Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Le strutture dell’Identità napoletana. L’antico e la politica

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Ma esattamente di quale politica noi dobbiamo e possiamo parlare qui?

Bisogna chiederselo, ma io non vorrei esprimermi su questo troppo esplicitamente. E ciò perché rischierei di assumere io stesso una posizione ideologica (e quindi per partito preso), esponendomi poi fatalmente ad attacchi anch’essi unicamente ideologici, e quindi condotti più per partito preso che non invece in merito ai veri fatti (ossia alla sostanza di Napoli).

Dirò pertanto solo che è colpevole per definizione (in quanto si basa su una lettura insufficiente della sostanza di Napoli) qualunque presa di posizione politica – quale proposta di soluzione alla «questione Napoli», e quindi anche proposta di riforma – che trascuri il fatto davvero più fondamentale della realtà partenopea.

Si tratta insomma del fatto che, per quanto quella che chiamiamo «sostanza» di Napoli venga alimentata passivamente dalla rispettiva Identità profonda, ciò avviene in realtà per mezzo di un’azione, e precisamente un’azione volontaria.

Questa è l’azione portata avanti volontariamente da quel Gran Lazzaro, che, come ho già detto, è da considerare l’autentico organo effettore dell’Essenza o Identità partenopea. E tale azione persegue quindi uno scopo ben preciso.

Ebbene tale scopo consiste in particolare nella violazione espressa e sistematica di qualunque forma di legge o regola. Ma peraltro ciò avviene del tutto per partito preso, e cioè indipendentemente da qualunque circostanza cogente o anche solo condizionante, e quindi del tutto indipendentemente da qualunque effettiva ragione. Tale genere di azione volontaria obbedisce infatti alla trasgressione dell’illegalità come il più sommo dei valori.

 

E questo, esattamente questo, è poi il credo instillato, nei suoi Figli e Adepti, da parte dello stesso Oscuro Signore.

Perché? Ma è molto semplice: – perché tale comportamento è esattamente quello che reca più infallibilmente alla distruzione. E distruzione di cosa? Anche qui la risposta è molto semplice: – distruzione della Cultura a favore della Natura.1

Ma ovviamente si tratta non della Natura in quello che potrebbe anche ben essere il suo valore – per intenderci quella in cui nome ha a volte parlato Leopardi contro la Civiltà (e cioè quella che permette l’incanto e l’immaginazione poetica) –, ma si tratta invece della Natura bruta, ossia quella caotica e distruttiva.2

Questa è infatti l’essenza stessa dell’Identità dell’Oscuro Signore – sotto il pesante giogo del cui incanto stanno dunque evidentemente i suoi figli, i Figli del Vulcano. Ed è evidente anche che ciò in cui essi trovano la loro somma gioia ed il loro sommo onore, è invece la loro rovina stessa.

Quella che sembra pertanto una semplice istigazione a delinquere – e con la quale pertanto lo spirito libertario potrebbe essere portata a simpatizzare del tutto naturalmente – non è invece altro che una trappola architettata per indurre all’auto-distruzione.

Dunque a cosa può potrebbe e dovrebbe primariamente puntare una riforma di Napoli?

Ebbene, essa potrebbe e dovrebbe puntare solo e soltanto alla sua sostanza più intima, e precisamente alla liberazione di essa dal terribile incanto di cui è da sempre vittima.

Napoli insomma deve essere soprattutto liberata dalla schiavitù che indissolubilmente la lega al suo onnipotente quanto perverso Signore.

Il che implica inevitabilmente che qualunque iniziativa politica vada invece a qualunque titolo in senso opposto – ossia nel senso della promozione incondizionata della libertà – è destinata non solo a fallire, ma anche ad aggravare ulteriormente le cose.

Ed infine è destinata anche a coprirsi di ridicolo. Questo perché essa avrà scambiato per passiva e tragica soggezione alle circostanze, ciò che invece è non solo voluto espressamente ma viene anche espressamente goduto – e cioè costituisce quel fondamentale comportamento negativo che si traduce costantemente e scientemente in una irresistibilmente desiderata violazione della legalità.

