative di lotta sfocianti nell’ennesima occupazione dell’autostrada Napoli - Salerno, delle stazioni ferroviarie dello Stato, della Circumvesuviana e della strada statale sorrentina.

Il bivio di Pozzano era la vera arma segreta utilizzata dai lavoratori dell’apparato industriale stabiese per rivendicare i propri diritti calpestati. Un imbuto micidiale le cui conseguenze ricadevano per intero sugli incolpevoli automobilisti, turisti e pendolari che, a migliaia, su quell’unico, obbligatorio nastro di strada statale, Castellammare Sorrento e viceversa, rimanevano bloccati per ore a cuocere sotto il sole oppure a marcire al freddo.

E spesso i lavoratori occupavano Palazzo Farnese, sede del municipio stabiese, governato, dopo le vittoriose elezioni amministrative del 13 dicembre 1992, da una coalizione di Centro sinistra, retta dal sindaco pidiessino, Catello Polito, vecchio militante del Partito Comunista Italiano fin dai primi anni Settanta, “La nuova primavera politica della sinistra” continuerà nel giugno del 1993 a Gragnano, portando nuovamente al governo della città una Giunta di sinistra dopo l’unica breve esperienza del 1956.

A essere eletto sindaco sarà Sergio Troiano, forte del 72% dei consensi conquistati alla testa di una coalizione comprendente Pds, Rifondazione comunista e una lista civica, Insieme per Gragnano, composta di verdi, retini, Acli e liberi professionisti, laici e cattolici.31

A rendere ancora più drammatiche queste giornate di lotte fu il suicidio di Antonio Ferrara, operaio della ditta di pulizia, La Fulgente, operante all’interno della Deriver. Ferrara aveva 45 anni ed era padre di quattro figli, rappresentante sindacale della Filcams Cgil, quando, temendo il licenziamento, s’impiccò nel bagno della direzione aziendale, il 18 marzo 1993.32

Per testamento lasciò un messaggio che una società arida come la nostra non è in grado di cogliere e di trasmettere ed è pronta a dimenticare quasi subito, fino al successivo suicidio, producendo nuove lacrime di coccodrillo e così via in una spirale infinita dalla notte dei secoli: Senza lavoro non è possibile vivere. La solidarietà arrivò, naturalmente, dagli operai favorendo una raccolta di fondi da destinare alla famiglia.33 

E ancora la mattina del 6 aprile, quando gli operai delle diverse aziende metalmeccaniche di Castellammare e di Torre Annunziata occuparono per 15 ore consecutive l’autostrada nei due sensi di marcia, all’altezza del casello di Torre Annunziata.

La notte seguente una Renaut 21, dopo essere entrata sull’autostrada, nel senso inverso di marcia, andò a schiantarsi contro un carrello elevatore frontale, proprio quando gli operai, su sollecitazioni della polizia, stavano togliendo il blocco autostradale. A lasciarci la vita fu una ragazza polacca di 27 anni, Agatha Balka, mentre l’amico alla guida dell’auto, il 37enne Riccardo Della Gatta, rimase gravemente ferito.34

Nell’infernale black aut era rimasto bloccato nel traffico, tra gli altri, il senatore del Pds, Gerardo Chiaromonte (1924 – 1993), di ritorno da Napoli. Gravemente ammalato, il vecchio dirigente morirà quella notte stessa nella sua casa di Vico Equense. Feroci polemiche accompagneranno la sua morte, con l’accusa agli scioperanti di essere stati la causa indiretta del malore che avrebbe colpito il senatore, già in dialisi.

La moglie, Bice Foà, anch’essa antica militante del Pci, in un’intervista alla stampa, prenderà le difese dei lavoratori in lotta, ponendo fine a ogni altra strumentalizzazione del caso.

