Il realismo filosofico e lo stato dell’odierna Filosofia
Abbiamo già dedicato a questo tema un saggio critico che è in procinto di uscire tra pochi mesi (Editore Victrix, Forlì). Esso però è dedicato alla Filosofia in generale. Ci sembra però opportuno fare il punto specificamente sul più recente realismo, intorno al quale si è ormai coagulata l’intera disciplina nel suo assetto attuale. Tale presa di posizione riassume infatti perfettamente in sé quello che secondo noi è lo stato miserando al quale si è ormai ridotta una così nobile disciplina. E non vi è dubbio che i responsabili di questo siano da un lato la Modernità (ormai giunta al suo culmine negativo) e dall’altro lato il trionfo totale della cultura anglo-sassone (specie nel suo versante nord-americano). È davvero incredibile osservare con quale perfezione ed affinità, in questa cultura filosofica, abbiano finito per combaciare l’antica tradizione britannica del logicismo di stampo aristotelico, il pragmatismo anglo-americano ed infine l’empirismo scientista sempre nord-americano (possente e soverchiante a causa della sua intima connessione con la tecnologia e la produzione industriale). E per comprendere i profondi effetti nefasti di tutto ciò basta leggere la disamina condotta da Hans Jonas a proposito della relazione oggi esistente tra scienza ed etica.1 Tuttavia noi intendiamo restare qui solo sul piano della Filosofia. Sebbene ciò non sia affatto facile, dato che il nucleo dell’attuale realismo consiste proprio nell’ormai inscindibile commistione tra Filosofia e Scienza empirico-sperimentale.
Su tutto questo abbiamo già svolto una serie molto ampia di considerazioni critiche nel saggio prima menzionato; per cui rimandiamo il lettore ad esso. Il nostro scopo in questo articolo è invece quello di esaminare alcuni più o meno recenti articoli che offrono la possibilità di gettare uno sguardo sull’assetto attuale della riflessione filosofica; in modo da poterne così valutare criticamente la qualità complessiva. Va precisato qui però che la nostra valutazione critico-qualitativa si pone decisamente al di fuori delle consuetudini dell’intero scenario degli studi filosofici canonici. E dimostreremo via via cosa questo significhi. Inoltre va anche precisato che gli articoli dei quali discuteremo rientrano solo in parte nel più recente realismo filosofico. Quest’ultimo, infatti, ha assunto una posizione radicalmente critica la quale ha coinvolto anche le stesse forme filosofiche che ora andremo a discutere, e cioè di fatto la Filosofia Analitica (FA). Tale scuola di pensiero ha però essa stessa aperto la strada all’attuale realismo, e precisamente per mezzo di una critica estremamente intensa contro l’intera tradizione filosofica idealistica oltre che contro la metafisica. Il nucleo di tale critica è stata l’analisi logico-matematica condotta sul linguaggio filosofico tradizionale; con l’intento di esautorare ed abolire per sempre qualunque concetto (e relativa proposizione) che non si accordasse con la più rigorosa logica. Logica che a sua volta obbediva ad un rigorosissimo principio di realtà. Tale aspirazione è stata pertanto il compimento stesso dell’intera Filosofia moderna, a partire dal «dubbio» sistematico di Cartesio, fino alla «riduzione» trascendentale di Kant ed a quella fenomenologica di Husserl. Con il logicismo analitico, dunque, il tradizionale idealismo filosofico ha finito per tendere al realismo proprio per mezzo dell’antica, universale e costante aspirazione dell’intera Filosofia a consentire esclusivamente il pensiero delle entità «realistiche» nel senso del «ragionevolmente esistente». Intanto, comunque, la FA si è sviluppata secondo le linee di una riflessione configuratasi (sulla base delle aspirazioni appena discusse) come Filosofia del Linguaggio (FL) e Filosofia della Mente (FM). Alcuni degli articoli che ora andremo a commentare ineriscono infatti proprio a queste aree di ricerca. Esse sono del resto ancora pienamente attive anche nel contesto dell’attuale scenario di studi; sebbene la relativa discussione si sia ovviamente arricchita di prese posizione ormai decisamente realiste. In ogni caso – volendo basarsi su un panoramica più ampia e completa – la pienezza dell’attuale realismo può venire constatata in una delle più ampie trattazioni di tale posizione, e cioè quella di Rorty.2 Va a tale proposito detto che l’attuale realismo filosofico difende molto in generale la tesi (i cui germi si erano però del resto già sviluppati nel contesto dell’esistenzialismo filosofico, da Heidegger a Sartre e Merleau-Ponty), secondo la quale non vi è altro che la Natura e solo la Natura. Il concetto stesso di «essere» stesso, infatti – essendo stato completamente demolito dal logicismo critico-analitico –, è stato ormai completamente sostituito da quello di «realtà-quale-natura». Il «realismo» coincide infatti esattamente con questo, e cioè con l’affermazione estremamente categorica, secondo la quale noi non abbiamo davanti ed intorno a noi altro se non quanto sperimentiamo sensibilmente ed esistenzialmente. Non a caso, nel contesto di tale sviluppo, la teoria della «percezione» si è decisamente sostituita a quella della «conoscenza» (sorpassando così decisamente anche la posizione della stessa FA). Un aspetto estremamente specifico dell’attuale realismo è pertanto inevitabilmente il fenomeno costituito dal totale riassorbimento della mente nella corporeità ed anche nella mondanità. E questo quindi sovverte profondamente uno degli assunti che (nonostante l’alternarsi continuo di idealismo e realismo) era restato di fatto costante nell’intera Filosofia. La disamina di Rorty potrebbe venire comunque impiegata come base per comprendere qual’è l’ampio sfondo sul quale si muovono attualmente le ricerche filosofiche che prendono le mosse dal settore di ricerca dischiuso dalla FA a partire dal dopoguerra in poi. Tali ricerche sono infatti in sé troppo settoriali per poter offrire un quadro di insieme. E quindi, anche prendendone in considerazione un grande numero, non si potrà comunque gettare uno sguardo su un settore abbastanza ampio dell’attuale scenario. Anche la disamina di Rorty sottolinea però che le radici dell’attuale realismo sono da ricercare nei più noti pensatori filosofico-analitici, e cioè Russell, Frege e Wittgenstein. A questa generazione di pensatori è poi succeduta una successiva, entro la quale spiccano nomi come quello di Quine, Peirce e Sellars (tra gli altri). Anche quest’ultima si è però poi estremamente dilatata ai confini di uno scenario estremamente vasto, nel quale opera ormai una ver miriade di pensatori e ricercatori; e ciò parallelamente allo svilupparsi di un numero molto grande di sottilissime prese di posizione di tipo filosofico-scientifico. Proprio di questo parleremo discutendo il numero ormai davvero infinito di «-ismi» nel quale di fatto si è frantumata oggi la Filosofia, in un contesto che non vede più né un ristretto numero di pensatori sistematici (che rappresentino e dominino, come prima era sempre accaduto, lo spirito filosofico del tempo) né un ristretto numero di rappresentative Scuole di pensiero (anch’esse da sempre intimamente legate al particolare momento storico della cultura e della Filosofia stessa). La Filosofia insomma si è incapsulata in sé stessa nel mentre si staccava dalla cultura generale molto più di quanto avesse mai fatto. Ma questo è solo un aspetto della faccenda. Perché dall’altro lato, invece, in questa sua trasformazione, la Filosofia è diventata ormai del tutto simile alla Scienza empirico-sperimentale. Quest’ultima è infatti una disciplina la cui prassi conoscitiva è da sempre suddivisa in una miriade di ricerche sperimentali, ognuna delle quali procura nuovi dati che vanno poi ad aggiungersi ad un coacervo costantemente crescente ma anche totalmente disorganico (e non a caso dominato da fugaci consensi che poi, dopo un po’ di tempo, svaniscono tramutandosi in radicali mutamenti di rotta). E diremmo che proprio questo è l’aspetto più desolante degli attuali studi filosofici. Fino a non molti decenni orsono, infatti, la Filosofia – per quanto da molto tempo non sia più unitaria come lo era invece una volta la metafisica, specie quella religiosa – offriva un riparo piuttosto sicuro a colui che dalla conoscenza si aspettava una certa almeno moderata stabilità (e per questo si allontanava dalla Scienza empirica). Ormai però non è più