Qui insomma si scambia ciò che è profondamente voluto e scelto, per ciò che invece ci si immagina che presso i Napoletani sarebbe stato dovuto alle continue esperienze storiche e sociologiche di frustrazione della propria autentica dignità. Ed inoltre si manca di vedere – venendo così meno alle stesse proprie più autentiche istanze di forza politica che vuole in primo luogo l’emancipazione degli svantaggiati – che tutta questa volontà negativa promuove di fatto una spaventosa schiavitù.

E che inoltre quest’ultima è espressione di una fondamentale stupidità, che non solo è auto-distruttiva, ma inoltre (quale ignoranza di fatto) è qualcosa che sbarra per definizione la strada (ed ostinatamente) a qualunque prospettiva positiva.

Ebbene, solo in questo si può presumere che la proposta conservatrice di riforma di Napoli abbia una certa superiorità sull’altra.

Essa non commette infatti il così fatale errore che il libertarismo sempre invece commette, e cioè quello di fomentare quello spirito di rivolta che è poi la principale causa della costante ed ineluttabile rovina di Napoli.

Tuttavia comunque c’è da prendere atto del fatto che la stessa visione conservatrice si rende di fatto complice delle tendenze del Gran Lazzaro. E ciò avviene allorquando essa trascura con determinazione ancora maggiore la dovuta presa in considerazione della così profonda determinazione ad essere che è propria dell’identità partenopea.

Esattamente ciò avviene in quel così insensato neo-borbonismo (giocoforza alleato naturale del pro-napoletanismo per partito preso), il quale auspica la riforma di Napoli unicamente per la via del ritorno al Regno delle due Sicilie.

Laddove poi vi è da osservare che proprio questa costellazione civile, politica e culturale, è da considerare come il più pieno possibile Regno di fatto dell’Oscuro Signore. Non vi è dunque progetto di riforma che sia più fallimentare e controproducente (ma soprattutto menzognero) di questo!

Ma qui va inoltre fatto rilevare che nemmeno la visione aristocratica tout court è davvero credibile quale progetto di riforma.

Anch’essa infatti ignora la profondità delle cose in un modo molto simile a quello appena descritto. In particolare essa cioè trascura il fatto che l’aristocrazia napoletana nella sua storicità, ossia nella sua struttura di fatto, è impregnata dell’identità negativa ancor più di quanto lo sia il sottoproletariato.

Lo abbiamo visto con chiarezza esaminando il tipo antropo-sociologico del «gran signore»; il quale si è rivelato essere ben più Gran Lazzarodello stesso lazzaro qualunque.

 Se dunque il lazzaro si fa protagonista di una sorta di insensato conservatorismo anarchico, ancor più se ne fa protagonista colui che – per le conoscenze, i mezzi e i poteri che sono a sua disposizione –, è da considerare il Gran Lazzaroper eccellenza.

Del resto chi se non lui è protagonista di primo piano del neo-borbonismo?

E chi se non lui rappresenta la punta dell’iceberg intellettuale ed estetica del pro-napoletanismo per partito preso? E chi se non lui propone con maggiore convinzione il mito auto-referenziale di Napoli, ostinandosi nel barricarsi con spocchioso sdegno in quel così ridicolo ombelico ed occhio di pernice (del mondo e di Napoli stessa), che è la Napoli che è più Napoli? E chi se non lui, sul piano storico e sociologico, si è fatto e si fa ancora oggi protagonista dell’ostinata resistenza a qualunque forma di cambiamento?

Naturalmente stiamo però parlando qui di un’aristocrazia che per prima soffre le profonde e coartanti interpolazioni di quell’ideologia (non meno mitica) del «gran signore» che abbiamo prima esaminato. In essa pesa dunque davvero troppo il fenomeno del borghese imitante il nobile, perché il risultato di tale operazione non sia di fatto qualcosa di molto diverso dalla vera nobiltà.

Tenendo conto di questo, è pertanto molto probabile che noi non stiamo affatto parlando della vera aristocrazia storico-sociologica di Napoli.