L’estate e l’autunno trascorsero accompagnate dal martellante ma inutile lottare dei lavoratori delle diverse fabbriche. Manifestazioni operaie e incontri istituzionali erano ormai il binomio imprescindibile ma senza costrutto perché il loro unico valore era di calmare le acque per non più di due giorni, poi tutto ricominciava daccapo, come un vecchio ritornello, tanto più fastidioso, quanto più si presentava inconcludente.

Il trittico era sempre lo stesso: assedi al municipio, blocco dei binari o dell’autostrada, incontro in prefettura.

Questa routine cominciò a far perdere ogni giorno sempre di più la credibilità nei confronti delle istituzioni ma era ancora salda la fiducia nel gruppo dirigente sindacale.

Si lottava per la proroga della cassa integrazione, per avere certezze sul futuro del proprio stabilimento, per chiedere chiarezza sui piani di risanamento, sui programmi di sviluppo, per dare forza al sindacato nelle sue richieste al governo, per dare finalmente una svolta alle questioni poste.

La situazione più drammatica era sempre rappresentata dai lavoratori delle Raccorderie Meridionali, azienda ormai abbandonata a se stessa da imprenditori felloni, di cui si erano perse perfino le tracce e da mesi, ormai, i dipendenti non percepivano neanche lo stipendio, esasperando oltre misura gli animi e provocando il primo strappo nei confronti del sindacato e in particolare della Cgil, anche da parte di militanti di profonda fede come Luigi Russo e Ignazio Longobardi, comunisti da sempre, da generazioni, dirigenti sindacali di provata fede e capacità. L’eresia avvenne il 20 maggio 1993, durante l’assemblea del Comitato direttivo della Cgil comprensoriale, con i lavoratori delle Raccorderie Meridionale che invasero pacificamente il salone delle riunioni prendendo la parola con Luigi Russo, egli stesso membro del direttivo e Rappresentante del Consiglio di fabbrica, usando parole dure sul modo di condurre la difficile vertenza.

Il giorno dopo la segreteria della Camera del Lavoro emise un duro comunicato indirizzandolo al Consiglio di Fabbrica delle Raccorderie:

 

«Quanto avvenuto giovedì 20 u.s. costituisce un fatto di notevole gravità politica. La comprensibile esasperazione data dalle condizioni dei lavoratori delle Raccorderie Meridionali in prossimità di una scadenza che può risultare vitale per la concreta prospettiva di tante famiglie non giustifica il modo con il quale si è intervenuti nella riunione del comitato direttivo Cgil. Le ragioni espresse dal compagno Luigi Russo non sono state motivate perché nel merito della vertenza specifica, delle scelte e dei comportamenti della nostra organizzazione e di quelli unitari si è chiarito e precisato nell’incontro avvenuto in prefettura lunedì 17 u.s. e poi nell’attivo dei delegati del 19 maggio (…).» 35

 

A Luigi, 43 anni di cui 22 trascorsi in fabbrica, altrettanti nel Pci e nella Fiom, rivestendo ruoli di primo piano a livello locale in entrambe le organizzazioni, l’Unità dedicò, quasi un anno dopo, il titolo di un articolo definendolo la sentinella della fabbrica fantasma.

 

«Luigi Russo fa l’operaio da più di vent’anni, ora la sua fabbrica è chiusa da un bel pezzo ma lui è ancora lì, aspetta che l’azienda riprenda a funzionare. I proprietari dell’azienda fantasma non possono sentire il suo nome, perché Luigi è un osso duro. Passa tutti i giorni negli uffici vuoti in compagnia di un amico e un cane, <Napolione>. E’ da maggio che lui e gli altri operai non percepiscono più nemmeno l’assegno di cassa integrazione.» 36

 