così. Ed un segno chiaro di questo è un’abitudine, da subito divenuta anche canone dogmatico, che è invalsa proprio con l’avvento della FA. Parliamo della consuetudine di fare filosofia non più per mezzo dei libri, ma invece solo per mezzo degli articoli (ovvero papers).3 E gli articoli corrispondono poi a loro volta perfettamente alla miriade di ricerche filosofico-scientifiche nelle quali la disciplina si è intanto frantumata – configurando così uno scenario che non è più in alcun modo abbracciabile con lo sguardo, e quindi è divenuto ancora più minuziosamente specialistico di quanto già non lo fosse da un po’ di tempo a questa parte. Ogni articolo corrisponde pertanto perfettamente anche alla trattazione di un minuscolo aspetto di «questioni» filosofiche già di per sé sono estremamente ristrette (a paragone dei temi grandi e di amplissimo respiro che prima erano oggetto di riflessione da parte della disciplina). In tali condizioni, quindi, la Filosofia è sempre più una Tela di Penelope distesa a perdita d’occhio, entro la quale (continuamente ed a velocità vertiginosa) tutto viene fatto e disfatto senza che si possa nemmeno averne la percezione. Ciò che accade, infatti, ha luogo quasi sempre in settori molto lontani da quello nel quale risiede il ricercatore, o anche semplicemente il lettore di testi filosofici. Non si tratta però solo della difficoltà di leggere il numero sterminato di articoli che vengono prodotti a ciclo continuo. Si tratta invece anche della difficoltà di seguire lo sviluppo dialettico di questioni, entro le quali tendono a moltiplicarsi sempre più gli «-ismi». E questo determina una suddivisione sempre maggiore di prese di posizione, entro la stessa presa di posizione, che a sua volta segue poi la falsariga dell’emergere prepotente di sempre nuovi dati scientifico-sperimentali; che intanto la Filosofia si sente ormai obbligata ad accogliere nel suo ambito (come vincolanti punti di repere per la riflessione). Da tutto quanto abbiamo detto discende pertanto in primo luogo che è impossibile condurre una riflessione critica (sullo stato attuale della Filosofia) senza essere costretti a servirsi di un numero molto ristretto di articoli – la cui scelta può pertanto essere solo (almeno in una certa misura) anche arbitraria ed a campione. Ed è quindi proprio questo il metodo che dovremo seguire nel nostro articolo; nel prendere in esame (per mezzo di una serie di articoli tratti dall’attuale dibattito) solo alcuni scritti, solo alcune aree di riflessione e solo alcuni pensatori. Questo significa però anche che un’analisi critica come quella che stiamo conducendo è destinata ad arricchirsi e crescere di fatto illimitatamente in seguito all’apporto rappresentato dall’esame di ulteriori articoli. Ciò però non aggiungerebbe in fondo altro che elementi analitici alla nostra riflessione; e questo non rappresenta necessariamente un arricchimento. Riteniamo quindi che possa essere considerato del tutto sufficiente un esame condotto per davvero a campione, e cioè scegliendo quasi arbitrariamente un certo numero di attuali articoli filosofici; ognuno dei quali offrirà quindi (per definizione e di per sé) elementi a sufficienza per un giudizio che vuole essere tanto critico quanto anche globale. Gli aspetti specifici (ossia effettivamente dottrinari) non possono infatti rappresentare davvero nulla di significativo per tale genere di giudizio.
1- La continuità tra la riflessione filosofico-analitica e quella post-analitica.
Il pensiero di Quine rappresenta senz’altro uno dei più significativi momenti di passaggio dalla FA al realismo.4 E quindi vale la pena di prenderlo in considerazione come emblema di uno scenario che però certamente vede attivi molti altri pensatori di spicco (ad esempio Peirce, Sellars, Putnam, Nozick, Dummett, Strawson).5 Come ci mostra Verhaegh, Quine si fa sostenitore di un realismo che va perfettamente di pari passo con il confluire definitivo della Filosofia nella Scienza. Il primo passo di questo progetto è però squisitamente filosofico-analitico. Floyd testimonia infatti che proprio a Quine si deve l’introduzione della logica e della filosofia analitica nello scenario di ricerca dell’università di Harvard (presso la quale egli sviluppò poi la sua dissertazione su Russell). Egli quindi conduce un discorso filosofico ormai apertamente scientista, e quindi di fatto neo-positivista (come è possibile desumere sempre dall’articolo di Floyd). Anche Pérez de Laborda parla, a proposito della FA, di un “neopositivismo” (o anche “positivismo logico”) che trovò le sue radici nella scuola di Vienna (Carnap e Reichenbach), ed in Cambridge ed Oxford. Su questa base quindi Quine giunge ad avvalorare la Scienza ormai apertamente a danno della Filosofia. Pertanto proprio in tal modo il pensatore supera la FA con l’aspirazione di quest’ultima ad un trascendentalismo (ancora di fatto idealistico) basato sulla logica analitica e tendente quindi ancora a porre la filosofia come conoscenza fondamentale (“proté philosophia”). In particolare egli critica il nominalismo di Carnap, che considera le entità astratte logico-matematiche come vere e proprie cose (cose dell’effettiva esperienza empirica), dichiarando così la Filosofia indipendente dalla Scienza. Per correttezza va detto però che di fatto in tal modo si tratta molto più di una sorta di «realismo» platonico (ossia quello che attribuisce alle Idee un’onticità effettiva). Quine ripristina invece il dominio della sola scienza sugli oggetti matematici. Il suo scientismo va pertanto di pari passo con un realismo che più nulla ha a che fare con l’antico cosiddetto «realismo» platonico. Naturalmente si tratta così (come dice Verhaegh) anche di “empirismo”(ossia avvaloramento dei soli sensi nella conoscenza), ed inoltre di “olismo” (affermazione della sola esperienza con ormai recisa negazione della teoresi). Ed in tal modo la conoscenza empirica riassorbe completamente in sé quella teoresi alla quale invece (fino ad Husserl ed in fondo anche alla piena FA) la Filosofia attribuiva un valore e ruolo incondizionabilmente fondante. Fondamentale diviene dunque il ruolo affidato all’”osservazione”; che, secondo Quine, permette alla sola scienza di migliorare e correggere continuamente le proprie conoscenze. Siamo qui insomma di fronte al valore epistemologico primario che la scienza empirica da sempre attribuisce all’esperimento «ripetibile» (quale fonte dell’unica autentica conoscenza possibile). Sul piano più genuinamente filosofico siamo però al cospetto di una classica ricerca filosofica «aperta» – ossia quella che dalla dialettica si aspetta la costruzione di una «verità» sempre solo fugace e mai davvero oggettiva ed assoluta (nella cui costruzione conta quindi molto più la contrapposizione di tesi che non invece il raggiungimento di un effettivo risultato). L’unica (ma estremamente rilevante) differenza rispetto al passato è però che ora tale ricerca si muove comunque verso un risultato. E precisamente essa di muove verso l’accumulo di «dati» sperimentali fine a sé stessi, esattamente come avviene nella scienza empirico-sperimentale. Ebbene è su queste premesse che (come ci mostra Verhaegh) si sviluppa in Quine un realismo che è incentrato sull’indubitabile ed infallibile capacità e possibilità della scienza di intercettare effettivamente la realtà (nella sua pienezza di oggettività). Ma, dallo specifico punto di vista del pensatore, tutto ciò non viene in nulla diminuito dalla necessità dello scienziato di basarsi sulla sua specifica “fede” (“truth”), dovendo poi muoversi sempre solo dentro di essa. Questa, egli dice, è una regola fondamentale della conoscenza in quanto basata sulla natura stessa della mente. E quindi le cose non possono che avvenire in tal modo. È pertanto esattamente in questo modo che la Filosofia arricchisce la Scienza della sua chiarificazione del campo della conoscenza. Essa chiarisce infatti che il classico concetto di «oggettività» della conoscenza va moderato per mezzo della piena ammissione della dimensione soggettiva della conoscenza stessa. E questo è un concetto che poi trova pieno riscontro tanto nella riflessione filosofica post-moderna già tendenzialmente realista – come entro il pieno avvaloramento sartriano del “punto di vista”6 –, quanto anche nel pieno della stessa riflessione sviluppatasi a margine della moderna Fisica subatomica – per mezzo del valore attribuito