Ed allora viene il sospetto che l’aristocrazia napoletana sia già da molto tempo appena un fantasma storico, e quindi affatto più un protagonista della storia e della vita sociale.

Dunque viene anche da pensare che in questo fantasma si nasconda uno spirito davvero nobile che forse non è mai davvero morto, e che non ha pertanto nulla a che fare con l’aristocratismo (solo formale, retorico e teatrale) che è all’opera in fenomeni come il neo-borbonismo.

Lo spirito di questa ipotetica aristocrazia pura infatti non a caso è «liberale» – e ciò nel senso di un atteggiamento molto naturalmente understated rispetto a quella che viene sentita come una solo tronfia e volgare ostentazione del proprio stato.

Viene allora proprio da pensare che probabilmente l’ultimo atto di esistenza di questo genere di aristocrazia napoletana sia stato proprio il così rovinoso e tragico collasso della Rivoluzione del 1799.

E questo è del resto esattamente quanto fu colto da La Capria,3 allorquando sostenne che da quel momento in poi la paura attanagliò totalmente le classi dirigenti napoletane paralizzandone ogni possibile iniziativa.

Ma non fu propriamente la paura per le autorità regali borboniche, quanto invece fu la paura per l’immane Forza lazzara per mezzo della quale esse si erano imposte sulla prospettiva del cambiamento.

Ed allora torniamo nuovamente al così cruciale fenomeno del costante trionfare a Napoli della Natura sulla Cultura.

Ebbene l’essere disposti a cogliere questo fenomeno implica inevitabilmente il cogliere anche buona parte della materia che finora ho cercato di esporre. Ciò che viene posto allo scoperto è infatti il desolante fenomeno dell’assimilabilità di Napoli (così come essa vuole costantemente essere) ad un vero e proprio organismo canceroso.

Un organismo la cui essenza è esattamente il Caos come principio di un disordine che pretende espressamente di essere ordine.

Così infatti viene descritta Napoli da Antonella Cilento:  ‒ «Si può allora narrare con ordine questo caos corporeo, il rumore incrociato degli organi, le patologie che alimentano nuovi sistemi di vita, come fanno le cellule cancerogene che creano un nuovo organismo prima di averla vinta sul corpo originario? Napoli è una città in cui si abbatte poco, quasi niente, e tutto cresce sulle ricrescite precedenti. È immortale [...] Una forma irriconoscibile, un mostro, un essere mitologico. E si può vivere [...] dentro un essere mitologico sopravvissuto alla morte dei suoi simili? I corpi antichi delle città italiane sono spesso corpi mummificati [...]. Napoli invece cresce su se stessa, stretta dalle colline. Dilaga verso i bordi del golfo allungando mani rapaci fino alla penisola sorrentina, dentro l’agro aversano, oltre la zona vesuviana e verso i Campi Flegrei...».4

Molto, davvero moltissimo, è stato colto da questa così profonda analisi meditativa sulla sostanza metafisica di Napoli. Ed è stato anche colto molto della proterva volontà di Napoli ad essere ed agire in maniera espressamente negativa. Ciò che però non viene qui colto è l’effettiva personificazione di tale volontà negativa.

Personificazione che ha qui sì una dimensione storico-sociologica, e quindi ha un volto effettivo ed anche un nome. Tanto che i colpevoli possono essere riconosciuti e possono perfino venire indicati a dito. E questo è esattamente quanto io ho cercato di fare descrivendo i tipi.

Ora però non vi è dubbio che l’analisi della Cilento si ponga piuttosto coerentemente nella scia di quel positivo spirito aristocratico-riformatore che ho messo in luce prima. E pertanto le colpe dell’una sono da considerare le colpe anche dell’altro.

Dunque, non è che manchino la lucidità, la capacità e voglia di penetrazione del mistero, e nemmeno l’amore disinteressato e l’onestà appassionata ed ottimamente intenzionata dell’indagine.

Manca pertanto solo la volontà di andare per davvero fino in fondo a questo percorso. E questo è per la verità il lavoro sporchissimo che io sto cercando di fare con questi articoli su Napoli.

