Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Le strutture dell’identità. L’«essere-riconosciuti»

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Il fenomeno dell’«essere-riconosciuti» va inscindibilmente di pari passo con quello del familismo conventicolare. E quindi esso dovrebbe venire in via di principio ricondotto proprio a quest’ultimo.

Così è del resto nei fatti; dato che la famiglia-conventicola deve rendersi riconoscibile esattamente per ciò che la caratterizza come tale, ossia ciò che potremmo definire come il nomen.

Quest’ultimo assume a Napoli l’aspetto poi ancora più specifico di ciò che si può definire come «nome-e-cognome», e cioè l’abitudine (e relativo atto) di presentare sé stessi sempre e comunque non soltanto con proprio il nome personale, ma invece sempre associando quest’ultimo al cognome.

E il cognome altro non è se non il nome di famiglia (in sé la gens), ossia quella specificissima denominazione della conventicola familiare che poi è fatta apposta per venire «riconosciuta». Significativa variante di tutto ciò è poi un fenomeno ben noto (e spessissimo menzionato) a tutti i Napoletani, e cioè quello di presentare sé stessi addirittura con il famoso «doppio cognome».

Qui insomma il nomen si presenta nella sua forma più piena ed estrema, e cioè nel suo stare ad indicare ormai un «preclaro nome», ossia una famiglia che si distingue molto particolarmente per la sua straordinaria dignità nel contesto civico.

 

Ci troviamo insomma nuovamente di fronte al mito del «gran signore». E ciò in primo luogo perché a Napoli il «preclaro nome» non è affatto appannaggio soltanto delle vere famiglie aristocratiche, ma invece di tutte quelle famiglie che più intensamente si presentano come conventicole.

Ossia quelle il cui nome suggerisce universalmente il possesso pieno di quegli elementi, che a qualunque titolo possono costituire fattori di privilegio esclusivo, ricchezza e potere. Ed è del tutto ovvio che non è affatto necessario essere aristocratici per mettere in piazza queste così seduttive seduzioni. Anzi tutt’altro. Ma per farlo non è in fondo necessario nemmeno essere borghesi, ossia appartenere ad una famiglia tradizionalmente in vista proprio a causa di questo suo livello sociale.

Basta invece esibire la semplice ricchezza tout court, il semplice privilegio tout court, il semplice potere tout court; ossia aspetti attraenti in tutta la loro immediata elementarietà.

Non importa quindi assolutamente come ce li sia procurati. E soprattutto non importa assolutamente se ce li sia procurati onestamente (ossia eticamente) o meno. Vedremo poi più avanti che, proprio in relazione a questo, la rudimentalità elementare delle aspettative che agisce entro i giudizi di valore in essi all’opera, raggiunge nei fatti livelli così sorprendentemente infimi da risultare anche del tutto paradossali.

Naturalmente anche qui si potrebbe essere portati a vedere in tutto questo fenomeni che non dovrebbero essere considerati affatto specifici di Napoli. E tuttavia credo di aver già detto davvero abbastanza per giustificare che le cose non stanno assolutamente così.

Del resto salta letteralmente all’occhio che, perfino nell’ambito della stessa Campania (per non parlare poi dell’Italia), Napoli si distingue per l’accuratezza, ostinata e puntigliosa, con la quale l’identificazione della persona avviene sempre ed esclusivamente per mezzo del «nome-e-cognome». Infatti il qualificarsi solo per mezzo del nome proprio personale è cosa che viene ritenuta non avere alcun senso.

Si ritiene cioè comunemente che essa non offra alcuna rilevante informazione. E va detto peraltro che il momento costituito dall’esibizione in particolare del cognome costituisce a Napoli una vera e propria (spietata e rigorosissima) prova esaminatoria dei titoli che realmente si possiedono nel presentarsi come degni.

E qui poi – esattamente come accade nel totalmente generale consenso prestato al mito della segregazione («città divisa») – colui che in primo luogo avvalora tale prassi è proprio l’esaminando stesso.

E esattamente lui, infatti, che si espone volontariamente al tremendo rischio costituito dall’esame, e cioè quello di non «essere-riconosciuti». Ma evidentemente questa prova viene considerata come un’esperienza per la quale è impossibile non passare per poi poter davvero ambire ad accedere ad uno dei più ambiti privilegi a Napoli conosciuti; e cioè quello dell’inclusione.

Vi è però anche un’altra obiezione riduzionistica che potrebbe essere applicata alla teoria che sto esponendo. Si tratta in qualche modo ancora una volta di quella retorica che vorrebbe Napoli essere la diretta erede della cultura civica ellenica.

E qui si potrebbe ipotizzare un senso altamente positivo (in senso del tutto fisiologico) della mitologia dell’«essere-riconosciuti»; ossia quello rappresentato dall’offerta all’uomo naturale, da parte dello spazio civico, di un formidabile, quanto definitivo ed assolutamente indispensabile, riparo dalla nuda esposizione alla Natura.

Si tratta in qualche modo di quanto sostiene proprio anche il Vico stesso; nel porre in risalto il fatto che esattamente la famiglia – che è poi il nucleo stesso di ogni agglomerato urbano e realtà civica – sta alla base della Civiltà o anche Cultura.1

E tuttavia io sono portato a credere che la realtà napoletana venga correntemente intimata (alla determinazione di forme tipiche, che anche in questo caso la caratterizza) da qualcosa di storico-culturalmente ben più basico, elementare e fondamentale di quanto appena evidenziato.

Si tratta dunque di qualcosa di culturalmente ben più profondo, e pertanto forse ben più antropologico che non invece culturale. In qualche modo di potrebbe dire che si tratta di qualcosa di ben più antecedente alla cultura ellenica, e quindi forse coincidente con il fondo più arcaico della cultura mediterranea.

Ma qui dominano decisamente elementi di aggregazione civica che sono di per sè ben meno etici, e quindi hanno probabilità ben minori di configurare una fenomenologia in gran parte positiva. Parlo cioè di qualcosa di molto prossimo alla moderna teoria del cosiddetto Blut und Boden, ossia quella che pone il sangue-suolo come il valore assoluto (in quanto basico-elementare); e nel quale si radicano poi con la maggiore forza possibile le decisioni di una comunità umana locale a nascere, esistere e persistere.