alle “teorie” che integrano l’esperimento.7 Ecco allora che, su questa complessiva base, Quine può sostenere che per lui le teorie scientifiche vanno considerate vere sempre e per definizione. Il che significa quindi che esse non richiedono alcun fondamento da parte della Filosofia. Proprio così il pensatore si oppone allora tanto all’attuale “pragmatismo” (che nega alla scienza l’effettiva capacità di intercettare la realtà, con la conseguente possibilità di teorie scientifiche anche non vere), quanto allo “scetticismo” anti-scientista ed anti-filosofico (postulante l’impossibilità generale e totale della conoscenza). Egli però sostiene comunque su questa base in primo luogo un immanentismo scientista anti-filosofico, secondo il quale solo la conoscenza scientifica è valida. Nel complesso, dunque, il realismo quiniano si contraddistingue per i caratteri di un davvero radicale anti-trascendentismo ed immanentismo. Ed esso è proprio per questo naturalmente anche anti-epistemologico ed anti-metafisico. Di conseguenza ciò configura inevitabilmente quell’atteggiamento anti-filosofico che nell’attuale realismo è ancora più estremo che non nella FA. Questo però è solo un aspetto tutto sommato marginale della questione. Il fatto davvero fondamentale è invece che, nel contesto di tale presa di posizione filosofica, nel pensiero umano non vi è ormai più la benché minima traccia di metafisica (specie se religiosa). E ciò porta senz’altro a compimento i più fervidi auspici della stessa FA. È comunque in questi termini che, come vedremo tra poco, il pensiero quiniano va considerato fortemente naturalista. Il che significa anche che questo è da considerare uno dei caratteri più essenziali dell’attuale realismo. Esso è infatti tanto scientista quanto è in primo luogo naturalista. Vi è però da considerare anche un altro punto di vista, che viene rappresentato da Morris. Egli mitiga infatti fortemente la frattura esistente tra Quine e la FA, sostenendo che (contrariamente a quanto si tende a pensare) il suo pensiero è stato fortemente influenzato anche da Russell (e non solo da Carnap). Proprio su questa base egli ritiene quindi che il “naturalismo” scientista di Quine non sia in verità affatto anti-filosofico (e quindi puramente scientifico); ciò in quanto esso rientra pienamente nella filosofia scientifica già inaugurata dalla logica matematica di Russell. Più precisamente, dice Morris, esso apre la strada ad una lettura del mondo oltre che ad un’analisi del pensiero, e cioè apre la strada ad un’effettiva “ontologia”. E qui le cose differiscono nettamente dalla prospettiva filosofica di Carnap, che fu invece incentrata totalmente sull’epistemologia. Ovviamente bisogna guardare con un certo distacco al termine “ontologia” che viene qui usato. Va sottolineato infatti che anche Pérez Laborda, nella sua analisi complessiva dello scenario realista post-analitico [Pérez Laborda... cit.], presenta Quine come un ontologo in associazione a Strawson come un metafisico. Questo sembrerebbe insomma a prima vista un ritorno su sé stessa della Filosofia post-analitico-critica. Ma invece non è altro che la continuazione proprio della stessa FA. Lo stesso autore chiarisce infatti che si tratta in realtà di null’altro che di un’analisi del linguaggio dell’ontologia e della metafisica. Siamo insomma ancora di fronte ad un atto di «de-costruzione» critica, il cui intento è semmai quello della distruzione delle relative discipline (e non certo invece della loro ricostituzione). Non a caso Quine non fa altro che ripristinare l’ontologia nella forma dell’aspirazione in tal senso che da sempre ha avuto la Scienza della Natura – e che si riassume nell’affermare che l’«essere» altro non è se non la Natura stessa quale assoluta Totalità. Morris infatti (in discordanza da Verhaegh) sostiene che al pensatore americano va attribuita addirittura l’intenzione di mantenere in piedi la “proté philosophia” (alla quale ambiva anche Russell) nella forma specifica di chiarificazione (per mezzo del logicismo matematico) delle proposizioni che poi la scienza deve usare nel descrivere fondamentalmente la realtà. E questo è un atto che la Scienza è destinata però a compiere sempre in concorrenza con la Filosofia. L’ambizione ad una “proté philosophia” implicherebbe pertanto, nel caso di Quine, l’ammissione che il praticarla non è più compito della Filosofia, ma è invece proprio compito della sola Scienza. Esattamente in questo senso, allora, l’ontologia va considerata come ormai patrimonio della sola Scienza. Ed eccoci dunque nuovamente di fronte al senso che ha il naturalismo entro l’attuale realismo. Esso segna insomma di fatto, e nel modo più pregnante possibile, il definitivo atto di resa della Filosofia alla Scienza. E qui possiamo toccare davvero con mano il nucleo della desolazione che caratterizza l’attuale scenario degli studi filosofici. Il che è ancora più eclatante se si considera che uno studioso come Morris può sostenere che Russell si pone addirittura come metafisico pur nel suo atteggiamento radicale atteggiamento anti-metafisico (in quanto anti-idealistico). Ma in tal modo le cose divengono notevolmente più chiare anche in relazione all’ontologia. A Russell va infatti ascritto il progetto di rovesciare la metafisica nel rovesciare intanto la stessa ontologia; anzi più precisamente nell’atto di negarla nella sua essenza di discorso sull’essere (ossia onto-logia). E qui ci troviamo pertanto ancora una volta di fronte al nucleo del progetto filosofico-analitico. Esso consiste infatti nell’applicazione logico-critica alla metafisica, nel senso di un’analisi che è scomposizione elementare del discorso astratto. E la conseguenza di ciò è quindi l’eliminazione da esso di tutto ciò che non è ragionevolmente realistico. È insomma di fatto la distruzione definitiva dell’ontologia. Infine vi è da considerare un altro aspetto posto in luce da Morris nell’esaminare il pensiero di Quine sullo sfondo di quello di Russell. Lo studioso afferma infatti che quest’ultimo pensatore si produsse effettivamente in un’iniziale contestazione della “proté philosophia” in ragione dell’impossibilità (a suo avviso) che la matematica sia fondata per davvero sugli a priori, ossia su concetti astratti. Ed in quest’ultimi vi è poi in qualche modo da vedere l’ultimo strascico dell’antico concetto delle verità matematiche come traccia della Verità divina nella mente umana – discorso che era stato sviluppato da Koyré entro la dottrina di Cartesio.8 Peraltro la posizione di Russell è incentrata anche sulla negazione dell’altro versante dell’antica concezione filosofica della matematica, e cioè quello realista. Egli nega infatti anche che la matematica sia fondata sul “common sense” quale immediata intuitività; basata appunto sui sensi secondo l’antico realismo empirista. La matematica quindi è per lui appena una scienza totalmente immanente e sensibile; e proprio per questo è perfettamente ispirata ad un logicismo che la rende perfino filosofica. Ma intanto non ha bisogna di alcuna fondazione filosofica (né idealista né empirista). In altre parole la matematica è per lui interamente pragmatica – essa investe quindi le cose reali della Natura e si muove solo entro esse. Ebbene, per mezzo dell’esame di questi articoli (che spaziano dall’attuale realismo fino alle sue radici filosofico-analitiche), noi disponiamo ormai di uno spaccato abbastanza fedele dello stato attuale della Filosofia. E possiamo quindi già senza alcuna difficoltà emettere su di esso un iniziale giudizio di valore. Un ulteriore elemento si aggiunge però per mezzo dell’articolo di Floyd; il cui scopo è quello di mostrare che, nonostante la prospettiva puramente analitica ormai prevalente in Filosofia, tuttavia anche la prospettiva descrittiva ha comunque ancora un suo ruolo. E con quest’ultima va intesa pertanto una dimensione della riflessione che va oltre la pura analisi di una questione ristretta, allargando così il proprio orizzonte ad uno scenario ben più ampio. Si tratta insomma della classica «storia della filosofia» (SDF), ossia una disciplina che per definizione ambisce a collegamenti di ampia portata tra luoghi del pensiero che sono più o meno lontani tra loro nel tempo, nello spazio, ed anche sul piano della realtà dottrinaria. Con l’esame di questo articolo anticiperemo quindi almeno in parte ciò che diremo nella successiva sezione. Le cose stanno però solo