Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Identità e sostanza metafisica di Napoli. Conclusioni

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In tutta la serie di precedenti articoli ho cercato di esaminare la «questione Napoli» nella forma specifica di un vero e proprio problema, e quindi come un’esplicita urgenza drammatica.

Per poter riuscire in questo scopo sono partito in primo luogo dalla definizione di Napoli come una realtà davvero comprensibile solo per mezzo di un’indagine «metafisica», ossia un’indagine che punta alla profondità invisibile dei fenomeni e non invece alla loro superficie.

E su questa base si è lasciata poi intravvedere la «sostanza» di Napoli, ossia la natura che accomuna tutti i fenomeni della vita partenopea. Infine tale sostanza si è rivelata determinata da un’«essenza» ancora più profonda, che costituisce poi l’identità stessa di Napoli.

Proprio nella negatività di tale essenza abbiamo così potuto riconoscere l’effettiva determinante in senso negativo di tutti i fenomeni.

 

Successivamente poi, emergendo da tale profondità, sono andato esaminando strato dopo strato tutti i piani di manifestazione sui quali l’identità profonda fa sentire il proprio effetto determinante.

Ed è evidente che con questa successione di strati va intesa la stessa sostanza partenopea, colta però anche nella sua dimensione verticale oltre che in quella orizzontale.

Orbene, nel momento finale in cui abbiamo visto emergere tale sostanza nella maniera più esteriore possibile – e cioè in forme sì astratte, ma solo nel senso che esse rappresentano la sostanza di Napoli nella sua maggiore ampiezza possibile (evidente nei fenomeni dell’«antico», della «città divisa», delle «conventicole» familiari, ed infine della fenomenologia propria dell’«essere-riconosciuti» – si è posto in maniera davvero inesorabile il problema del giudizio certamente negativo da dover emettere su Napoli.

Di fronte alla negatività di tali fenomenologie, insomma, si delineava in maniera chiarissima la necessità di giudicare in maniera radicalmente negativa i fenomeni determinati dall’essenza profonda. E nelle conclusioni dell’ultimo articolo tale problema si presentava anche nella forma specifica di un’ineluttabile negatività complessiva, alla quale sembra proprio che ci si debba arrendere.

Quest’ultima del resto si ricollegava perfettamente al principale elemento emerso nella discussione preliminare della metafisicità della «questione Napoli», ossia proprio l’invariabilità di fatto che caratterizza l’identità napoletana in maniera davvero essenziale.

Era apparso chiaro, infatti, che in qualche modo Napoli non sarebbe più la stessa se essa si consegnasse per davvero armi e bagagli ad una qualsiasi prospettiva di cambiamento.

Ebbene, credo che si debba partire proprio da tale elemento per cercare di tirare le somme di quest’intera indagine. E dico subito che sono però deciso a tirare le somme in maniera esplicitamente costruttiva, e quindi positiva.

Ci tengo a chiarire questo perché credo sia decisamente giunto il momento di uscire dal severo ruolo censorio, al quale mi sono obbligato ad attenermi scrupolosamente nel corso dell’intera indagine. Infatti se non l’avessi fatto, sarebbero venute fatalmente a decadere le intenzioni di fondo dell’intera operazione che intanto stavo cercando di condurre.

Essa tendeva cioè proprio a portare impietosamente allo scoperto il maggior numero possibile di elementi, per poter alla fine formulare un giudizio sulle negatività, che avesse per davvero un fondamento.

Ed il perché di tale giudizio negativo risiede proprio nell’elemento primario che emerge nell’esaminare Napoli per mezzo di una lettura metafisica, ossia la stessa sostanziale negatività dell’identità che nei fatti viene costantemente allo scoperto nelle fenomenologie da essa stessa determinate.

Ma in questo io mi sono limitato semplicemente ad osservare, e cioè a prendere atto dei fatti così come sono. Dunque, se questi si presentano in maniera negativa, ciò non dipende assolutamente da me, ossia non dipende assolutamente da una mia presa di posizione pregiudiziale. La loro negatività è invece oggettiva. E proprio come tale dovrebbe stare sotto gli occhi di tutti. Pertanto se ciò non avviene, è perché si tende a non guardare le cose in maniera obiettiva.

Tuttavia io non mi rallegro affatto di tutto questo.

Il punto di vista da cui parto, infatti, quale figlio di una terra che amo profondamente (ed anzi visceralmente), non è certamente quello del denigratore di Napoli per partito preso. Indubbiamente io ho sostenuto la necessità di un giudizio negativo, che di per sé non può non essere soggettivo. E di certo ho anche finalizzato espressamente la mia lettura stessa a tale giudizio, e precisamente ad un giudizio che, in ragione dell’obiettiva negatività dei fenomeni, non può che essere negativo.