E mi sembra che ciò corrisponda molto meglio a quella così inestricabile commistione ambigua di bene e male che caratterizza la decisione ad essere di Napoli quale realtà civica. Del resto con ciò si tratta nuovamente di quel prevalere a Napoli della Natura sulla Cultura, che abbiamo visto avvalorato come fenomeno in vari modi anche da parte di La Capria. Tra l’altro egli lo fa (esattamente in questi termini) anche laddove si sforza di descrivere più direttamente fenomeni civico-sociali di tipo esplicitamente degenerativo.2

Ecco allora che, una volta posti tali presupposti di fondo, il così tenace attaccamento del Napoletano al nomen (e specie nella sua forma di «preclaro nome») appare voler riferirsi molto più ad una realtà civico-sociale fondamentale com’è il clan, che non invece ad una comunità colta in tutto il suo obiettivo valore. Con il clan siamo dunque di fronte ad una realtà civico-sociale che è fondamentale solo in quanto è estremamente elementare, ossia molto prossima alla biologicità animale, e cioè al branco – quello che Canetti definì come “muta di caccia”, e quindi come una comunità consacrata ai meri compiti di ferina sopravvivenza.

E questo è poi anche quanto abbiamo già visto (sulla base della Arendt) nel precedente articolo dedicato alla famiglia conventicolare.

È dunque evidente che con il clan noi ci troviamo per definizione di fronte ad una costellazione che, nel caso dell’essere umano, non può che essere di per sé degenerativa e deplorevole – ciò in quanto essa, essendo meramente biologica, deve giocoforza mancare totalmente di eticità.

Non a caso nei fatti essa si presenta non solo come luogo civico-sociale in cui trova espressione non solo la più indiscriminata restrizione escludente (nei termini degli spazi delimitati e risorse in essi concentrati), ma anche perfino la sua forma più esplicitamente criminale.

Il termine clan non a caso è stato sempre di impiego apertamente criminale. Siamo insomma di fronte a tutte le possibili forme e varianti di quella propensione all’ «accaparramento», che abbiamo poi visto essere tipico della peggiore Napoletanità.

Ebbene, tutto questo ci permette di comprendere meglio il senso che assume tradizionalmente il valore attribuito collettivamente al nomen, in una realtà identitariamente connotata al modo specifico di quella napoletana.

Il primo fatto da osservare a tale proposito concerne sempre il clan. Infatti sarà evidente che, dato che il modo di essere di quest’ultimo è per definizione il parassitismo accentratore, rapinoso e violento – ovvero quella che potrebbe essere la cecità vorace e distruttiva, ma intanto insidiosa, di un mostruoso verme –, a questo punto basterà sommare queste realtà l’una all’altra per ottenere il corpo stesso dell’intera Città.

E segnatamente quella Città che si ispira esattamente agli stessi disvalori nel proprio continuo auto-costituirsi (nel suo proprio essere ed agire). Ecco allora che questa Città andrà riconosciuta come una sorta di super-clan (e quindi super-verme), il quale poi appare essere infinitamente più mostruoso e ripugnante dell’unità elementare che lo costituisce.

Lo è infatti su una scala infinitamente più grande, e quindi anche disponendo di una potenza distruttiva infinitamente più grande.

Ebbene in tal modo noi ci troviamo esattamente davanti alla dimensione ubiquitaria e trasversale rappresentata del Gran Lazzaro (vedi l’articolo dal titolo I tipi antropologico-sociali. L’auto-compiaciuto).  Ma in tal modo ci troveremo anche davanti ad un aspetto molto speciale dell’essere di quest’ultimo; e cioè il suo imporsi nella forma di una Negatività così totalmente soverchiante, da essere nei fatti impossibile resisterle singolarmente.

Sul piano etico-civile si tratta insomma di un vero e proprio «sistema», ossia qualcosa che per definizione si impone come una forza determinante, che è intanto assolutamente schiacciante nel proprio agire. Non è infatti in alcun modo ipotizzabile che per davvero contro di esso si levi una sola reale voce di protesta. Eccoci dunque di fronte a quella forma di “ordine”, il cui sussistere è incentrato sulla forza irresistibile esercitata dal solo conformismo.

Proprio in esso quale Hannah Arendt ci ha mostrato il paradigma stesso di un ordine del tutto naturalmente perverso. Tanto naturalmente perverso, che in esso appare assolutamente normale e lecito ciò che invece oggettivamente non lo è affatto.3

Ecco che allora proprio in un sistema come questo l’illegalità diviene norma di fatto – e così acconsente di fatto ai crimini più inimmaginabili.

Ebbene la pensatrice si è riferita in questo al moderno ordine totalitario (e che trovò realizzazione storica per la prima volta nel nazismo).

Ma evidentemente ella non aveva mai conosciuto né studiato una realtà come Napoli. E forse, se lo avesse fatto, avrebbe dovuto costatare che questo genere di ordine perverso non è affatto essenzialmente moderno.

In ogni caso ciò che accade nel nostro caso specifico è che la sostanza negativa trasversale del Gran Lazzaro – una volta colta come la natura ontica stessa della relativa realtà civica, ossia la Napoli negativa, ed espressa in termini di clan – si presenta in modo soverchiante non tanto nell’integrazione, per quanto perversa (propria di un’entità organismica naturalmente omogenea), ma invece come un’entità che è di per sé affatto organismica, e quindi è disomogenea per definizione.

Ecco allora che il suo essere complessivo non appare altro che la somma di aree di interesse fortemente privato; le quali hanno poi non sentono tra esse stesse alcunché in comune. Espresso tutto ciò in termini più crudi – ed in relazione alla metafora animale che abbiamo impiegato prima –, si tratta insomma di un vero e proprio ripugnante ammasso verminoso.

E con ciò siamo dunque nuovamente di fronte al fenomeno della «città divisa» in tutto il suo orrore.

Tutto ciò ci mostra insomma che, per quanto esso sia oggetto di una retorica mitica che cerca molto intensamente di impersonarne il valore, il nomen a Napoli non assomiglia nemmeno lontanamente al suo pur più intuitivamente prossimo emblema positivo, ossia la romana gens quale stirps.4

Ed eccoci dunque in maniera inequivocabile davanti alla natura degenere del così largo e tenace impiego a Napoli della retorica del «nome-e-cognome».