Il fatto è che però Napoli non può essere né compresa né tanto meno riformata se non si è disposti ad avere questo coraggio della verità. Una verità di certo molto scomoda.

Il mio lavoro però, come ho già detto più volte, si basa su evidenze da me colte molto da vicino; e cioè evidenze antropologico-culturali in primo luogo, ma in secondo luogo anche sociologiche, e quindi alla fine politiche.

Soffermiamoci dunque su questo aspetto della trattazione politica della «questione Napoli». Proprio qui del resto la politica è costretta a fare a meno delle sempre solo occultanti e generalizzanti astrazioni ideologiche, dovendo invece prendere atto dei soli fatti nudi e crudi.

Ebbene, io ho effettivamente avuto modo di osservare molto da vicino il Gran Lazzaro nel suo essere ed agire. Ed ho avuto modo di farlo non solo giorno e notte per moltissimi anni, ma anche essendo direttamente coinvolto nel fenomeno.

Proprio io ero infatti colui al quale il Gran Lazzaro si rivolgeva, come suo interlocutore primario, e precisamente su uno dei piani più politici possibili del suo agire; e cioè quello sul quale possono trovare effettiva soddisfazione quelle che da sempre sono state le sue più sentite aspettative.

Si tratta insomma della soddisfazione del profondo desiderio di qualcosa di simile al «festa e farina», ma senza «forca», e cioè la soddisfazione del desiderio di ricevere incondizionatamente senza però pagarne il caro prezzo.

E questo deve essere stato l’unico motivo per il quale il Gran Lazzaro è stato disposto ad accordare la sua preferenza ad un regime repubblicano e democratico, in luogo invece di quel regima paternalistico-monarchico verso il quale di fatto vanno le sue più istintive preferenze. In altre parole dev’essere stato proprio solo per questo che i lazzari fiancheggiarono (finché il vento della storia lo permetté) la così generosa e nobile riforma giacobina di Napoli.

Ebbene, proprio di fronte a questo lazzaro io mi sono trovato. Io, come medico di famiglia (e più precisamente pediatra), ero infatti per lui l’«erogatore» per definizione e per dovere istituzionale, ossia quel rubinetto erogatore di latte e miele la cui apertura e chiusura è stata affidata dallo stato sociale nelle mani del cosiddetto «utente». Espressione con la quale però si dà il caso che debba essere identificato un soggetto radicalmente diverso dal Gran Lazzaro.

Ebbene, tutto questo sistema ha ovviamente le sue obiettive giustificazioni ed anche il suo grande obiettivo valore. Non a Napoli però!

Abbiamo non a caso già visto come il deciso intervento di un tipo molto simile al Gran Lazzaro in veste di «gran signore» (lo “stimato provessore”, o anche “medico dei poverelli”), faccia a Napoli sì che, proprio nel contesto di tale sistema, la bilancia penda costantemente dal lato dell’abuso, dell’insensatezza e dell’illegalità (invece che dal lato del buon uso, della razionalità e della legalità).

In altre parole, proprio in forza di questo così altro Patronato (che si traduce poi concretamente nell’avallo di fatto del maluso delle risorse sanitarie ad opera di chi dovrebbe invece fare l’esatto contrario, ossia istituzioni amministrative, giuridiche, culturali ed accademiche), il Gran Lazzaro può totalmente fraintendere – nel farne intanto abuso e scempio (e con il totale beneplacito delle «autorità») – quello che dovrebbe essere invece un uso morigerato, razionale, responsabile e costruttivo dei beni messi a disposizione da un sistema sanitario.

Del resto il fenomeno non è affatto diverso da quello che ha portato al fallimento totale delle iniziative storiche del cosiddetto «Meridionalismo», e che recentemente si è manifestato nella tragedia rappresentata dal fluire dei fondi stanziati per il terremoto nelle casse della Camorra.

Se però si trattasse solo di questo, sarebbe ancora troppo poco. Non è invece affatto così.

Ed allora – nel dover costatare (potendo fare ben poco) il fatto che il Gran Lazzaro vuole espressamente che i suoi figli vengano illimitatamente iper-nutriti non solo di cibi (e anche tra i peggiori) ma pure di farmaci (pessimamente scelti) ed infine di pratiche diagnostiche del tutto ingiustificate –, il medico di fatto assiste impotente al definitivo declino (per corruzione) di una razza.

