Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Scienza e relativismo

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Secondo il relativismo culturale non esistono criteri di razionalità in grado di prescindere dai condizionamenti sociali. Ogni cultura si dota di criteri propri, in base ai quali valuta le credenze relative ai fatti, e partendo da tale assunto è facile concludere che non vi è alcun insieme di credenze superiore agli altri.

Non solo: la mutevolezza delle credenze determina pure ciò che si intende per “fatto”.

Deve dunque cambiare il nostro modo (occidentale) di giudicare il vasto complesso di credenze fondate su magia, stregoneria e forze spirituali di vario tipo. Nell’ambito della loro vita quotidiana i membri delle società che noi classifichiamo “primitive” interpretano un cattivo raccolto, un evento fortunato o sfortunato e le malattie come effetti di forze occulte.

Parecchi filosofi - inclusi alcuni filosofi della scienza come Feyerabend - dubitano dell’esistenza di criteri “neutrali” e indipendenti dai contesti culturali che possano condurci a giudicare una certa visione del mondo - ad esempio la nostra - più “razionale” delle altre.

Per esempio, noi crediamo che le malattie siano causate da virus, batteri e altri organismi microscopici che interferiscono con il normale funzionamento del corpo. Molte culture africane, invece, ritengono che le malattie siano causate da spiriti e forze occulte di vario tipo.

 

Le nostre credenze sono basate sulla scienza medica empirica, le loro su cosmogonie di tipo religioso.

Alcuni antropologi sostengono che tali sistemi di credenze sono semplicemente contrastanti, ma non superiori o inferiori l’uno all’altro in termini razionali.

La tesi del relativismo della razionalità può dunque essere espressa in questo modo: differenti culture esprimono diversi sistemi di giudizio, i quali conducono a credenze radicalmente differenti circa gli oggetti e gli eventi del mondo; non vi sarebbero però metodologie razionali in grado di farci concludere che uno di tali sistemi è superiore agli altri.

La posizione opposta attribuisce invece priorità ai criteri del ragionamento scientifico: osservazione, deduzione, costruzione di teorie e sperimentazione empirica. Essa sostiene che i metodi della scienza occidentale sono superiori a quelli magici o religiosi quando si tratta di giungere a credenze empiricamente verificate e in grado di conseguire risultati ripetibili.

Ciò accade perché le pratiche della scienza empirica si conformano - almeno approssimativamente - a criteri universali che presiedono alla formazione delle credenze; in altre parole, esse incorporano la razionalità.

Basandosi su quanto afferma il secondo Wittgenstein, alcuni sostengono che i processi di formazione delle credenze sono nient’altro che pratiche sociali, per le quali non esiste alcun criterio di giustificazione assoluto. Ciò che consente di adottare una simile posizione è la negazione wittgensteiniana che esista un mondo oggettivo cui i sistemi di credenze possono o meno corrispondere: non vi è insomma qualcosa come la “verità”. I sistemi concettuali, piuttosto, costruiscono il mondo al quale si applicano, e non è possibile confrontare la verità o falsità delle credenze se si attraversano i confini di tali sistemi.

Occorre tuttavia chiedersi se i dati antropologici riguardanti la diversità dei sistemi di credenze forniscano qualche sostegno a questa tesi, oppure se vi sono buone ragioni per affermare che i metodi della scienza sono più vicini alla verità di quelli magici e tradizionali. Per difendere quest’idea bisogna ammettere l’esistenza di criteri universali di razionalità applicabili sul piano trans-culturale.

In altre parole, è necessario affermare che le credenze non vengono validate soltanto da criteri che si possono trovare in uno specifico contesto culturale, ma da criteri di razionalità validi per tutti gli esseri umani in quanto tali.

Si parte dunque dalla constatazione (non accettata da molti studiosi) che c’è un mondo in comune tra noi e i membri delle altre culture poiché, se ciò non fosse vero, la stessa comunicazione tra noi e loro sarebbe impossibile.

Anche se parliamo lingue diverse, identifichiamo gli stessi oggetti mediante il nostro linguaggio e facciamo predizioni circa il loro comportamento futuro. Certamente non condividiamo tutti le stesse credenze a proposito del mondo, ma il fatto che esso sia uno e sostanzialmente lo stesso consente pur sempre un certo livello di comunicazione tra culture diverse.

Viene pertanto conservata la possibilità della verità - non verità-per-noi e verità-per-loro - ma la verità intesa come corrispondenza (per quanto imperfetta) con la realtà. Percorrendo questo sentiero la verità diventa trans-culturale, e i criteri di razionalità sono quelli che producono credenze vere più attendibili per il loro riscontro pratico. Se possediamo una base per confrontare gli schemi concettuali nei termini delle entità reali che ricadono sotto i concetti, possiamo allora sviluppare il ragionamento empirico e causale con la speranza di raggiungere l’accordo.

Si noti, tuttavia, che è difficile giungere a una confutazione definitiva del relativismo e alla formulazione di criteri trans-culturali e “neutrali” accettati da tutti. La difesa di tali criteri non può che basarsi sulla comunanza delle credenze fattuali di base anche in culture diverse, derivante a sua volta da un mondo che è sostanzialmente lo stesso.

Naturalmente anche il fatto che certe credenze consentano di manipolare il mondo circostante meglio di altre, che è poi la base del progresso tecnologico, è molto importante. Ma non si tratta di un criterio assoluto per chi - come per esempio Feyerabend - è convinto che il progresso scientifico e tecnologico occidentale presenti più aspetti negativi che positivi.

 

 

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