La svolta, dopo quella del riconoscimento dell’area di crisi e lo stanziamento dei 30 miliardi per incentivare gli imprenditori ad assumere lavoratori in cassa integrazione da reimpiegare in nuove attività produttive e i 19 miliardi per acquisire aree dismesse, sembrò essere quella del 5 novembre, quando, presso la Presidenza del Consiglio sarà sottoscritto il Protocollo d’Intesa con il quale s’intendeva dare priorità all’area torrese stabiese, insieme all’area orientale di Napoli e a quella di Bagnoli, attraverso iniziative

 

«che si dovranno concentrare sul mercato del lavoro, sulla deindustrializzazione e sulle infrastrutture, anche attraverso un Consorzio di Promozione d’impresa, società a partecipazione mista pubblico privato, che dovrà coinvolgere, di volta in volta, i soggetti disponibili (regione, Comuni, Spi, Gepi, istituti bancari e altri).»37

 

Poi venne il Contratto d’Area, l’illusione di un sogno che sembrò diventare realtà, ma era, appunto, soltanto un sogno… che tale rimase.

 

(Prima Parte)

 

Note

1 Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, BUR, 1992: «Per me "fine della storia" non significa "fine degli eventi" ma la cessazione hegeliana delle contraddizioni dello spirito, con la società liberale punto supremo di sviluppo. Il pericolo è dato ora dall’avvento di persone libere ma con l’animo da schiavi, derelitti senza ambizioni.» Cfr. Corriere della sera del 18 febbraio 1992, La storia marcia verso l’ultimo uomo, intervista allo scrittore, di Gianni Riotta.  Lo stesso autore, in un’intervista al settimanale l’Espresso, dieci anni dopo, rettificherà la sua posizione affermando che in realtà la storia non poteva considerarsi finita con la caduta del muro di Berlino. Cfr. L’Espresso n. 26 del 28 giugno 2012, pag. 112-114: Rettifico: la storia continua, colloquio con Francis Fukuyama di Maciej Stasinski.

2 Sull’argomento cfr. L’ Unità del 5 dicembre 1989: A Napoli appassionato confronto tra i no e i sì, art. di Vito Faenza; Il Mattino del 7 gennaio 1991, Il PCI dà i numeri, art. di Massimo Baldari; Arcipelago, febbraio 1990: PCI, stravince il sì; I sì e i no degli operai di Bagnoli, art. di Mario Riccio.

3 Cronache, a. III, n. 3, aprile 1989: Ersilia Salvato entra nella Direzione del PCI .

4 Luigi D’Auria farà arrivare il suo disaccordo sulle pagine dell’Unità sfruttando alcune pagine che il quotidiano metterà a disposizione dei militanti, pubblicando le loro opinioni sulla bollente questione. Cfr. l’Unità del 24 dicembre 1989: Abbattiamo piuttosto “il muro d’Italia”. All’Italcantieri di Castellammare votò il 61% dei 297 iscritti, facendo prevalere il no con l’87% (159 voti) contro il 13% (23 voti) dei favorevoli. Cfr. l’Unità dell’11 febbraio 1990, l’art: I sì e i no degli operai di Bagnoli, di Mario Riccio.