Ecco che allora una razza che già era stata funestata da millenni di denutrizione e malattie devastanti, non appena ha avuto la possibilità (grazie al Progresso) di riscattarsi da tutto questo, ha invece impiegato una cura e una determinazione straordinarie (e senz’altro degne di miglior causa) nel perseguire il risultato diametralmente opposto.

E così essa si è vota anima e corpo alla degenerazione auto-distruttiva di sé stessa, e cioè con un’efficienza che prima le era negata dalla penuria più totale di mezzi; e ciò soprattutto in forza della pregiudiziale e sistematica deprivazione di diritti.

In tal modo allora il Gran Lazzaro – non solo non più impedito da nessuno, ma anche addirittura incoraggiato e sempre meglio equipaggiato (in mezzi e diritti illimitatamente messi a disposizione) – si è dedicato ogni giorno, con determinazione ed efficacia straordinarie, all’ulteriore distruzione di fatto dei suoi stessi figli.

Ma, per tutto quello che sappiamo già, si tratta in effetti ben più primariamente dell’opera per mezzo della quale l’Oscuro Signore compromette sistematicamente e con gusto la sanità, la dignità, la bontà, la bellezza e l’onore dell’intera razza che da Lui stesso discende.

Ecco allora che uno come il medico-pediatra può e deve assistere impotente al desolante e scoraggiante spettacolo del venir su di bambini perennemente gonfi di cibo e di farmaci, privati della vita all’aria aperta, totalmente trascurati nel disinteresse tollerante e permissivo (ma a sua volta condito di punizioni e percosse totalmente senza senso e costrutto), blanditi e confermati nelle loro peggiori tendenze, scherniti come piccoli idioti, pasciuti in un’ansietà di fondo unita ad una prepotenza straordinaria, ed entrambe mai davvero contrastate.

Ebbene, come, nel contesto di un simile sviluppo degenerativo, si poteva non arrivare all’insorgere del vero e proprio mostro odierno – il peggiore frutto che la nostra Cultura poteva far nascere –, e cioè quel bullo che poi è quasi una sola cosa con quel feroce e ferino delinquente il quale ormai è protagonista assoluto della sempre più raccapricciante cronaca nera?

E si badi bene che la mala pianta del mostro non è sbocciata solo nelle atroci periferie della città, ma invece anche nei quartieri più ad alto livello. Fenomeno che ancora una volta mostra la sostanziale trasversalità della negatività propria di Napoli.

Ma intanto chi gode i frutti di tutto questo è il Gran Lazzaro stesso nella veste di tradizionale mendicante. È colui che un tempo elemosinava appena le briciole della mensa del «gran signore»,  ma ora è di fatto autorizzato ad ottenere la da sempre da lui desiderata soddisfazione illimitata.

Inevitabile è dunque – in forza di quanto ho fatto notare all’inizio di questo articolo –, che, con questa così incondizionata ed insensata donazione, la protervia non diminuisca ma invece cresca incalcolabilmente.

Ed infatti è esattamente questo ciò che il medico osserva. Il cosiddetto «utente del Servizio Sanitario Nazionale», infatti, è mediamente per definizione un uomo pronto senza la minima esitazione al sotterfugio, alla falsità, alla violenza, ed inoltre soprattutto all’ingiuria velenosa con la quale egli si ribella alla correzione delle sue assolutamente improprie aspettative e pretese.

La sua non è dunque altro che l’abiezione tipica che è sempre stata dell’antico mendicante, l’insidiosa e serpentina doppiezza con la quale costui da sempre ha ospitato nel suo petto insieme l’adulazione e la violenza, la viltà con la quale costui da sempre si è sottomesso dopo aver cercato invano di sopraffare, il cinismo con il quale costui da sempre ha usato le arti del raggiro occultandole dietro l’indignazione o l’adulazione di maniera, o perfino dietro solo apparenti ragioni. 