apparentemente come sembra a prima vista. Lo studioso si muove infatti comunque ancora nel pieno del paradigma analitico; e non ha pertanto alcuna intenzione di contraddirlo. Egli sostiene infatti che la SDF può e deve venire impiegata proprio entro l’ambito ristretto della FA; cioè in modo da chiarirne meglio la struttura, ed inoltre (anzi soprattutto) in modo da permettere anche l’emersione di ulteriori ristrette questioni. Ecco allora che possiamo constatare come al giorno d’oggi, anche quando si fa SDF, essa può comunque venire fatta in modo integralmente analitico. E questo, entro l’approccio di Floyd, avviene per esempio sezionando minuziosamente l’oggetto di indagine – come può accadere classificando le fasi dell’opera di un pensatore (primo, secondo, maturo...), e collocando con precisione i testi entro la biografia del pensatore. Inoltre ciò configura per lo studioso anche una vera e propria “interpretazione” (ossia di fatto un’esegesi) del pensiero in oggetto. Emerge allora in tal modo una SDF che si incentra anch’essa ancora una volta su un lavoro filologico-analitico. È evidente allora che non si tratta affatto (come a prima vista si potrebbe pensare) del ricostruire i limiti di grandi questioni, né tanto meno del ricollegare momenti lontani del pensiero filosofico. Si tratta invece semmai di una sorta di strana SDF nucleare e di nicchia; il cui agire è evidentemente appena ancillare rispetto alla trattazione di quelle ristrette questioni che intanto continuano a restare di assolutamente primaria importanza (specie entro il ristretto settore esaminato dalla SDF). Cionondimeno, però, Floyd ritiene di poter difendere in tal modo il valore dell’”interpretazione storica” di un pensiero, rispetto alla trattazione invece puramente “filosofica” di esso (in quanto del tutto indipendente dalla SDF).
2- La storia della filosofia dopo la Filosofia Analitica
Per questa via veniamo così alla trattazione esplicita e diretta del tema della “storia della filosofia” da parte di Yolton. 9 Ebbene nella sua introduzione al tema (che è sostanzialmente Locke), l’autoreaddirittura ammette che la filosofia possa essere “esegesi” nel senso dell’”esplicazione” del pensiero di un autore (in questo caso antico), e ciò in relazione ad un vero e proprio giudizio di valore sulle sue idee. Ci si aspetterebbe quindi che questo atto venga considerato ammissibile in generale. Ma anche qui le cose stanno molto diversamente da quanto sembra a prima vista. L’intenzione è infatti quella di sottomettere del tutto unilateralmente gli autori antichi a giudizio da parte dei soli pensatori moderni. In altre parole si tratta ancora una volta dell’analisi «de-costruttiva» che l’ultra-moderna Filosofia sente il diritto e dovere di fare in relazione a tutto ciò che è tradizione nel pensiero. Ciò a cui si tende qui è infatti al giudizio analitico di rigorosa logicità degli elementi di pensiero antico ai quali ci si trova davanti. Più in particolare l’analisi svolta da Yolton verte sul libro scritto da Woolhouse sull’interpretazione dei testi (le idee di Locke) alla luce dei criteri filosofici moderni (e specialmente quelli analitici). Va riconosciuto però il fatto che l’autore lascia emergere una questione relativa alla sola SDF stessa quale possibile perdurante valore. Si tratta insomma della possibilità che tale disciplina costituisca ancora oggi un approccio apprezzabile (in alternativa al classico punto di vista moderno). Ciò avverrebbe in quanto essa mette allo scoperto le interrelazioni delle questioni ed anche il loro sviluppo nel tempo, facendo sì che si delinei in tal modo anche perfino il contesto culturale in cui esse insorgono. Yolton non manca però di mostrarci come vi sia comunque chi (come Bennett) nega oggi molto recisamente che possa e debba venire tenuto presente il contesto in cui insorge un determinato pensiero. E questo è il chiaro segno del peso davvero schiacciante che ha attualmente il metodo del filosofare come trattazione di ristrette questioni. In ogni caso, anche tendendo presenti queste riflessioni sul valore attuale della SDF, è evidente che da esse ci si può aspettare molto poco. Ci troviamo infatti ancora pienamente nel contesto di una SDF che è solo di nicchia, ed ha quindi il solo scopo di servire il ristrettissimo ambito filosofico nel quale essa viene impiegata appena come uno tra i tanti possibili strumenti. Dunque da questo non ci si può in alcun modo aspettare la definizione della «filosofia» come «storia della filosofia»; ossia come un filosofare che abbracci amplissimi orizzonti (così trascendendo e relativizzando la trattazione di ristrette questioni), ed in tal modo per davvero riannodi il suo agire alla cultura nella sua interezza. Pertanto, nonostante tutta l’enfasi impiegata nella presa di posizione «anti-filosofica» dell’attuale realismo, è chiaro che ci troviamo ancora nel pieno della difesa ad oltranza dell’autarchia della Filosofia come disciplina e soprattutto come Istituzione accademica. Possiamo del resto prendere atto di tutto questo anche attraverso l’esame di un'altra serie di articoli, che non riguardano così direttamente la FA.10 Tuttavia tali articoli ci offrono anche una chiara immagine di quanto provocatorio (e quindi inevitabilmente anche variegato) sia il tema della SDF nel contesto del pensiero contemporaneo. Sebba dice a chiare lettere che fare SDF non è affatto “filosofare”; perché quest’ultimo è unicamente l’occuparsi delle questioni (nel caso specifico il problema della causalità). Studiare le idee, quindi, non consiste affatto nello studiare il modo in cui esse vengono trattate dallo specifico pensatore. Per fortuna ci sono però anche posizioni diverse. Watson afferma infatti che la SDF è invece essa stessa filosofia; e ciò proprio in quanto riflessione sul pensiero del filosofo collocato nel contesto storico. Come Yolton e Floyd, egli pensa però che questo deve avvenire soprattutto nel senso del chiarimento e della giustificazione delle idee del pensatore studiato agli occhi dell’osservatore moderno. Tuttavia, infine (come del resto anche Osler), Watson sostiene che la “storia analitica della filosofia” (Sellars, Bennett etc) è ingiustificata perché essa si preoccupa solo del contributo offerto al dibattito moderno. Essa quindi non è vera storia, in quanto è troppo ristretta nelle sue aspettative. Kristeller sostiene infine che in via di principio storia della filosofia e storia delle idee non dovrebbero essere affatto cose diverse. La studiosa precisa poi anche che una delle posizioni correlanti strettamente la filosofia alla storia è da considerare quella hegeliana (con paralleli in Herder e Vico); secondo la quale la filosofia rientra nelle manifestazioni oggettive dello spirito, che quindi sono sempre culturali e sociali, oltre che strettamente filosofiche. Come si può vedere, lo scenario della riflessione a tale proposito è tutt’altro che univoco – per quanto attiene specificamente il ruolo e valore da attribuire alla SDF entro il moderno filosofare. Ma ciò significa anche che, per fortuna, un certo spirito di opposizione ai dogmi canonici non è del tutto svanito nemmeno entro la spaventosa atomizzazione alla quale oggi universalmente si assiste. È chiaro però che quelle menzionate sono solo voci isolate, e comunque mai del tutto critiche verso l’assetto attuale della Filosofia proprio per mezzo dell’invocazione della SDF. Non fosse altro per il fatto che ad esempio Osler pone di fatto sul tappeto una questione moderna estremamente specifica, e cioè quella del “contestualismo”. Pertanto l’autrice non prende affatto posizione sul valore oggettivo ed assoluto del «contesto» entro la SDF. Ella infatti afferma che – nonostante la possibile presa in considerazione del contesto in cui nasce e si sviluppa il pensiero – restano comunque validi anche altri approcci. L’uno dei quali è quello classico, che prende in considerazione unicamente i fattori intellettuali del pensatore studiato. L’altro è poi quello della FA; la quale invece ritiene la filosofia antecedente valida solo in quanto serbatoio di questioni per la moderna riflessione ed il moderno dibattito. Sta di fatto però che la FA rappresenta bene quello che oggi è il pensiero dominante. E quindi su questo la questione deve venire decisamente chiusa e archiviata. In altre parole anche l’invocazione della SDF non rappresenta oggi altro che una questione ristretta tra le tante.