Ebbene, non può essere affatto un caso che a tutto ciò si ricolleghi un’altra delle tipiche forme di ritualità liturgiche. E cioè quella che – in un linguaggio borghese che voleva essere raffinato ma nello stesso tempo fortemente allusivo alla consumata scaltrezza dell’agire – ho spesso udito definire come un sapientissimo insieme di faire, savoir faire e faire savoir.

Non è affatto un caso che l’elemento finale e culminante di questo così raffinato quanto sagace bon mot (senz’altro in qualche modo delizioso, e ciò in quanto decisamente di altri tempi) sia costituito da una forma tipica dell’«essere-riconosciuti».

Si tratta però anche di una sua modalità particolare, e cioè quella criticamente associata all’esibizione del «chi-si-è» nella forma specifica del dimostrarsi in possesso di una ben determinata perizia.

E si tratta per la precisione di una perizia retorica, ma anche nello stesso tempo raffinata nel senso della cinica scaltrezza. Si tratta cioè della capacità di impressionare, di stupire e convincere, nella forma particolare. E ciò è destinato poi ad avvenire del dimostrare in un sol colpo il proprio preclaro «chi-si-è» (in questo caso specifico legato ad una determinata perizia professionale) ma anche la propria consumata Napoletanità.

Ciò deve però anche avvenire nel senso più eticamente negativo possibile, ossia entro una perizia retorica del «persuadere», che deve essere capace di rasentare costantemente molto da vicino il «fare fesso» l’altro.

Bisogna insomma dimostrarsi capace di far cadere costui nella trappola tesa dalla propria arte retorica, di convincerlo nel senso di abbattere tutte le sue resistenze (intanto non meno prudenti nel senso della grande sagacia) nell’accettare e credere a ciò che in realtà non esiste affatto. E così il raffinato Napoletano qui all’opera (molto prossimo per natura ad un insieme di «gran signore», avvochëto e stimato provessore) avrà intanto sparato balle colossali ed avrà detto bugie di sana pianta.

Ma proprio in tal modo avrà accluso al proprio «chi-si-è» un valore aggiunto che è tanto sfuggente quanto prezioso, ossia qualcosa di sublime ed inafferrabile che è poi la quintessenza stessa del genio malefico partenopeo. Essere che in effetti – almeno entro il canone imposto dall’Oscuro Signore – è nato esclusivamente per ingannare.

Ebbene, è chiaro che tutto ciò costituisce comunque nel complesso una burla, ossia una leziosa piêce teatrale.

Ed è chiaro che anche l’ingannato è in effetti uno che semmai «si lascia far fesso», più che per davvero essere stato fatto fesso. È chiarissimo insomma che anche qui di fatto tutti sanno e nessuno dice. Ma comunque all’effetto finale ciò che più che conta è che l’esaminando dimostri di essere un vero e stimabile Napoletano in maniera integralmente negativa. Ossia dimostri di essere un tipo che è «simpatico» esattamente in quanto è la tipica simpatica canaglia.

Naturalmente però l’effetto di tutto questo è ben lungi dall’essere innocente. Abbiamo infatti già visto che l’esame è in effetti un esame in piena regola; e come tale è sempre spietato. Per cui mai come qui la spontaneità del comportamento non-rituale è destinata a venire altrettanto spietatamente repressa.

Accade così che nei fatti la fondamentale situazione di esame prevede ben altro che l’oggettiva qualità dell’essere quale criterio per il superamento della prova. Il che conferma poi che quello stesso così cruciale “faire savoir” – il quale viene raggiunto solo attraverso una consumata perizia scaltra –, mira a tutt’altro che al dimostrare un’oggettiva qualità dell’essere.

Esso mira infatti semmai all’esatto contrario di ciò. E proprio in questo consiste la sottigliezza perversa del gioco. Esso dunque abbaglia ed illude per definizione. Lascia credere, per poi puntualmente disingannare. E così il gioco ricomincia perennemente daccapo.

E pertanto tutto ciò che accade in tale frangente è come al solito appena un puro Nulla. In esso quindi non emerge nulla di positivo né allo stesso modo nulla di negativo.

Ma ciò avviene solo sul piano nudamente sostanziale. Perché invece, sul piano formale (ossia quello del gioco come criterio dominante e fine assoluto), il risultato netto finale è esattamente il male stesso; ossia è il Nulla nella forma di negativo onto-etico, e cioè di illusorio vuoto di essere. È esattamente entro tale vuoto di essere che quindi si staglia come un grande assente (in quanto sommo indesiderato) quella che è l’oggettiva qualità dell’essere ricercata nell’esaminando.

In termini estremamente pratici ciò significa allora che nel corso di queste situazioni sociali, che poi sono in gran parte sempre di esame – in esse ne va infatti sempre in gran parte della celebrazione della liturgia rituale dell’«essere-riconosciuti» –, non si può nutrire alcuna speranza di presentarsi in maniera spontanea, autentica o addirittura ingenua.

Il sommo del ridicolo, infatti, è costituito dal presentarsi con la speranza e lo scopo che venga riconosciuto un aspetto davvero sostanziale del proprio essere in senso effettivamente qualitativo – un talento, un onore eventualmente conquistato, una caratteristica della propria natura personale o della propria condizione per nascita, etc.

Come ho già detto, invece, aspetti ben più elementari e perfino rudimentali –  e per questo anche del tutto eticamente indifferenti, se non addirittura improntati ad una franca bassezza etica – verranno qui ammessi.

E peraltro verranno ammessi come qualità senza la benché minima difficoltà; e per giunta con un calore che potrà solo infinitamente stupire il nostro così ingenuo uomo. Si tratta infatti, come abbiamo già visto, di qualità che sono davvero elementari – possessi rudimentali in termini di ricchezza, successo e potere –, e lo sono in termini banalmente anzi brutalmente quantitativi. Insomma è solo la quantità – e quanto più elementare e rudimentale essa è –, ciò che in questi ambienti e situazioni viene più facilmente ed ampiamente ammessa come qualità.

E sarà allora quasi solo in forza di quest’ultima, che il riconoscimento avverrà poi per davvero; così che la prova potrà alla fine venir considerata ormai superata.