5 Le cifre ufficiali dell’Operation Iraqi Freedom, aggiornate al 18 ottobre 2018, i caduti della coalizione dall’inizio della guerra, nel lontano 2003, ammontano a 4.878, di cui 10 nel 2015, 21 nel 2016 24 nel 2017 e 15 nei primi dieci mesi del 2018, con oltre 40.000 feriti. Il costo più alto è pagato, naturalmente, dai militari americani con 4.555 caduti, 181 inglesi, 33 italiani 23 polacchi, 18 ucraini, 13 bulgari, 11 spagnoli, complessivamente 142 i morti tra le restanti forze alleate. Questi dati non tengono conto di almeno 6.500 suicidi (altre fonti scrivono di 8mila) avvenuti ogni anno tra i militari americano rientrati a casa, in prevalenza giovani e dei mercenari assoldati come guardie del corpo o, comunque, come servizi di sicurezza al soldo delle società occidentali operanti in Iraq, ad oggi un numero ormai incalcolabile. Nel tragico conto dei morti vanno aggiunti gli oltre 10.000 caduti iracheni, altri 10.000 sono i poliziotti impegnati nel processo di democratizzazione del Paese uccisi e oltre 60.000 civili vittime del terrorismo interno. Immane il tragico costo pagato dalla popolazione irakena dall’inizio di questa assurda guerra, 750mila, secondo le diverse fonti. Secondo altre fonti sarebbero almeno 70mila i militari irakeni caduti durante il conflitto. Cfr. il sito, Coalition Casuality Count.  La stessa fonte indica, alla data del 18 ottobre 2018, i caduti dell’Operation Enduring Freedom in Afghanistan, complessivamente 3.555, di cui 2.414 militari americani, 455 inglesi e altri 686 caduti tra i restanti alleati di cui, 158 canadesi, 86 francesi, 54 tedeschi, 43 danesi, 41 australiani, 40 polacchi, 34 spagnoli e 53 italiani, di cui l’ultimo nel 2013, il 31enne bersagliere, Giuseppe La Rosa, circa 650 i nostri feriti. Il costo italiano risulta essere alla stessa data di 7,5 miliardi di euro. Complessivamente i caduti, tra civili e militari, superano i 140.000 dall’inizio dell’intervento armato dell’Occidente.

6 Il Mattino del 13 maggio 2011: Pakistan, furia talebana:87 morti, di Francesca Marino.

7 l’Unità del 29 marzo 1998: Mario Monti? Sogna una grande coalizione, di Alessandro Galiani

8 Testimonianza di Eugenio Donise all’autore e ad Antonio Aprea nel 1998.

9 Testimonianza di Massimo Montelpari all’autore e ad Antonio Aprea nel 1998.

10 Atti parlamentari, seduta del 9 novembre 1979, pag. 3906/3920 Per maggiori particolari cfr. l’Unità dell’8 novembre 1979 che vi dedica il titolo d’apertura del giornale: Lottavano per la terra, di Federico Geremicca e altri articoli nelle pagine della cronaca locale. Vi ritorna il giorno dopo, dando conto dello sciopero generale di Salerno, che vide la partecipazione di oltre diecimila lavoratori. Cfr. l’art. Una immediata e imponente manifestazione di massa, l’Unità del 9 novembre.

11 Sullo sciopero cfr. La Repubblica del 3 marzo 1987: Fermi i bus e traghetti, Napoli sepolta dalle auto, art. di Ermanno Corsi.

12 Nuova rassegna Sindacale, n. 22 del 17 giugno 1991: Se le Tesi congressuali vincono, la minoranza non perde e n. 28 del 29 luglio: Edili a sorpresa. Entrambi gli articoli sono di Paolo Grassi.

13 Giuseppe Popolo era nato a Torre Annunziata il 19 marzo 1923, operaio dell’Arte Bianca, fu rappresentante sindacale della CGIL, segretario della sezione Pci, Grieco, acclamato consigliere comunale tra il 1957 e il 1976 e Segretario cittadino del PCI.  Scomparve il 6 maggio 1976. Cfr. l’Unità del 7 maggio 1976: Immatura scomparsa del compagno Popolo.

14 Cfr. l’Unità del 26 novembre 1990, l’art: Un bluff la lista nera di Napoli, di Mario Riccio. Nel dossier prefettizio, una lista di 400 nomi di candidati condannati in precedenza per reati di vario titolo, si segnalava una condanna a 20mila lire di multa per rissa a danno di Agostino Popolo.

15  Roma, del 15 dicembre 1991: Botte da orbi alla CGIL.

16  Comunicato Stampa dell’8 gennaio 1992 della Presidenza del Consiglio dei Ministri. 

17  L’Unità del 5 marzo 1992: Saracinesche abbassate contro il racket, art. di Vito Faenza.

18  L’Unità del 7 marzo 1992: Castellammare è allo sbando. La città contro camorra e disoccupazione, art. di Vito Faenza.