3- Gli «-ismi» analitici e post-analitici
Come abbiamo già accennato, nel prendere in considerazione specificamente gli «-ismi» noi fuoriusciamo di fatto dall’attuale realismo ritornando così alle forme specifiche di FA, cioè specialmente la FM.11 E tuttavia abbiamo anche detto che essi rappresentano una tendenza del pensiero che si prolunga dal campo della FA (e connesse FL e FM) nel bel mezzo del realismo stesso. In ogni caso proprio al cospetto degli «-ismi» noi possiamo al meglio toccare con mano un modo del filosofare che è così intrecciato allo scientismo da non poter non trovare precisi riscontri anche nella più attuale presa di posizione della Filosofia. Ebbene uno dei campi più emblematici di trattazione del tema è quello rappresentato dalla discussione sviluppatasi intorno all’”intenzionalismo” (Byrne). Infatti non c’è forse un campo della moderna filosofia entro il quale risulti più ridicolo l’espresso e volontario affaccendarsi dei pensatori intorno a questioni che evidentemente concernono la pura e semplice fisiologia della mente (e quindi del cervello). Si tratta insomma appena di pura e semplice neuro-psico-fisiologia. E peraltro nel contesto di quest’ultima è assolutamente chiaro che deve essere tenuta presente da un lato una componente rappresentazionale (idea astratta) e dall’altro lato una componente fenomenale (cosa reale e concreta). Eppure il dibattito intorno all’intenzionalismo si pone proprio come discussione circa l’interpretazione della conoscenza in quanto unilateralmente rappresentazionale, oppure unilateralmente fenomenale, o infine anche mista. Ed è evidente che questa non è altro che una riedizione dell’antichissima questione idealismo / realismo – solo che essa è divenuta incredibilmente intricata e puntigliosa, ed inoltre si intreccia ormai strettamente agli stessi dati (giudicati vincolanti) della ricerca sperimentale neuro-psico-fisiologica. Ed ecco allora che del tutto non a caso la stessa denominazione di ”intenzionalismo” sembra essere studiatamente pleonastica esattamente allo scopo di stupire l’osservatore, nascondendo così il fatto che non si tratta in fondo di altro che dell’antico idealismo. In generale infatti l’intenzionalismo non fa altro che presupporre il nostro poter percepire qualcosa solo perché siamo interiormente predisposti a farlo. In tal modo si assiste allora allo stranissimo e paradossale fenomeno rappresentato dalla generale convinzione (chissà perché mai messa in discussione) di un vero e proprio assurdo – alla luce della discussione in atto sembra infatti come se la filosofia fosse iniziata solo negli ultimi trenta anni, e precisamente con la FA. Sembra insomma che quest’ultima abbia posto sul tappeto questioni totalmente nuove e prima sconosciute. Mentre invece è evidente che tutto quanto viene oggi così puntigliosamente discusso, in realtà era già stato pensato nell’antichità; ed inoltre lo era stato così a fondo da rendere del tutto superflua una riproposizione ex novo delle stesse identiche questioni. Insomma quale bisogno c’era di fare questo? La spiegazione non può che essere così semplice da risultare addirittura banale. E ne discuteremo nelle conclusioni. Va però intanto constatato, come messo in luce da Byrne, che nonostante l’intenzionalismo riproduca un certo “platonismo delle idee” – e quindi di fatto quel «sapere previo» (divino-trascendente), che Platone riteneva dovesse venire appena riattualizzato per mezzo della “reminiscenza”12 –, esso comunque resta guidato da un notevole revisionismo di tipo analitico-critico. Con questa presa di posizione si intende pertanto portare a termine il progetto analitico-critico della FA; la quale per mezzo del logicismo intendeva offrirci una mappa finalmente davvero razionalisticamente rigorosa tanto del pensiero quanto anche della realtà dal pensiero interpretata. Ed ecco allora che viene allo scoperto un ulteriore paradosso dell’attuale riflessione filosofica. Sembra insomma che quest’ultima (specie come FM) tenti di mostrare che le differenti tesi al suo interno (nel contesto dello studio della natura-mente, ed in particolare rispetto alla fisiologia della mente, alla percezione etc.) possano essere giustificate sulla base della pura argomentazione filosofica (e quindi perfino senza prove sperimentali). Si tratta evidentemente appena di una finzione; e peraltro anche plateale, dato che esattamente in questo contesto si afferma poi che la filosofia deve procedere di pari passo con la scienza empirico-sperimentale. Sarebbe pertanto molto più onesto (come abbiamo visto accadere in pensatori come Quine) ammettere che una distinzione tra le tesi argomentative è in questo caso in verità giustificata solo e soltanto sul piano della pura prassi scientifico-empirica, e cioè sulla base delle sole prove sperimentali. Non a caso le obiezioni menzionate da Byrne contro l’intenzionalismo sono in gran parte scientifico-empiriche. E questo può significare alla fine una sola cosa – di fatto non esiste alcuna «filosofia della mente»; mentre sì esiste una «scienza della mente». A ciò si aggiunge poi un’altra totale assurdità che poi davvero sfiora il ridicolo. E questa riguarda la maggior parte delle argomentazioni impiegate in questo settore. Si giunge infatti a condurre l’argomentazione sul piano di fatti di pura invenzione, come ad esempio la realtà dello “zombie” (ed in questo caso ci si chiede come sia possibile un’intenzionalità del tutto usuale laddove invece non sussiste alcuna vera interiorità). Cosa vuol dire questo? Che il filosofo ammette come reale il fenomeno degli zombies? Ma se non è così, quale validità può mai avere un’argomentazione come questa? Da questo poi, grazie a Marshall, possiamo prendere in esame un’altra delle più dibattute questioni sia nella FM sia anche nell’attuale realismo filosofico. Si tratta della questione congiunta della “fede” (“truth”) e della “credenza” (“belief”). Abbiamo visto che questo è un tema affrontato direttamente anche da Quine. Si tratta insomma di un tema che appare costituire un’autentica ossessione dell’attuale pensiero. E la spiegazione è immediatamente a portata di mano. L’impiego di tali questioni è infatti come sempre incentrato su un atteggiamento insidiosamente critico, e quindi fondamentalmente «decostruttivo»; sebbene abilissimamente fatto passare per riflessione sull’obiettività cognitiva. Con tale serie di argomentazione ne va infatti del decidere se la conoscenza è davvero in grado di intercettare l’essere. Ed ancora una volta siamo sul piano di vecchissime questioni filosofiche. Peraltro il tema della “fede” (“truth”) implica fortemente ancora oggi la dimensione ermeneutica del pensiero, e quindi una tradizione filosofica molto divergente dalle attualmente dominanti tendenze del pensiero. Si tratta per la precisione