Tuttavia la lettura dei fatti non è la stessa cosa del giudizio su di essi. E non per caso, infatti, il giudizio può venire solo alla fine della lettura stessa.

Ebbene, ora però che questo giudizio finalmente c’è stato – e sono consapevole che esso è caduto sul collo della povera Napoli davvero come un’affilata e spietata mannaia – io credo di poter finalmente liberarmi del disagio che mi ha accompagnato nel corso dell’intera mia indagine.

Sì, io ho realmente sofferto nel portarla avanti. E più essa si approfondiva nelle forme concrete, più la sofferenza diveniva acuta.

Ciò in primo luogo per il timore di offendere persone reali (cosa che, lo ribadisco ancora, non corrisponde assolutamente alle mie intenzioni); ma in secondo luogo anche perché, su un piano ben più generale, io ho dovuto costantemente convivere con il dubbio di essere fin troppo severo con questa città e terra. Il mio reale timore è stato insomma quello di aver messo in evidenza più gli aspetti negativi che quelli positivi.

Orbene, è del tutto ovvio che a nessun luogo al mondo può essere ascritta una così totale negatività, da dover poi escludere che in esso vi siano comunque cose e persone assolutamente positive. E questo vale senz’altro anche per Napoli.

Il che viene poi chiaramente testimoniato da una quantità infinita di evidenze positive; e non solo storiche ma anche estremamente attuali.

Il guaio è però che tutte queste positività non vengono informate da quello che si potrebbe definire come «il tipico spirito napoletano», ossia quel modo di essere il quale fa sì che Napoli si distingua (in negativo) da qualunque altro luogo al mondo.

In qualche modo, insomma, i così tanti napoletani «positivi» costituiscono coloro che meno tendono a delinearsi come «napoletani tipici». Non a caso a molti di noi è toccato di sentirci dire da osservatori non napoletani: – «Ma tu non sembri affatto un napoletano!». Ciò indica, quindi, che la negatività oggettiva dei fenomeni esiste per davvero. Tanto che essa viene colta in maniera certa ed infallibile proprio dagli osservatori esterni.

Del resto ho ribadito più volte che non penso assolutamente che la maggioranza dei Napoletani sia realmente negativa. Ho invece soltanto cercato di mettere in luce che noi tutti, purtroppo, paghiamo il prezzo del sussistere effettivo di una determinazione negativa profonda, la quale dispone poi di una forza straordinaria. Essa possiede cioè la forza di condizionare ampiamente cose e persone; ed in maniera che realmente esse tendano poi a costituire una negatività estesa nel senso della maggioranza.

Questo significa però che all’ingenerarsi di tale negativa e mostruosa maggioranza bisogna nei fatti attivamente e irriducibilmente resistere. Infatti a Napoli la determinazione negativa dei fenomeni è sì da considerare solo relativa (come ho appena chiarito), ma intanto essa comunque sussiste innegabilmente. E quindi non può essere in alcun modo ignorata. Essa è insomma una forza reale ed attiva, e peraltro è anche davvero possente.

Pertanto, qualora la si lasci agire, essa svolgerà senz’altro fino in fondo il suo lavoro. Ed allora nulla vieta che la determinazione negativa si faccia per davvero totale. In altre parole i Napoletani «positivi» devono smetterla di essere solo delle comparse sullo scenario storico-sociale di Napoli.

Devono smetterla di assistere passivamente allo scempio – facendosi così interpreti essi stessi di quel così fatalmente negativo «nun fa niente!» (oppure «e cche ‘bbuò fa!»).

Essi devono invece divenire finalmente protagonisti. Solo così, infatti, verrà spezzato quel fatale incanto che rende la determinazione negativa davvero ineluttabile.

Questo significa allora che la prossima Rivoluzione riformatrice di Napoli (il prossimo 1799) dovrà essere fatta in modo molto diverso, e cioè con molta più profondità e lucidità dello sguardo.

Ecco, una volta chiarito tutto questo – e quindi poste in luce quelle più profonde intenzioni della mia indagine che in alcun modo sarebbero potute emergere in itinere –, vorrei ora tentare di trarre delle possibili conclusioni positive e costruttive; e ciò proprio da una lettura così negativa (ed in parte perfino distruttiva) com’è stata la mia.

In altre parole, dunque, davvero si può e si deve dire – in base ad una lettura così negativa dei fenomeni – che a Napoli non sussiste né sussisterà mai alcuna speranza?