Tuttavia la sostanziale quantitatività del criterio di valutazione esclude perfino che sussista per davvero un’effettiva gradazione nei possessi (potenzialmente qualitativi) che vengono esibiti, prestandosi così come tali a venire giudicati.

Ciò che viene presentato può ovviamente essere più altolocata posizione sociale, economica e lavorativa – con tutto il più sfarzoso corredo di splendori, ricchezze, relazioni, poteri e fama che esso possa comportare.

E per splendori quali beni posseduti andranno qui intesi quelli che sono poi i segni più eccelsi dello standard: – un decisamente sostanzioso conto in banca, l’abitazione in uno dei quartieri (o parchi) più esclusivi della città, un giro di amici influenti, elegantissimi e brillantissimi, abiti di ottimo taglio e alto costo, un’imbarcazione di grossa stazza e con tutti i possibili comforts, la villa a Cäpri, etc. Naturalmente il suggello di tutto questo sarebbe poi il godere anche del titolo effettivo di «gran signore», e quindi conseguentemente anche del famoso «doppio cognome» (il culmine stesso del «doppio cognome»).

È del tutto ovvio che il possesso di cotali titoli rende del tutto scontato l’esito dell’esame. Tanto che in questo caso (come vedremo meglio dopo) si può e si deve dubitare anche che un esame esista per davvero.

Tuttavia forse il carattere piò eccelso è in tale contesto anche in fondo quello meno necessario. E ciò perché la gradazione gerarchica del giudizio conosce per definizione una spontanea limitazione verso l’alto; così come, in modo molto simile, essa prevede espressamente anche il mantenersi intatto del potenziale qualitativo a qualunque livello discendente esso venga collocato. Ciò che conta è dunque solo che esso rispetti alcuni crismi davvero fondamentali.

Tali crismi sono decisamente tarati verso il basso. E cioè sono appunto quelli che obbediscono ai criteri della semplicità rudimentale. In relazione ai quali poi il quale l’oggetto esaminato soddisferà certamente quelle aspettative (dell’esaminatore) nelle quali opera sempre un’avidità che per definizione condivide anch’essa la semplicità rudimentale.

Tali aspettative sono insomma davvero poco esigenti. Esse cioè si accontentano davvero di poco – almeno in termini strenuamente qualitativo-etici. In altre parole, allora, non cambia davvero molto, nella possibilità effettiva di soddisfare tali aspettative, se si esibisce uno stato di essere eccelso (come quello or ora descritto), oppure si dimostra ben più modestamente di essere appena un buon borghese in possesso di un solido patrimonio ed in possesso magari anche di una ragionevole posizione di potere.

E non è nemmeno necessario che il livello sia poi così alto. Non è insomma necessario che si dimostri di essere un docente universitario, o un magistrato ben in vista, o un capo-burocrate ottimamente collocato, o un facoltoso notaio o commercialista o avvocato o medico di grido.

Basta insomma pienamente, ad esempio, presentare come biglietto da visita il fatto di essere un direttore di banca, o un primario ospedaliero, o un insegnante di liceo, etc.

È sufficiente insomma che il legarsi in amicizia, da parte dell’esaminatore, con colui che gode di privilegi totalmente modesti come questi, offra a chi ne godrà la possibilità di ricavarne anche lui quale privilegiata preferenza, ossia la possibilità di superare qualche altro nella perenne competizione in cui i Napoletani sono impegnati.

Dato però che, come ho detto, le aspettative in causa sono per definizione affatto così alte, alla fine verrà tranquillamente ammesso perfino che si discenda perfino ancora di più lungo la gerarchia di valore di cui stiamo parlando. Basta quindi in fondo che si possieda una barchetta o un gommone ormeggiato d’estate in uno dei porticcioli della fascia costiera, che si possieda chissà dove una semplice casa di vacanza, che si sfoggi un capo di abbigliamento particolarmente vezzoso e magari anche costoso, che si disponga di un buon dentista che sappia far brillare i propri denti nel sorridere, che si abbia una faccia particolarmente in linea con i locali criteri della simpatia, e che quindi si sappia raccontare divertenti barzellette.

E se poi nemmeno tutto questo viene posseduto in maniera davvero intensa, allora le aspettative in atto potrebbero perfino accontentarsi del fatto che l’esaminando semplicemente «conosce qualcuno» –  uno qualsiasi, un qualunque tizio e caio (non importa se noto o non noto).

Insomma basta anche che egli possa dimostrare di non essere proprio un solitario cane rognoso.

Incredibilmente però la discesa infinita non si ferma nemmeno a questo punto. Insomma infine – qualunque sia lo stato sociale, finanziario o lavorativo dell’esaminando, e cioè perfino se egli è un totale «signor nessuno» collocato al più basso ed oscuro livello della gerarchia sociale, e totalmente sprovvisto di qualunque influenza e relazioni – ci si accontenterà addirittura di qualcosa di davvero elementare. Ci si accontenterà cioè che, molto ma molto semplicemente, il suo aspetto fisico corrisponda ai criteri più universalmente validi della gradevolezza a Napoli.

Egli sarà in questo caso rigorosamente molto alto, magro, brizzolato, meglio se anche biondo con gli occhi azzurri, e meglio ancora se avrà anche il viso caratterizzato tra tratti marcati, decisi e molto maschili, ed infine magari anche un corpo atletico dalla muscolatura possente. In fondo basta anche solo questo, ed in assenza di qualunque altro bene o possesso. Oso dire che, essendo in possesso di tali qualità puramente fisiche, ed aggiungendo ad esse magari anche un conticino in banca che desti un qualche interesse, all’esaminando potrà alla fine (ma molto alla fine) perfino venir condonata la colpa in sé imperdonabile di essere un cafone.

 

Ma comunque, quando tutto ciò potrà essere provato, e quando quindi l’esame si sarà ormai avviato verso il suo definitivo buon esito, la cosa diverrà immediatamente palese al nostro esaminato.