19  L’Unità del 10 marzo 1992: Baby camorristi disarmano e pestano un poliziotto, art. di Vito Faenza.

20 Ce ne andiamo, l’Usl 35 di Castellammare è allo sfascio, Lettera pubblicata sull’Unità dell’8 agosto 1989 e firmata dai consiglieri comunisti dell’Usl 35, Catello Chiacchio, Francesco Belviso, Sebastiano Corrado, Giuseppe D’Aniello, Alfonso Solimene, Aniello Somma e Fabiola Toricco. Quest’ultima era la più giovane consigliere comunale eletta nell’ultima consiliatura e unica donna presente nell’assise.

21 L’Unità del 13 marzo 1992: Castellammare non ha paura, la gente in piazza lancia la sfida della camorra, art. di Wladimiro Settimelli.

22 L’Unità del 12 marzo 1992: Denunciava i corrotti (in prima pagina) e, all’interno, Hanno assassinato un uomo onesto, art. di Vito Faenza e del 22 marzo: E’ stato un crimine contro lo Stato, art. di Vittorio Ragone.

23 La Repubblica del 23 giugno 1992: Era Corrado il boss delle tangenti, art. di Roberto Fuccillo e Giovanni Marino.

24 Rapporto sulla camorra, relazione approvata dalla Commissione Antimafia il 21 dicembre 1993.

25 Corriere della Sera del 27 novembre 1992: Assedio a Gava City, di Enzo D’Errico.

26 Karol Wojtyla sarà proclamato beato il 1° maggio 2011 e Santo il 27 aprile 2014.

27 Il Mattino del 4 dicembre 1992: Fabbriche in crisi, c’è uno spiraglio, art. di Rosa Palomba.

28 Silvio Berlusconi sarà poi sconfitto nelle successive, e per certi versi drammatiche, elezioni del 9/10 aprile 2006.  Furono sufficienti una differenza di 30mila voti per riportare di nuovo al governo il centro sinistra, facendo lanciare al leader del Polo della Libertà accuse di brogli. Incapace di accettare il voto sfavorevole, rifiutò di riconoscere la vittoria di Romano Prodi, eletto Presidente del Consiglio il 17 maggio 2006. Rifiuto che proseguì nonostante il voto contrario alle sue liste fosse confermato nelle successive sconfitte vissute con il voto amministrativo di maggio e con il referendum sulla cosiddetta devolution, tesa a modificare la seconda parte della Costituzione.

29 Il Mattino del 5 gennaio 1993: Crisi industriale, fabbrica occupata.

30 Cfr. Comunicato della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 10 marzo 1993.

31  L’Unità del 6 luglio 1993: La rivoluzione di Gragnano, regno di Patriarca, art. di Vittorio Ragone.

32 La Repubblica, Edizione di Napoli del 19 marzo 1993: Licenziato, s’impicca, art. di Patrizia Capua.

33 La Repubblica, Edizione di Napoli del 26 marzo 1993: Sono una persona onesta, non posso vivere più, e l’Unità del 30 marzo: La Cgil scrive, ecco il dramma dei disoccupati, art. di Giovanni Laccabò.

34 Il Mattino del 7 aprile 1993: Automobilisti <sequestrati> sull’autostrada, art. di Bruno Abbisogno e Repubblica, Edizione di Napoli, stessa data, La guerra per il lavoro, art. di Maria Rosaria Marchesano.

35 Documento inedito della Cgil del Comprensorio Vesuviano Esterno del 21 maggio 1993.

36 L’Unità del 25 febbraio 1994: Luigi, la sentinella della fabbrica fantasma, art. di Sandro Onofri.

37 Protocollo d’Intesa per la reindustrializzazione dell’area Torrese Stabiese del 5 novembre 1993.

 

 

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