Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Garibaldi “El Libertador”, un’anima latina

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Domenica 23 luglio 1882, Montevideo, Uruguay. Un corteo di 20-25 mila cittadini sfila per le strade della capitale per porgere l’ultimo saluto a un morto che non c’è. Giuseppe “José” Garibaldi è scomparso nella sua Caprera, in Italia, il 2 giugno precedente. Ma nessuno ha dimenticato i sette anni dal 1841 al 1848 che ha dedicato all’Uruguay, contribuendo a salvarne l’indipendenza, a rischio della vita.

Alla notizia della sua morte, a Montevideo era stato proclamato un lutto nazionale di tre giorni, dopo che il Parlamento uruguaiano s’era mosso in precedenza per dare una pensione “al generale Garibaldi”, poiché s’era sparsa la voce che in Italia l’eroe dei due mondi se la passasse male.

Ma come si spiegano la selva di bandiere, uruguaiane e italiane, che accompagnava quel corteo funebre senza feretro, e i tanti fiori che la gente lanciava dai balconi? E il monumento a lui innalzato, di fronte al porto dal quale era sbarcato a Montevideo, eretto ai primi del Novecento con una sottoscrizione popolare? E l’avenida Giuseppe Garibaldi che attraversa tutta la capitale?

Per capire il rapporto d’amore tra Garibaldi e l’America latina, è utile raccontare la sua storia oltreoceano, come fa - con leggerezza narrativa e passione storica , un libro, Garibaldi “El Libertador”, opera del giornalista e saggista Federico Guiglia, classe 1959, italo-uruguaiano, nato a Montevideo da padre di Mantova e madre dell’Uruguay.

 

Garibaldi, costretto alla fine del 1835 all’esilio in Brasile, dopo la fallita insurrezione popolare in Piemonte, la latitanza e la successiva condanna da parte dei Savoia alla «pena di morte ignominiosa in contumacia in quanto nemico della Patria e dello Stato», tra il 1837 e il 1840 partecipa con la sua nave corsara alla rivolta del governo della Repubblica Riograndense (l’attuale Rio Grande do Sul) contro l’Impero del Brasile guidato da Pedro II.

Dal libro di Guiglia, apprendiamo che l’indomito rivoluzionario italiano in Brasile, quando nelle sue imprese catturava degli schiavi dei nemici, senza esitazione li liberava.

A Laguna, nel 1839, Garibaldi conosce e s’innamora della bella Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, passata alla storia con il vezzeggiativo di "Anita", all’epoca diciottenne, che poi lo seguirà in Italia, partecipando al Risorgimento.

Trasferitosi in Uruguay nel giugno del 1841, Garibaldi all’inizio per campare s’improvvisa commerciante di cuoio, poi trova lavoro in un collegio come insegnante di matematica, geografia e calligrafia. Ben presto però torna al primo amore: il mare.

Ed entra nella marina nazionale con il grado di colonnello, distinguendosi per il coraggio e l’intraprendenza e partecipando alla guerra civile (la cosiddetta Guerra Grande), che vede contrapposte la fazione degli unitarios di Fructuoso Rivera con le divise rosse (i “Colorados”), di tendenza liberale, e la fazione dei federales di Manuel Oribe con le divise bianche (i “Blancos”), appoggiati dal dittatore argentino, Juan Manuel de Rosas.

Il ruolo di Garibaldi è fondamentale. Difende Montevideo sotto assedio e il 6 febbraio 1846, guidando la Legione Italiana a Salto nella battaglia di San Antonio, salva l’indipendenza dell’allora conteso Uruguay dalle mire del dittatore de Rosas. Per inciso, la bandiera della Legione italiana di Montevideo è oggi conservata al Museo centrale del Risorgimento italiano a Roma.

Quando le autorità uruguaiane gli offrono campi e beni in segno di ringraziamento, lui li restituisce al mittente: “Mi basta l’onore di condividere il pane e i pericoli coi figli di questa terra”. E pur nominato già nel 1842 comandante delle Forze Navali di Montevideo e nel 1848 per qualche mese membro dell’organo legislativo nazionale (come ricostruito da Guiglia sulla base di fonti documentali inedite), continua ad abitare con Anita e i figli Menotti, Rosita, Teresita e Ricciotti in una casa modesta e senza lumi, nella parte più antica della capitale, la Ciudad Vieja, oggi diventata un museo.

È a Montevideo che, ricorda Guiglia nel suo libro, Garibaldi s’inventa la camicia rossa della futura spedizione dei Mille. Ed è qui che il marinaio che indossa il poncho e porta la barba lunga bionda sposa la sua Anita, fa le prove generali per le guerre d’indipendenza italiane e conquista sul campo l’appellativo di Eroe dei due Mondi. Fino a quando l’irresistibile richiamo della patria non lo conduce di nuovo in Italia, nel 1848. Ma questa è un’altra storia.

 

 

Mario Avagliano

 

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