Dato che quindi in genere in questi casi ci si trova in una tipica «situazione d’esame» (tra quelle specificamente previste dal canone copionale) – la festa data presso una casa il cui proprietario può esibire un sostanzioso «nome-e-cognome», la cena non ordinaria, la cerimonia che celebra questo o quell’altro etc. –, l’esaminando si accorgerà di aver ormai superato l’esame (e spesso ciò accade perfino senza essersi nemmeno accorto di averlo sostenuto, ossia per vera e propria acclamazione dopo relativo inciucio) dal fatto che di colpo non si sentirà più come un’ombra o come un corpo trasparente e invisibile, oppure come uno strumento che suona senza emettere però alcun suono. Improvvisamente infatti egli si sentirà chiamare per nome, si sentirà dar da parlare da parte di questo e di quello, si sentirà interrogato su ciò che è, su ciò che fa nella vita, sui suoi desideri e progetti. Addirittura egli potrà cogliere una certa avidità desiderosa in quegli sguardi che ora non lo squadrano più ma invece solo lo frugano all’affannosa ricerca di qualcosa.

Ed infine addirittura potrà accadergli di sentirsi invitare a quella serata, o a quella cena, o a quella gita, o a quello spettacolo. Ma soprattutto si accorgerà di venire ormai interrogato su «chi conosce» a Napoli. Ebbene, questa domanda poteva ben far parte dell’esame stesso.

Ma l’esaminatore sa bene che è possibile porla solo in alcuni casi, e cioè in quei casi nei quali l’esito positivo dell’esame appare più scontato. In questo caso, invece, era molto meglio porre la domanda solo dopo il superamento della prova. In questa situazione allora essa vuole semplicemente suggerire un auspicio ed anche un consiglio; e cioè quello in connessione con il fatto che, una volta aver superato l’esame del «riconoscimento», sicuramente dovrà accadere che l’«essere-riconosciuto» del fortunato si allargherà sempre di più. Ed in tal modo, anche se prima non lo era, il suo stesso proprio «nome-e-cognome» si approssimerà finalmente davvero alla sua pienezza.

Ebbene – aldilà anche del già di per sé eloquente dominio assoluto del criterio quantitativo del giudizio (e nella sua forma più elementare e rudimentale possibile) –, non credo ci sia bisogno di dire che in tutta questa fenomenologia la tipica negatività identitaria partenopea si manifesta in maniera chiarissima in quello che appare essere il nucleo stesso dello spirito di «riconoscimento».

Si tratta insomma di un’esplicitazione ulteriore di quanto abbiamo già costatato a nel contesto del così teatrale scenario del “faire savoir”.

Si tratta cioè della ben nota insidiosa disposizione del Napoletano all’agguato ed al calcolo.

Si tratta cioè della sua capacità di studio accurato (al quale egli tende) di colui che intanto cade sotto il raggio di azione del giudizio del quale egli si arroga totalmente il diritto – in forza della dignità che attribuisce incondizionatamente a sé stesso.

Ma questo giudizio è esso stesso (in sé) radicalmente negativo. In quanto esso studia il proprio oggetto con l’invariabile fine di scoprire infallibilmente se in esso c’è o non c’è davvero qualcosa che possa essere utile a chi se ne fa protagonista.

Non a caso infatti i tempi nei quali il giudizio resta sospeso – in attesa del suo finale esito – corrispondono perfettamente al tempo ed allo spazio in cui l’esaminando verrà completamente ignorato, ossia verrà appunto trattato come un corpo invisibile, intangibile, e che non emette alcun suono.

Cosa accade però se l’esame invece non viene superato?

Ebbene solo al cospetto di tale questione, noi possiamo davvero cogliere la perversità realmente abissale del fenomeno.

Tra poco vedremo che in effetti, paradossalmente, è esattamente questo che l’esaminatore soprattutto si aspetta. L’esame infatti è tanto più perverso nella propria sostanza, in quanto esso non è mai davvero effettivo – ossia in principio non è aperto a qualunque risultato, in quanto comunque ragionevole e sensato, ed in questo senso positivo in quanto comunque costruttivo.

Esso è invece unicamente ed esclusivamente rituale.

Il suo scopo vero (e certamente anche quello tenuto più sapientemente nascosto) è pertanto largamente pre-determinato. E lo è tanto che si può addirittura presumere che in effetti lo stesso superamento dell’esame non venga mai per davvero previsto. E che quindi esso costituisca sempre una truffa e burla teatrale.

Anche la così stupefacente liberalità dell’esame è pertanto appena un’apparenza. Essa sussiste infatti unicamente in relazione alla bassezza che è proprio dell’esaminatore, ed ancor più dei criteri da lui seguiti.

Ebbene, possiamo comprendere tutto questo se realizziamo il vero senso di ciò che accade in effetti solo quando l’esame non viene superato. Quando ciò accade, allora il potenziale «riconoscibile» si trasformerà immediatamente in uno «smascherato»; e per la precisione uno smascherato per sempre, ossia di fatto uno sbugiardato senza più alcuna ulteriore possibilità di recupero.

Sta dunque proprio qui la malignità di fondo delle intenzioni dell’esaminatore.

Il suo giudizio ha infatti di mira proprio l’urgenza primaria che qui si delinea, ossia quella di scongiurare che entri colui che per nulla al modo deve poter entrare.

Ed evidentemente costui sarebbe colui che spezzerebbe l’incanto nel quale di fatto vive Napoli, ossia (quale autentico unico giusto in Sodoma e Gomorra) con la sua semplice presenza interromperebbe di fatto la festa orgiastica con la quale viene unanimemente celebrata la negatività più assoluta. Sta di fatto però che, in base a quanto abbiamo visto a proposito della «città divisa», a rigor di logica nessuno può essere lasciato entrare in quello spazio sacro nel quale di fatto sono ammessi solo e soltanto coloro che già da sempre ci sono.

Vediamo come è possibile che ciò accade. Partiamo dal fatto che, una volta identificato, lo «smascherato» verrà identificato definitivamente come un esterno.

E come tale egli verrà allora tenuto accuratamente lontano dalla cerchia di coloro che intanto sono da considerare i «tra-loro-già-riconosciuti»; condizione che poi corrisponde esattamente alla pienezza purissima e ideale stessa dell’«essere-riconosciuti». Costoro sono pertanto ciò che sono, in quanto recano da sempre (per nascita) chiaramente riconoscibile questo o quel segnale, ben fissato nel canone, che rende implicito il riconoscimento. Essi sono quindi coloro che mai e poi mai verranno sottomessi a giudizio, né mai e mai saranno chiamati a sostenere alcun esame. Né mai essi lo potrebbero.