È inequivocabilmente il Gran Lazzaro questo. Quella che si manifesta è dunque l’untuosa viltà con la quale egli sempre si è piegato di fronte all’evidenza delle insegne del potere (qualunque esse fossero). Ma ciò naturalmente solo per affilare il coltello dietro le quinte dell’apparenza per poi potervi mettere mano non appena se ne presentasse l’occasione.

Ma l’aspetto più tragico ed insieme patetico di tutto ciò è che, per il dominio incontrastato di tutti questi aspetti negativi, l’effetto finale è l’esatto contrario di ciò che intanto si vorrebbe ottenere – ossia delle migliori delle intenzioni (appunto filantropiche e liberali) che sorreggono un sistema come questo.

Infatti il mancato contrasto della natura negativa intanto visibilmente in atto – qui operante per mezzo della già più volte messa in luce proterva, ostinata, cieca, stupida e autolesionistica ignoranza – fa sì che il Gran Lazzaro comprenda che chi egli vede solo come un limone da spremere (ed aperto nemico quando si rifiuta di sottostare a questo) è invece proprio chi vorrebbe aiutarlo di più. E precisamente però vorrebbe aiutarlo in primo luogo nel salvarlo da sé stesso.

Appare dunque con tutto ciò evidente in primo luogo quanto impositiva sia l’evidenza costituita dalla necessità di «pentirsi di essere napoletani», ed in secondo luogo poi anche quanto sia controproducente una prospettiva politica (qualunque essa sia) che chiuda gli occhi su queste pur estremamente lampanti evidenze.

Diviene dunque in tal modo estremamente chiaro che una prospettiva politica che davvero voglia riformare Napoli, non può che passare coraggiosamente per l’atto di interdizione di ciò che invece, una volta tollerato, rende di fatto complici del male.

Nulla, dunque, è più opportuno qui di una citazione di quel Nietzsche che comunque è riprovevole proprio a causa della franchezza amorale da lui usata di fronte a fenomeni come questi. Così infatti egli si è espresso nei confronti della complicità verso la fondamentale protervia della plebe: – «Se poi addirittura, sono gli ultimi e più bestia che uomo: allora la plebe sale di prezzo, e alla fine la virtù della plebe dice: ‘ecco, io sola sono la virtù».5

Mi sembra esattamente questa la trappola fatale ed esiziale nella quale cade invariabilmente un troppo, sempre troppo, ingenuo, filantropismo incondizionato. Esso infatti prescrive di servire esattamente ciò che non si dovrebbe servire per poter davvero perseguire il bene – ma il bene di tutti, e non invece di questa o quella classe sociale.

È evidente allora, a conclusione di questa disamina sulla politica, che quello che è certo è che un siffatto filantropismo non ha a Napoli alcuna reale chance di ottenere risultati.

Dunque è a questi estremi risultati si può e si deve giungere una volta che proprio si voglia porre la “questione Napoli” sul piano della politica.

È fin troppo evidente che ciò che sostengo è oltremodo scomodo. Ammettere ciò che a me sembra sia da ammettere, implica infatti necessariamente lo sporcarsi le mani in tutti i sensi.

Eppure io sono incline a credere che solo così si possa pensare di affrontare per davvero un problema che, per le determinanti abissalmente profonde che esso riconosce, non può realmente essere affrontato in nessun altro modo.

Ancora una volta vige insomma qui il motto marottiano «Coraggio guardiamo!».

E tuttavia, esso vige in un senso molto diverso da quello prospettato dallo scrittore.

 

 

 

Note

1 E questo del resto viene in parte testimoniato anche dallo stesso La Capria [Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in: Silvio Perrella (a cura di), Opere, Mondadori, Milano, 2003, p. 679-685].

2 Giacomo Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, in: Rolando Damiani, Giacomo Leopardi. Poesie e prose, Mondadori, Milano, 1996, p. 347-426.

3 Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in: Silvio Perrella, Raffaele La Capria... cit, p. 686-709.

4 Antonella Cilento, Napoli. Sul mare luccica, Laterza, Roma- Bari, 2006, 1, p. 13.

5 Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 2006, p. 285.

 

 

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