Ebbene, bisogna a tal proposito essere estremamente onesti e cercare quindi di non fare assolutamente alcuna retorica. Sarebbe pertanto solo disonesto e retorico se io ora tentassi di nascondere le ragioni obiettive che nella mia indagine sono emerse per pervenire alla conclusione che effettivamente non sussistono ragioni di sorta per nutrire speranze.

E tuttavia bisogna anche che comprendiamo qual’è la vera natura della speranza. In verità essa è in qualche modo dello stesso genere di quel giudizio al quale conduce una lettura delle cose che prenda imparzialmente atto delle evidenze oggettive.

Anche questo giudizio, infatti, è sorretto da una passione; e precisamente una passione che è positiva proprio come quella che intanto vive nella speranza.

In altre parole, anche se potrebbe non sembrare così, tanto la speranza quanto il giudizio contengono entrambe un auspicio, e particolarmente un auspicio positivo. Entrambe si augurano cioè il meglio possibile (sebbene in modo diversi).

Ci troviamo così, anche nel caso del giudizio, di fronte a quella passione che mira alla trasfigurazione profonda delle cose. E ciò in modo tale che esse finalmente non prestino più il fianco né a motivi per giudizi negativi né ad alcun pessimismo.

Ebbene, mi sembra che in tal modo sia stato detto tutto ciò che bisognava dire per giustificare ultimamente le ragioni di un’analisi complessivamente negativa della realtà napoletana.

Confido insomma da questi chiarimenti possa risultare definitivamente chiaro che l’intenzione della mia indagine non è stata e non è affatto distruttiva, ossia critica per partito preso. Essa è invece decisamente costruttiva, e proprio per questo si pone come severamente critica. Si tratta quindi di una critica strumentale e non invece fine a sé stessa.

Posso qui allora senz’altro confermare la necessità che ho esposto in tutta la mia indagine. Sì, bisogna effettivamente essere molto severi, anzi addirittura spietati.

Bisogna effettivamente far calare la scure spietata del giudizio sulle cose e sulle persone.

Ma intanto non bisogna mai cessare di amare e di sperare. E pertanto, amore e speranza congiunti, faranno certamente sì che si sappia ben differenziare tra ciò che va condannato e ciò che invece va senz’altro assolto.

Di Napoli bisogna allora condannato solo il negativo, ed affatto invece «tutto».

Il giudizio, dunque, non è su Napoli stessa, ma è solo sulla Napoli negativamente determinata. Infatti, il chirurgo che asporta la parte malata del corpo, aggredisce quest’ultima non perché lo odi e lo vorrebbe morto, ma invece proprio perché lo ama.

Proprio questa metafora medica sottolinea però un aspetto davvero cruciale e fondamentale dell’intera questione.

E cioè il fatto che Napoli è negativamente determinata sostanzialmente in termini patologici, e non invece fisiologici. La Napoli negativa è insomma solo quella malata (malata da sempre), e non invece quella sana.

Ma si dà il caso che la medicina ottiene la salute come suo scopo, proprio nel combattere in campo aperto la malattia.

E dunque tutto ciò deve comportare un pressante invito generale al combattimento. Invito che non può essere rivolto ad altri se non a coloro che hanno tutti i motivi per porsi come medici, e cioè coloro che davvero amano profondamente questa città e questa terra.

Dunque l’invito deve essere rivolto proprio a quei Napoletani «positivi» che prima ho invitato a divenire finalmente presenti ed attivi. Ebbene essi devono scendere finalmente in campo contro, letteralmente contro, il così tipico Napoletano negativo.

Devono mettere in atto contro di esso reali, fattuali e soprattutto atti di effettiva interdizione.

Anche in questo senso a Napoli non bastano mai, per definizione, quelle indagini storico-sociologiche che fatalmente sono sempre anche bonarie e scusanti. Occorre invece la lotta aperta, ossia la fiera azione di contrasto (interdizione) ed infine la distruzione effettiva del nemico.

Anche se in termini metaforici, e quindi etico-spirituali, e non invece in termine fisici e letterali.

Si tratta infatti della distruzione di una malattia, di un agente patogeno; e non invece della distruzione di un ente che come tale può per definizione vantare l’inalienabile diritto ad esistere.

Parlo quindi non di distruzione di cose e uomini, ma parlo invece di distruzione della malattia che è in essi.

Pronunciate queste ultimissime parole, spero che tutto quanto ho cercato di mettere in luce in questa serie di articoli possa servire davvero ad alimentare solo dibattiti polemici sì ma insieme anche costruttivi. Non invece dibattiti esclusivamente polemici, e quindi soltanto fine a se stessi.

 

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