In termini biologici si tratta dello stesso fenomeno in forza del quale la cellula che non reca in superficie gli antigeni self, viene riconosciuta dal sistema di controllo come non self, e quindi viene inesorabilmente contrassegnata per il prossimo rigetto.

Ecco che in tal modo ci troviamo al cospetto di quelli che sono gli inclusi per definizione, ossia colore che da considerare quei «tra-loro-già-riconosciuti» che compongono di fatto il tessuto umano stesso della Napoli più sacralmente centrale. Ed ecco che allora la farsa rappresentata dall’esame consiste esattamente nel fatto che l’esame stesso serve in effetti appena per scovare quei possibili candidati all’inclusione che non hanno però alcuna chance di venire inclusi.

Essi vengono insomma esaminati solo per venire «smascherati» – e qualunque sia l’esito dell’esame. L’atto di essere esaminati stessi equivale pertanto (indipendentemente dal risultato) al venire «smascherati».

In ogni caso, in queste condizioni specifiche, l’esclusione si manifesterà in un vero e proprio rigetto; e che potrà assumere varie forme e gradazioni, a seconda delle circostanze e delle necessità implicate.

Si potrebbe entrare nei dettagli più intimi di queste forme e gradazioni, ma non credo che comunque sia opportuno. In ogni caso si tratta delle varie forme e gradi dell’esclusione del malcapitato dal godimento dell’inserimento nella comunità al quale dà invece diritto il «riconoscimento». E naturalmente in ciò viene contemplato anche un inserimento in questo caso davvero solo ingannevole e fittivo.

Proprio gli aspetti appena riconosciuti ci fanno comprendere ancora meglio che, alla fin fine, tutto questo non configura mai nemmeno un effettivo giudizio; ossia un atto nel quale la dimensione volontaria sia in connessione con un arbitrio che escluda per definizione qualunque pre-determinazione. Anche qui infatti noi ci troviamo davanti ad un atto la cui autentica natura è in primo luogo rituale e cioè copionale.

Ciò che conta, insomma, non è né il contenuto effettivo dell’atto (dipendente a sua volta nella sua pienezza dalle relative circostanze, e quindi per definizione aperto), né forse nemmeno il suo stesso esito. Conta invece solo che l’atto sia avvenuto, ed in obbedienza a sua volta ad un imperativo categorico primario che è poi contenuto nel codice copionale.

Dunque ciò fa sì che in una certa misura l’atto del giudizio prescinda per davvero dall’effetto da esso raggiunto. In qualche modo, cioè, chi qui giudica (e i co-giudicanti che intanto lo circondano) conosce già in partenza l’esito del proprio giudizio. Sa insomma in partenza se l’esaminando supererà o meno l’esame, o meglio sa perfettamente che non lo supererà mai per il semplice fatti di essere un esaminando.

E del resto se non fosse così, egli nemmeno dipenderebbe così interamente dal codice che intanto governa totalmente il suo giudizio imponendo ad esso criteri che trascendono di gran lunga la dimensione personalistico-volontaristica. Tuttavia il giudice si sente comunque obbligato ad inscenare un giudizio. Ma, nel caso poi che l’effetto del giudizio sia l’esame non superato, nemmeno allora emergerà l’inutilità del giudizio stesso.

Anche nel suo essere approdato ad un risultato negativo, cioè ad un nulla di fatto – rispetto alle iniziali prospettive idealmente completamente aperte a qualunque risultato, cioè vuote, e quindi in qualche modo attendenti proprio di essere riempite con qualcosa di positivo –, il giudizio, una volta giunto al proprio compimento, avrà comunque riconfermato la cogente necessità del canone e del relativo codice.

E ciò in maniera ancora maggiore qualora l’ideale aspettativa (positiva) di un esito positiva sia andata elusa.

Pertanto, contrariamente alle apparenze, le vuote prospettive iniziali si aspettano come riempimento positivo non tanto il possibile accoglimento della richiesta dell’esaminando (ossia il suo «riconoscimento»), ma si attendono invece come riempimento l’esatto contrario. Il loro scopo primario è infatti esattamente quello che governa il fenomeno della «città divisa», e cioè è la difesa ostinata e fanatica della purezza per la purezza.

Essa assume qui infatti la forma molto simile ai processi biologici di gelosa, attentissima ed indiscriminata salvaguardia del self.

Obiettivo primario del giudizio (ed anzi autentico eros del giudicante) è quindi solo e soltanto l’infallibile riconoscimento («smascheramento») dell’oggettivo esterno, ed il suo conseguente irrevocabile quanto fortunato rigetto. Proprio per questo, allora, il giudizio si concentra esclusivamente sulle qualità oggettive previste dal codice copionale, ed affatto invece su quelle effettivamente presenti nell’esaminando.

Se infatti si tenessero presenti davvero queste ultime, sarebbe grandissimo il rischio di dover ammettere l’ingresso effettivo nel sistema di colui che però, in forza dell’oggettività puramente copionale, resterebbe comunque sempre solo un esterno.

Del resto ciò avrebbe di per sé conseguenze talmente devastanti per il sistema, che di fatto esse sono ben superiori alle conseguenze dello stesso superamento dell’esame.

L’ingresso di un esterno nel sistema provocherebbe infatti, come abbiamo già visto, il devastante snaturamento di esso dal suo interno stesso. Esattamente questo deve pertanto venire evitato con ogni possibile cura.

E pertanto al superamento puramente teatrale dell’esame deve sempre seguire l’atto davvero decisivo di sbarramento del passo.

Ebbene, ciò che in tal modo viene allo scoperto è pertanto una sorta di fondamentale dinamica tautologica, della quale giudicante e giudizio sono fin troppo bene edotti. Infatti è per definizione non esterno solo colui che appartiene già in modo evidente alla comunità dei noti, e che quindi non porta appena un nome, ma invece un autentico e pieno «nome-e-cognome».

In tal modo egli insomma dimostra inoppugnabilmente di appartenere ad una gens effettiva e connatale, e non invece ad una casuale genia qualsiasi. In quest’ultima, infatti, il cognome, non recando con sé alcuna significativa memoria locale, segue al nome appena come un inutile orpello (secondo il canone copionale). Un orpello che pertanto può e deve venire tranquillamente ignorato.