della tradizione heideggeriana tenuta oggi ancora viva da un pensatore come Gadamer. La visione di quest’ultimo configura infatti non a caso un certo realismo di stampo storicistico ed immanentistico. E ciò avviene in quanto la sua definizione dell’”interpretazione” (in ermeneutica) tende fortemente a prescindere dalle rigorose regole (universali ed oggettive) che invece vengono imposte dal “metodo”, e cioè dalla dimensione primariamente epistemico-psicologica della coscienza (affermata da Kant e poi ripresa da Schleiermacher nella sua lettura primariamente filologico-oggettiva dell’ermeneutica). In tal modo, una volta posta unicamente sul piano della storia – e quindi di una realtà che è incondizionabile al pensiero –, l’interpretazione implica una “fede” che non riconosce alcun vincolo trascendentalistico; e come tale, quindi si esplica in una libera creatività che equivale poi all’infinitezza stessa della realtà immanente. Abbiamo così un realismo, il cui sussistere, però, non solo è lontano dall’empirismo scientifico ma è anche in gran parte avverso ad esso. E con questo emerge dunque una prospettiva filosofica che (come sottolinea Romano) si pone comunque quale erede dell’”umanesimo”; nell’opporsi tanto al riduzionismo scientista (di fatto il cognitivismo stesso) quanto allo “strutturalismo” applicato all’ermeneutica (leggi mentali oggettive e naturali della comprensione). Tuttavia nemmeno la più attuale FM accetta di muoversi su un piano unicamente epistemico. Anzi il suo gioco illusionistico diviene ancora più sottile nell’approcciare addirittura la questione etica. L’intento di Marshall è infatti proprio di verificare se la visione intensissimamente filosofico-etica di Schopenhauer possa dare un apporto all’attuale riflessione anche sull’etica stessa. E qui ne va in particolare di un intendimento “cognitivista” oppure “non-cognitivista” dell’etica; laddove poi quest’ultima ricostituisce esattamente i contorni di una visione radicalmente realista. Nell’ «-ismo» non-cognitivista si presuppone infatti che il comportamento etico non si fonda su alcun genere di a priori razionale. Quindi esso risulta giustificato sul piano semplicemente ed unicamente immanente, ossia solo e soltanto sul piano di una «realtà» la cui pienezza è assolutamente incondizionata a qualunque dimensione conoscitiva, soggettuale o ideale. Nel caso specifico, comunque, Schopenhauer viene ritenuto interprete proprio di un tipico “realismo morale” – egli sostiene infatti che il comportamento etico insorge unicamente nel contesto di una disposizione assolutamente naturale ed universale al bene (e particolarmente come “compassione”). Sta di fatto però che lo stesso Marshall pone fortemente in evidenza sia la dimensione epistemica del male (male come “ignoranza” ed “errore”, e quindi come tale deviazione dalla fisiologia naturale) sia anche la dimensione esplicitamente metafisica di tale dimensione epistemica. Il pensatore tedesco incentrava infatti la sua visione sulla dottrina upanishadica dell’impersonalità Totalità dell’intero essere, incluso l’uomo – con la conseguenza che il male non è mai appena di un singolo ma invece sempre del Tutto. Ora, è del tutto evidente che ciò riposa su una concezione che più platonico-pitagorica non potrebbe essere – ossia quella del male come ignoranza.13 E questo implica allora che, se la sensibilità etica del filosofo (dimensione intrinsecamente etica della conoscenza) era esistita di fatto fino a Schopenhauer, essa si è successivamente persa in un gelido ed unilaterale cognitivismo. Quest’ultimo ambisce poi a configurare una vera e propria morale pur sulla base del concepire cognizione e valore come due onticità rigorosamente separate l’una dall’altra. Ma le cose, come vedremo tra poco, risultano ancora più paradossali quando – a ridosso della dirimente dimensione metafisica così come postulata da Schopenhauer – bisogna constatare che il moderno filosofo non può affatto definire il realismo morale; e ciò per il semplicissimo fatto che egli ignora totalmente (e scientemente) la definizione metafisica di Realtà. Possiamo pertanto constatare che Marshall – pur sforzandosi molto di sostenere il valore della tesi schopenhaueriana entro il moderno “realismo morale” – nei fatti non fa altro che trattare della relativa questione ristretta esattamente come essa si ritrova nell’attuale riflessione. Egli infatti si arrampica letteralmente sugli specchi per poter usare un logos rigorosamente filosofico-analitico che intanto ricomprenda in sé il discorso profondamente metafisico di Schopenhauer. E così di fatto egli pretende di ridurre tale discorso entro le moderne questioni e prese di posizione filosofiche; ossia pretende di ricondurlo ai relativi «-ismi» (in questo caso il “realismo”). Ecco allora che egli difende con forza l’originalità e paradigmicità (addirittura super-filosofica) di Schopenhauer. Ma intanto ciò avviene sul piano di un discorso che non può né comprenderla né giustificarla. Il pensatore tedesco ritiene infatti che la morale sia naturalistica e quindi realistica (tendenza ad essere compassionevole insita nello stato di natura umano senza alcun intervento della cognizione, e quindi anche della cultura), solo finché essa non venga però oscurata dalla personale ignoranza. Inoltre poi il consolidamento di tale morale richiede infine per lui uno stato più avanzato di realismo, che è in primo luogo profonda comprensione (“insight”) intellettiva della Realtà come Totalità, ossia come mancata separazione dell’Essere in entità singolari. Come possiamo facilmente vedere, dunque, anche laddove davvero la SDF viene invocata in maniera radicale (indicando in un pensatore non attuale, e peraltro metafisico-religioso, un possibile paradigma per il pensiero più estremamente attuale), alla fine tale invocazione viene comunque totalmente depotenziata dal fatale ricadere del discorso entro le abitudini canoniche del pensiero ultra-moderno. Tuttavia, il luogo in cui le cose divengono davvero eclatanti sta laddove il discorso della FM affronta davvero di petto la questione della “fede”, ossia quando si analizzano le stesse “truth-conditions” (Rayo). E qui non a caso ritorna attuale Platone con la sua visione della matematica e del numero. Ma soprattutto qui emerge il fenomeno degli «-ismi» in una sua veste davvero estrema. Le posizioni filosofiche in gioco sono qui infatti “committalismo” e “non-committalismo”. Orbene, il cultore di studi filosofici che non sia abituato al linguaggio filosofico ultra-moderno, verrà colto addirittura da sacro terrore di fronte alle due espressioni. E giungerà così addirittura a chiedersi con quale impudenza egli si sia accostato al testo, essendo così abissalmente ignorante in filosofia. Infatti, per quanto egli frughi nella sua mente, non