Una vittoria amara. La corrispondenza di due coniugi resistenti dell'Italia del 1943-1945

Categoria principale: Storia
Categoria: Storia Contemporanea
Creato Sabato, 09 Dicembre 2017 16:40
Ultima modifica il Sabato, 09 Dicembre 2017 16:40
Pubblicato Sabato, 09 Dicembre 2017 16:40
Scritto da Mario Avagliano
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Fu davvero amara la vittoria della guerra di Liberazione? Di certo non fu tutta rose e fiori, chewing-gum e caramelle, tricolori e bandiere a stelle e strisce.

Ce lo raccontano due italiani resistenti di allora, protagonisti del libro Una vittoria amara: il generale di brigata Giulio Cesare Tamassia, reduce della Grande Guerra, monarchico, anticomunista di ferro, tra i dirigenti del Fronte militare clandestino romano guidato da Giuseppe Montezemolo, e la moglie Bianca Mazzarotto, originaria di Rovigo, scrittrice d’impronta dannunziana ma più liberal del marito, collaboratrice del movimento partigiano in Veneto.

Due esponenti di quella Resistenza militare o moderata (spesso l’uno e l’altra) per troppo tempo cancellata dai libri di storia e avvolta dal silenzio e dall’oblio.

A leggere la corrispondenza di Giulio e Bianca e le loro confessioni intime, risulta evidente che nella primavera del 1945 per molti italiani la gioia della riacquistata libertà ebbe un certo retrogusto asprigno, dovuto agli strascichi dolorosi della campagna d’Italia e alle violenze della guerra civile, ma anche alle case distrutte dai bombardamenti, ai parenti e agli amici morti, e alla difficile transizione verso la democrazia di un Paese tutto da ricostruire e in quel momento ancora sotto il giudizio (e sotto lo schiaffo) degli Alleati.

Il libro segue, quasi sotto forma di cronaca, il tragico biennio che va dal luglio 1943 al maggio 1945. A scandire gli avvenimenti, è il sapiente intercalare nel carteggio tra i due coniugi e di altri brani tratti dai loro diari, amorevolmente raccolti e ordinati dal figlio Renato, terzo protagonista del racconto, anche se parlante solo per interposta persona, data la tenera età (era nato nel pieno della guerra, nel dicembre del 1940).

 

Dopo l’8 settembre, è l’ora delle scelte per chi è di carriera militare o è sotto le armi. Il cinquantaduenne Giulio, che si trova a Trieste, potrebbe, come milioni di italiani dell’epoca, entrare nella “zona grigia” dell’equidistanza, oppure aderire alla neonata Repubblica Sociale. Invece decide di partecipare alla guerra di liberazione. I motivi principali sono la fedeltà al re, l’amor di patria e il desiderio di preservare l’«indipendenza dell’Italia» dall’invasore tedesco.

Il 20 settembre parte in treno per Roma e si unisce al Fronte militare clandestino. Tamassia, come Montezemolo, ritiene che nella capitale l’attività più importante da svolgere sia quella di sottrarre uomini alla Repubblica Sociale e svolgere un’efficace azione di spionaggio e di intelligence al servizio del governo del Sud, oltre che predisporre un piano per un trapasso indolore al momento dell’arrivo degli Alleati.

«Quanto faccio – annota nel suo diario il 19 aprile 1944 – è assolutamente contrario alle inutili violenze e agli sciocchi delitti. Tende a ristabilire ordine disciplina possibilità di lavoro proficuo, restaurazione di valori morali. Chiedo e cerco l’indipendenza d’Italia e per essa la libertà più assoluta di scegliersi la via più conveniente per ritrovare la sua grandezza vera».

Le azioni armate, quindi, almeno nel perimetro della città sono considerate «inutili» perché rischiano di provocare «solo dolorose rappresaglie». Cosa che puntualmente avviene dopo via Rasella, con l’eccidio delle Fosse Ardeatine.

Particolare interessante: già nei giorni successivi, come annota Giulio, «C’è chi dice che il fatto è stato organizzato ad arte [dai comunisti] per toglier di mezzo vittime designate [in particolare gli esponenti di Bandiera Rossa e del Fronte militare clandestino] e per disturbare». Una falsa tesi che sarà ripresa più volte nel dopoguerra da estrema destra e estrema sinistra.

I tedeschi e la polizia fascista lo ricercano attivamente. La sua prudenza lo salva. Più di una volta sfugge per miracolo alla cattura e ai rastrellamenti.

La quarantacinquenne Bianca col piccolo “Renatino” ciondola tra Trento, Venezia e Scomigo, mai tranquilla, sempre rischiando la vita o la libertà, tra bombardamenti, colpi di mitraglia, attività di collaborazione alla Resistenza, corrispondenza con il marito.

Il ritratto dell’Italia in guerra che viene fuori dalle pagine di questo libro è terrificante. Venezia piena di barche, ma «tutte con la croce uncinata a coprire i segni di italianità!». Roma prigioniera, «piena di mendicanti che dicono: ho fame! con bambini in collo avvolti in poveri cenci», sotto l’incubo dei bombardamenti, tanto che «Molta gente durante la giornata si rifugia in Piazza san Pietro e vicino al Vaticano come a luoghi sicuri», ma comunque irridente: «Qualche bello spirito ha scritto a Porta Pia di notte: “Coraggio inglesi, i russi stanno arrivando a Porta Pia”».

Uno dei temi più interessanti del libro è il tormentato rapporto con i tedeschi e con gli Alleati. Giulio Tamassia, dal punto di vista militare, ammira «le capacità di resistenza e di manovra dei tedeschi, infinitamente superiori nel campo tattico e nella rapidità di decisione». Ma ne depreca i modi e la brutalità.

Quanto agli Alleati, il giudizio dei due coniugi è negativo. Nel mirino ci sono soprattutto i bombardamenti alle città: «Non sono gli italiani, ma i tedeschi che occorre battere».

Il 4 giugno 1944 Roma viene liberata ma la guerra li terrà lontani ancora a lungo. Fino a quando il 30 aprile 1945, Bianca, commossa ed eccitata, a Scomigo, potrà finalmente tirare fuori le bandiere ed esporle alle finestre: «Pare un sogno! Tutto è andato benissimo, nel migliore dei modi che mai si potesse sperare, e l’insurrezione partigiana e popolare è stata una cosa meravigliosa».

Quello stesso giorno Giulio annota nel suo diario: «Giustizia (o vendetta) è fatta: i capi del fascismo sono stati giudicati da cosiddetti tribunali del popolo e la folla sanguinaria e incosciente ha commesso atti di barbarie sui loro cadaveri. Doveva finire così».

 

Mario Avagliano