Come già detto, il sistema funziona allora con la semplicità brutale degli apparati biologici di riconoscimento del non-self.

Se esso conserva nei suoi dati la memoria del contatto con un determinato antigene di superficie, la struttura aliena, che esprime in superficie tale antigene, sarà considerata self. Se invece di essa non è stata serbata alcuna memoria, il giudizio inappellabile sarà di non-self. È proprio questa biologicità – e pertanto è proprio quest’ultima a configurare l’elementarietà più autentica ed essenziale dei criteri di giudizio – che rende pertanto il sistema qualcosa che di fatto è assolutamente impenetrabile.

Del resto, se non lo fosse, cesserebbe di essere per davvero ciò che è. E questo significa allora, in termini estremamente pratici, che quella Napoli che è davvero Napoli prevede di fatto una sola possibile forma di inclusione, e cioè quella per nascita.

Naturalmente eccezione a quest’ultima è considerata solo il poter disporre di davvero eccezionali titoli accessori di inclusione (fortuna finanziaria, collocazione nella gerarchia sociale, potere, titolo accademico o nobiliare).

Insomma, se a Napoli è indispensabile avere un «nome-e-cognome», e non invece un semplice nome, è pur vero che, dal suo punto di vista, vi sono cognomi e cognomi. Pertanto quelli di cui non c’è effettiva memoria (storica o attuale, in ragione della forza impressiva dei relativi titoli), di fatto è come se non esistessero. In questo caso si verrà allora ridotti all’indegna condizione di avere appena un nome, un nome senza alcuna vera storia.

Con tutto ciò credo che siano stati individuati gli aspetti più primari della fenomenologia del «riconoscimento».

Tuttavia è possibile riconoscere anche delle ulteriori e più secondarie dimensioni del relativo atto. E ciò avviene per la precisione di una serie di atti che ricalcano molto bene quanto abbiamo detto a proposito del giudizio di valore collocabile lungo la gerarchia qualitativa discendente.

Ecco che i livelli più alti di esplicazione dell’atto implicano tutte le forme connesse con la pienezza del godimento della condizione propria di quelli che si sono «tra-loro-già-riconosciuti». E come ho detto, questa è una condizione che trascende per definizione l’intera serie degli eventi.

Qui infatti nemmeno sussiste l’atto del «riconoscimento», così come non sussiste né giudizio né esame.

In questa sede, insomma, nemmeno vi è traccia del potenziale esaminando.

Ed è proprio in tale contesto che si manifesta allora nella sua pienezza e purezza quel costume ed atto che può essere ben definito come il «conoscere-gente».

Esso è davvero una delle più grandi passioni dei Napoletani, e quindi rappresenta in primo luogo l’anima stessa dei loro rapporti, ma rappresenta la stessa pienezza della Napoletanità in maniera inconfondibile. Tutti conoscono tutti, e tutti si vantano enormemente di conoscere tutti.

Ecco allora che a Napoli l’uomo solitario non è nemmeno lontanamente immaginabile come categoria antropologica.

Discendendo poi da qui a livelli progressivamente inferiori dell’atto – e trovandosi così sul terreno sul quale il giudizio avverrà effettivamente (in forme più o meno intense a seconda dei casi) – l’atto del «conoscere-gente» sarà giocoforza più indiretto, ossia via via meno intenso.

E ciò fino al suo configurarsi come mera emulazione di quello che è un davvero pieno «conoscere-gente».

Qui, insomma, l’attore dell’atto (nella forma di esaminato) avrà cura di emulare molto alla lontana una serie di condizioni di essere tipiche dell’essere pienamente integrati nel sistema, che suggeriscono anche la pienezza stessa del «conoscere-gente» – ad esempio possedere una barca, saper andare a vela, essere appassionato del mare, avere fatto o fare viaggi esotici, conoscere il jazz, essere un gourmet, conoscere vini, avere un palco al San Carlo, essere per davvero un avvochëto, o uno stimato provessore, etc.

E naturalmente su questa scala discendente vi saranno anche tutte le possibili forme (sempre più deboli) di esibizione della serie di stati di essere, i quali, così come rendono possibile superare l’esame, suggeriscono anche (più o meno intensamente) il godimento effettivo della condizione propria del «conoscere-gente».

Infine si giunge per questa via a quella che è l’essenza stessa, tanto elementare quanto però più intima ed ultima, della dignità che è connessa con il «conoscere-gente».

Ed ancora una volta ci troviamo qui davanti ad una condizione estremamente elementare, nella sua rudimentarietà basica, che però il sistema si dimostra sempre e per definizione ed incondizionatamente disposto a gradire ed ammettere. E ciò accade semplicemente perché, in quanto concentrata essenza (e quindi di fatto minimo comun denominatore di stati di essere), tale condizione ha la capacità di essere pienamente riassorbita nell’identità negativa.

Parlo insomma di uno stato di essere paragonabile a quello più ultimo che abbiamo visto parlando della gradazione discendente del giudizio di valore (quella dell’uomo semplicemente alto, magro e simpatico). Per la precisione si tratta proprio nell’irresistibile simpatia che a Napoli emana la canaglia nel senso della sapiente scaltrezza, ossia colui che è in possesso della virtù che viene volgarmente definita come “cazzimma”.

Virtù eminentemente aggressiva, che quindi in fondo viene anche temuta, ma che in definitiva soprattutto viene ammirata. Ebbene chi gode di tale virtù sarà anche colui che è in grado di esibire la più illimitata sapienza nell’arte dello scherno, ossia il cosiddetto “sfottò”.

Arte che è solo apparentemente bonaria, simpatica e disinteressata, ma in verità è abilità diabolica in un sotterfugio, che dribbla regole e doveri. Ed infine si manifesta anche come molto ammirata (specie dalle donne) capacità di decisionalità virile, sbrigativa ed aggressiva.

A tutto ciò non vi sarebbe in fondo nemmeno bisogno di aggiungere che la serie di abilità qui presentate costituiscono, nella loro gradazione, anche quelle che sono in grado di sorreggere molto saldamente il così fondamentale atto di segregazione che genera poi a Napoli una città “inclusa” ed una città “esclusa”. Tale atto appare essere non a caso esattamente sovrapponibile nella sua natura e nei suoi scopi, a quello di «riconoscimento».