riuscirà a ritrovare da nessuna parte nozioni designate da queste denominazioni. Ed invece si tratta solo di un inconsistente gergo modernistico e non poco scientista; peraltro linguisticamente davvero barbarico come solo nella cultura anglosassone poteva accadere. Ebbene cosa sono realmente il committalismo ed il non-committalismo, ed in cosa essi si contrappongono? Tutto nasce non a caso intorno ad una questione davvero ridicola, eppure tremendamente presa sul serio nel relativo dibattito – la frase “il sistema solare ha otto pianeti”. E dunque, in relazione a tale affermazione, il committalismo parla del coinvolgimento soggettivo con il solo numero nella sua purezza astratta; mentre il non-committalismo rileva che l’affermazione dà incontestabilmente per vero (in quanto semplicemente reale) che esistono realmente otto pianeti. La questione è insomma se il numero sia oggettuale-oggettivo (ossia reale in quanto esso stesso immanente insieme agli oggetti numerai), o sia invece solo puramente ideale. Ecco allora che per il committalista io colgo il numero di una serie di esistenti (otto pianeti) solo se intanto ne posseggo la rappresentazione di tipo numerico (la quale è sempre e per definizione più vera della realtà oggettiva), rispetto ad una realtà oggettuale che invece onticamente non è numerica. Invece per il non-committalista il numero semplicemente “esiste” quale ente immanente. Ne consegue allora, dice Rayo, che il committalismo crede nei fatti in un “platonismo matematico”. E questa è peraltro per lui una colpa, dato che egli sostiene che tale dottrina dovrebbe ormai già da tempo essere stata totalmente dismessa. Ora, non è difficile riconoscere in tutto questo delle questioni di un’antichità ed ovvietà filosofica davvero sconcertanti – di esse si trova la traccia infatti a partire da Platone fino alla disputa scolastica tra nominalismo e realismo. Insorge quindi fortissimo il sospetto che forse i filosofi anglosassoni non hanno mai studiato la storia della filosofia. Come spiegarsi, se non così, il fatto che essi ritengano non solo nuove tali questioni ma perfino sentano l’esigenza di denominarle totalmente ex novo? E ciò sottolinea poi il fatto che effettivamente ormai la filosofia viene insegnata molto più come tecnica del pensare che non invece come storia dell cultura. Tuttavia la cosa non finisce qui. Perché l’autore dell’articolo parte dalla questione committalismo non-committalismo solo per poi prodursi nella misura delle ragioni delle due contrapposte posizione per mezzo dell’applicazione di una “tecnica” filosofico-matematica, e cioè la cosiddetta “φ(w) technique”. Più precisamente egli intende valutare per questa via (e sul piano delle due posizioni contrapposte) l’agire ed il vigere delle condizioni di fede sul piano della realtà oggettiva. Ancora più precisamente si tratterebbe del verificare il sussistere di un “ontological commitment” (nel senso di fede immanentista) in relazione alla stabilità delle condizioni di fede – nel caso specifico di proposizioni relative alle “serie” numeriche (“set-sentences”). Ancora una volta vediamo qui emergere la dimensione dell’ontologia; e questa volta in una maniera ancora più sconcertante che entro il naturalismo di Quine. Qui infatti è “ontologica” la visione più radicalmente e ciecamente immanentista che si possa immaginare – ossia quella che quasi riduce a zero l’intera dimensione della conoscenza attiva. Ma oltre a ciò è ancora più sconcertante il fatto che grazie all’impiego di una vera e propria “tecnica” matematica bell’e pronta (molto simile agli algoritmi statistici che si usano per studiare i fenomeni biologici) si possa (e perfino si debba) fare chiarezza in una questione che più puramente filosofica non potrebbe essere. E qui di nuovo va ricordato che (in opposizione alla stessa ermeneutica heideggeriano-gadameriana), Tugendhat ha sottolineato l’importanza fondamentale di una “giustificazione” dell’interpretazione (quale ricerca della verità entro l’atto di interpretazione comprendente), in forza della quale per davvero si pongono le condizioni per ciò che è “fede” (“truth”).14 Si tratta in tal modo senz’altro di una rivendicazione di tipo scientista. Ma essa resta comunque lontana da un filosofare, incentrato addirittura sulla logica matematica (come quello di Rayo), che proprio su questo piano cerca le giustificazioni della fede. Comunque Gadamer sottolinea che l’interpretazione genuinamente ermeneutica fonda una comprensione che, travalicando le regole oggettive, va ben oltre proprio la dimensione del mero “calcolo”. E così l’apprendimento si pone ben più come pratico che non come puramente “mentale”. Non a caso il Romano sottolinea che la rivendicazione gadameriana dell’ermeneutica all’area umanistica ha esattamente lo scopo di sottrarla al dominio delle scienze positive soprattutto matematiche. Ecco allora che emerge in maniera ancora più chiara il fatto che una larghissima parte dell’attuale riflessione sulla “fede” (“truth”) è deviante proprio in quanto essa si pone in maniera unilateralmente scientista. Infatti, perfino nel pieno del pensiero moderno (quello di stampo heideggeriano), basta correggere anche solo leggermente la rotta verso l’autentico ambito della riflessione filosofica (quello umanistico) per ritrovarsi immediatamente su un terreno ben più condivisibile. Con il genere di ricerca proposto da Rayo, siamo pertanto molto prossimi ad una vera e propria ordinaria aberrazione del pensiero ultra-moderno. Quindi proprio qui possiamo constatare fino a che punto ed in che misura i tradizionali idealismo e realismo si siano frantumati in una miriade di prese di posizione («-ismi») che sono ormai purissimamente analitiche. Del tutto coerentemente, dunque, esse appaiono poi incentrate unicamente sul ristrettissimo gruppo ideologico di pensatori (che sostengono una determinata posizione), oppure addirittura sul singolo pensatore stesso; ma non più invece né sulla Scuola di pensiero né tantomeno su un vero sistema di pensiero. Ebbene, ognuno dei relativi «-ismi» prende per sé un po’ dell’idealismo o del realismo tradizionali; e grazie a questa dotazione bellica si pone poi in conflitto con un altro gruppo. Infine a tutto ciò corrispondono dei veri e proprio ristrettissimi clusters di riflessione su singoli aspetti (della mente o della realtà), a loro volta inevitabilmente e puntualmente associati alle relative aree di ricerca scientifica. Qui insomma giungiamo davvero al culmine della desolazione costituita dall’attuale scenario filosofico. E si badi bene che non ci troviamo ancora nemmeno nel pieno del realismo ultra-moderno ed ormai apertamente scientista. Sta di fatto, comunque, che ci troviamo nel pieno di un dibattito che occupa a pieno diritto le attuali e correnti riviste di filosofia.