Infine, in estrema conclusione, è utile fare un cenno a quello che definirei come il fenomeno della «fissità copionale», e precisamente nella sua forma specifica della vera e propria maschera che in tutte queste situazioni viene indossata.

Si tratta di un atto che pone immediatamente l’attore nella posizione di chi appare essere in grado di esibire una tra le più apprezzate virtù a Napoli, e cioè quella che corrisponde all’essere privi di qualunque spontaneità nell’agire.

Il che poi comporta anche l’esibizione dell’abilità di tenere lontani da sé stesso sentimenti a qualunque titolo autentici – del tutto benvenuti sono invece quelli teatrali, ossia quelli puramente simulati. Si tratta insomma della sottile arte (tutta partenopea) della dissimulazione.

Arte che rende capaci di recitare parti che non collimano affatto con ciò che intanto davvero si sa, si pensa, si crede e sente. Arte che pone però in quella posizione di forza, che permette di superare d’impeto qualunque resistenza esercitata da chi intanto resti al di sotto del perfetto esercizio di quest’arte stessa.

Si tratta insomma della vera e propria corazza che in Napoletano indossa praticamente ogni giorno nel prepararsi a quella quotidiana battaglia, nella quale l’unica gloria ammissibile sta nell’annientamento totale dell’avversario.

Sta di fatto però che, proprio in forza dell’esibizione di tale infamia, il processo dell’inclusione giunge più felicemente al proprio naturale esito.

Non vi è infatti nulla che più di questo riesca a rendere possibile la felice ammissione a quella comunionalità che a Napoli si incentra di fatto sulla tacita quanto scaltra condivisione esoterica di valori totalmente negativi, e che non a caso sono universalmente venerati.

Ebbene il fulcro di tale disposizione sta esattamente in quella maschera che La Capria stesso ha visto come essenza stessa della napoletanità.

A tale proposito egli richiama in particolare il concetto di “intenzione di attività” di Binswanger, e che entro il manierismo sostituisce totalmente la naturalità di un processo (la classicità) ‒ :

«Ebbene anche il napoletano ha trasferito la sua natura originale nell’intenzione di attività da quando ‘fa il napoletano’, e lo ‘fa’ anche perché la ‘napoletanità’ gli ha fornito un modello da imitare, e chi imita non si esprime mai naturalmente. Dove qualcosa cresce esistono radici, quel che non cresce non mette radici in nessun luogo, ed avvizzisce. Nell’atmosfera fissa dell’intenzione perciò non è possibile espansione o fioritura. Quel che non cresce e si espande ‘da sé’, perde anche la grazia naturale dell’esistenza. Infatti là dove l’esistenza si stacca dal suo fondamento, e perciò manca le proprie possibilità più autentiche, là essa fallisce».5

Si tratta insomma di una diligenza ossessiva dell’imitazione che, come dice ancora La Capria, è «…spinta fino all’eccesso un modello precostituito».

Ma sta di fatto che è proprio questo ciò che fonda quanto è definibile, secondo lo scrittore, come la civiltà napoletana, ovvero qualcosa che, identificando, intanto del tutto inesorabilmente esclude. L’impositività di questa determinazione è talmente forte che gli accenti critici cui La Capria fa ricorso per drammatizzarla, fanno addirittura sospettare che egli stesso ne sua involontaria vittima: ‒ «...basta uscire appena fuori dalla cinta della città in uno qualsiasi dei suoi sobborghi, e ritrovare quell’ispido selvaticume del contado, immediatamente percepibile nei toni gutturali di un dialetto privo di ogni musicale accento...».

Ed ecco a voi insomma il cafone, e peraltro presentato e perfino additato da un Napoletano ben critico verso quella mitologia che è la radice stessa dell'espressione qui impiegata!

Tutto ciò ci riporta poi inevitabilmente al peso che l’antico persistente ha nella determinazione alla segregazione; la quale fornisce poi l’unica identità che si conosca e si ammetta, con tutte le paradossali conseguenze che ciò comporta: ‒ «Preferiscono estinguersi come una tribù indiana, ripetendo gli stessi gesti e gli stessi versi, piuttosto che cambiare.

E non hanno ancora capito, tanto sono vittime di questo pregiudizio, che se qualcuno ha distrutto la loro identità di una volta, sono stati essi stessi...».6

Ebbene mi sembra che queste parole si prestino davvero perfettamente a concludere la trattazione fatta in questo articolo ed anche in tutta la serie che l’ha preceduto.

Queste parole colgono infatti la dimensione della «questione Napoli» davvero nella forma specifica di effettivo «problema», ossia come un’estrema drammaticità.

Tale drammaticità consiste pertanto tutta nel fatto che, proprio laddove si riesce per davvero a cogliere l’essenza della sostanza napoletana, si è poi costretti ad ammettere che in qualche modo bisogna deporre a tale cospetto qualunque possibile speranza.

Questa identità profonda è infatti costituita in modo tale che, proprio nel momento in cui essa viene più spietatamente e irrevocabilmente illuminata nella sua bassezza, trova comunque in sé stessa le risorse per sfuggire al giudizio, e ripresentarsi così davanti al mondo (ma ciò che è peggio perfino davanti a sé stessa) in tutta la sua impositiva arroganza.

Tuttavia non intendo comunque arrendermi a questa pur così cogente evidenza. E pertanto nel prossimo articolo (ultimissimo della serie) – sulla base di tutto quanto ho messo in luce finora –tenterò di esplorare le ragioni per non deporre nemmeno in questo caso le speranze che pur dobbiamo nutrire nella rinascita un bel giorno di questa così amata terra che ci diede i natali.

 

Note

1 Giambattista Vico, La Scienza Nuova, Rizzoli, Milano 1977, I, IV p. 238-248.

2 Raffaele La Capria, Ultimi viaggi nell’Italia perduta, Avagliano, Cava de Tirreni 1999, p. 109.

3 Hannah Arendt, Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino, I p. 27-40.

4 LMA Viola, Essere Italiani, Victrix, Forlì 2015, II p. 35-49.

5 La Capria, L’armonia perduta, in: Silvio Perrella (a cura di), Raffaele La Capria. Opere, Mondadori, Milano 2003, p. 660-661.

6 La Capria, Ultimi viaggi…cit., p. 110.

 

 

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