Conclusioni Abbiamo illustrato nell’Introduzione molto in grandi linee quale sia lo scenario dell’attuale realismo filosofico. Abbiamo poi successivamente seguito alcune linee degli sviluppi subiti dalla riflessione a partire dalla FA fino dentro all’attuale dibattito – rappresentato sia da temi filosofico-analitici che realisti. E nel contesto di quest’ultima illustrazione abbiamo potuto chiaramente constatare in cosa consistono specificamente alcuni tipici aspetti del desolante scenario rappresentato dalla Filosofia attuale. Ebbene, quali definitive conclusioni si possono trarre da tutto questo? – al di là ovviamente del giudizio di valore che a questo punto può (o meno) venire espresso dal lettore eventualmente interessato ad esso. A nostro avviso bisogna concluderne che non è desolante solo l’atto in sé (puro e semplice) del totale confluire della Filosofia entro la Scienza empirica. Come abbiamo visto, infatti, anche prima del realismo attuale, non solo vi era l’aspirazione a tale risultato, ma essa veniva anche messa in pratica correntemente ed inoltre con estrema convinzione. Il punto quindi non è nemmeno questo, ma è semmai l’assoluta ovvietà che ha assunto un filosofare che nei modi più diversi tende a deragliare dal corso che qualunque cultore di studi filosofici si aspetta spontaneamente che esso dovrebbe avere. Abbiamo constatato infatti che lo scenario della Filosofia, una volta costantemente unitario (nonostante le fisiologiche contrapposizioni tra Scuole di pensiero ed anche tra Epoche di pensiero), si è ormai frantumato nei più diversi modi possibili. A cominciare dagli scritti, che ormai nessun lettore può più abbracciare nemmeno in minima parte. E lo stesso vale per le questioni nelle quali si è suddivisa la disciplina, subendo così una vera e propria polverizzazione. Eppure bisogna constatare che proprio intorno a tutto questo vi è ormai un lavorio davvero febbrile e sconfinato, ossia qualcosa che effettivamente in Filosofia non aveva mai avuto tali proporzioni. Vi è insomma un agire dal quale sarebbe ben lecito aspettarsi una produttività eccezionale e fuori dal comune (per ricchezza e valore); e che potrebbe così costituire il vanto di una disciplina ormai giunta al suo apogeo. Ma è veramente così? Quali sono mai, insomma, i frutti effettivi di questo così mastodontico e sterminato Apparato, che ormai somiglia per davvero ad un termitaio di proporzioni non solo planetarie ma addirittura cosmiche? Di fatto nessuno! O meglio – per essere più giusti e precisi – il frutto di tutto ciò è un continuamente oscillante e pendolare «fare e disfare» la Tela di Penelope del filosofare, che non ha paragoni in tutta la storia del pensiero umano. Non vi è però intanto una sola conclusione che possa venire considerata un’acquisizione stabile della Filosofia prima e dell’Umanità stessa poi. Non vi è una sola (anche appena striminzita) area di vero e stabile consenso intorno ad un gruppo di questioni, che sia poi in grado davvero di dare un qualche contributo definitivo alla cultura filosofica prima ed umana poi. E non vi è, infine, una sola area del sapere umano (nella sua più profonda autenticità ed interezza) che possa in tal modo riconoscere alla Filosofia il merito di aver fornito ad essa un contributo non diciamo decisivo ma almeno tangibile. C’è però comunque un aspetto nel quale tutto ciò può non venire considerato vero. E la cosa costituisce davvero il paradosso dei paradossi. L’ultra-moderna Filosofia, infatti – specie nella sua forma ultimamente realista –, contribuisce ormai molto attivamente alla ricerca scientifica che è propria di un’area composita ruotante intorno alla cosiddetta «intelligenza artificiale». E la punta di diamante di tale contributo è il cosiddetto «cognitivismo», ossia un’area di studi filosofici che peraltro (non a caso) risente ancora oggi molto direttamente dell’apporto della FA, della FM e della FL. Infine il contributo offerto per questa via dalla Filosofia alla Scienza, si riversa direttamente nella ricerca tecnologica e quindi nella relativa produzione industriale. L’immenso e sterminato lavorio dell’Apparato filosofico (del quale abbiamo appena parlato) ha pertanto il suo senso solo e soltanto in relazione a questo. E pertanto lo stesso spaccato di riflessione che noi abbiamo indagato (per mezzo dell’esame a campione dell’attuale letteratura filosofica) contiene esattamente quelle questioni la cui trattazione è funzionale a tutto questo. Ebbene questo è un paradosso non solo eclatante ma davvero desolante (se non scandaloso). Perché l’unico modo in cui può oggi venir considerata sensato il febbrile lavorio di quello sterminato Apparato filosofico che sembra produrre il puro nulla, è quello rappresentato dal più puro e bruto utilitarismo produttivo. Ed è assolutamente evidente che in questo modo la Filosofia tradisce e contraddice sé stessa non solo nei suoi presupposti ellenico-platonici, ma addirittura fin dentro le più autentiche aspirazioni (integralmente «filosofiche») del più prossimo pensiero moderno (non ancora corrotto da post-modernismo ed ultra-modernismo); ossia quello che fu rappresentato dalla Fenomenologia husserliana. Proprio in tale contesto, infatti, ci si adoperò con grande energia per dare alla Filosofia un volto che contraddicesse nel modo più radicale possibile esattamente il moderno utilitarismo (e specialmente quello positivista e scientifico-empirista). Dunque noi dovevamo arrivare proprio a questo. La Filosofia doveva raggiungere l’apice della sua estensione e del suo spessore solo e soltanto per dover celebrare il suo più tragico, rovinoso e folle harakiri. E quindi proprio questo è davvero il punto più alto e tragicamente vibrante della desolazione alla quale abbiamo cercato di dare un volto in questo articolo.
Note 1 Jonas Hans, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio di responsabilità, Einaudi, Torino 1997. 2 Richard Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 2014. 3 Pérez de Laborda Miguel, “La filosofia analitica oggi”, Acta Phil, 12 (1), 2003, 137-152. 4 Sander Verhaegh “Boarding Neurath’s boat: the early development of Quine’s naturalism”, J. of History of Philosophy, 55 (2) 2017, 317-342; Sean Morris, “Quine, Russell, and naturalism: from the logical point of view”, J. of. History of Philosophy, 53 (1) 2015, 133-155; Juliet Floyd, “Recent themes in the history of early analytic philosophy”, J. of History of Philosophy, 47 (2) 2009, 157-200. 5 Pérez de Laborda... cit. 6 Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1997, III-II, p. 351-354, III-II, 1 p. 354-389. 7 Wolfgang Smith, The Quantum enigma: finding the hidden key, Angelico Press Sophia Perennis, San Raphael 2001. 8 Edith Stein, Übersetzungen V. Alexandre Koyré Descartes und die Scholastik, ESGA 25, Herder, Freiburg Basel Wien 2005. 9 John W. Yolton, “Textual vs. conceptual analysis in the History of Philosophy”, J. of. History of Philosophy, 13 (4) 1975, 501-512]. 10 Margareth J. Osler, “The History of Philosophy and the Hystory of Philosophy: a plea for textual History in context“, J. of History of Philosophy, 40 (4) 2002, 529-533; Richard A. Watson, “What is the History of Philosophy and why it is imprtant?, J. of History of Philosophy, 40 (4) 2002, 525-528; Gregor Sebba, “What is ‘History of Philosophy’”, J. of History of Philosophy, 8 (3) 1970, 251-262; Paul Oscar Kristeller, “History of Philosophy and History of ideas”, . of History of Philosophy, 2 (1) 1964, 1-14. 11 Alex Byrne, “Intentionalism defended”, The Philosophical Review, 110 (2) 2001, 199-240; Colin Marshall, “Schopenhauer and non-cognitivist moral realism”, J. of History of Philosophy, 55 (2) 2017, 293-316; Augustín Rayo, “On specifying truth-conditions”, Philosophical Review, XXX (10), 2008, 10-55. 12 Platone, Teeteto, Feltrinelli, Milano 2009, 159d p. 81, 177e p. 133, 181 cd -186 e p. 145-157, 189a-190d p. 167-199, 193d p. 185, 202a p. 207, 206e-207c p. 223, 207a p. 233; Platone, Cratilo, Laterza, Roma Bari 2008, 385c-386d p. 7-11; Platone, Lettere, Rizzoli, Milano 2008, 324-352 p. 133-224; Platone, Menone, Laterza, Roma Bari 2011, XV, 81d-82b p. 27-31; Davide Spanio, La filosofia come ricerca dell’epistéme. Il paradigma del Teeteto platonico, in: Platone, Teeteto... cit., p. 257-293; Paul Friedländer, Platone, Bompiani, Milano 2014, I, VIII p. 182-184. 13 Luciano Montoneri, Il problema del male in Platone, Victrix, Forlì 2014, I, II p. 46, I, IV p. 73-74, I, IV, 1 p. 97-105, I, IV, 4 p. 124-129, I, IV, 5 p. 149-155, I, IV, 6 p. 156-158, II, I, V, I p. 195-198, I, I, V, I p. 212-218. 14 Romano... cit.
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