Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Napoli, i tipi antropologici e le professioni. L’avvokäto.

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Come mi sono sforzato di spiegare nel precedente articolo, è molto lontana da me l’intenzione di parlar male tanto delle persone specifiche individuali quanto delle persone specifiche collettive, ossia delle categorie professionali che ora descriverò ed analizzerò nella forma del «tipo» (e dal punto di vista del discorso valutativo che sto conducendo).

Ancor meno è mia intenzione di offendere il possibile qualcuno che in tale contesto si potrebbe sentire chiamato personalmente in causa. Ho già spiegato che non è assolutamente questo che io sto facendo.

E tuttavia bisogna pur porsi di fronte alla sagoma negativa che tali impersonali persone configurano effettivamente entro la realtà partenopeo.

Ma qui parlo comunque di «negativo» nel senso di quell’oggettività negativa che è il rovescio stesso (evidenziabile proprio entro un discorso valutativo) di quell’apparenza fenomenica che intanto ha (truffaldinamente) l’espressa intenzione di presentarsi come assolutamente positiva. Ed è esattamente in questo senso che essa interpreta quel copione negativo, a sua volta determinato dall’Essenza, i cui prodotti meramente retorici raccolgono poi per definizione spontanei consensi; ossia senza che né il pensiero né il giudizio intervengano assolutamente ad opporre resistenza al relativo atto di assenso.

Soprattutto è il giudizio ciò che qui non interviene. Ma è ovvio che ciò sarebbe molto meno probabile se intanto vi fosse stato invece l’intervento del pensiero.

Parliamo insomma di quella certa cecità riflessa (in quanto basata sull’assenza di riflessione) che pone immediatamente – nel caso della tipologia professionale di cui qui parliamo, e cioè l’avvocato – un contesto di valore positivo (incondizionato e indifferenziato) che quindi poi di fatto non viene messo in discussione da nessuno.

 

Ed è ovvio che ciò non può non portare con sé anche un certo impersonamento di tale incondizionato valore da parte della tipologia collettiva che è in causa.

È insomma evidente che a Napoli l’avvocato pone sé stesso come tale con una certa pregiudiziale ed affatto riflessiva soddisfazione incondizionata di sé stesso. Soddisfazione incondizionata che poi inevitabilmente comporta il grande rischio della mancata auto-critica.

In parole povere sembrerebbe quindi che a Napoli, più che in qualunque altro luogo, l’avvocato si trovi particolarmente a suo agio nell’essere ciò che è e nel fare ciò che fa, senza però interrogarsi troppo se ciò è davvero giustificato o meno.

È naturale che tutto ciò (come ho già detto) riposa sulla tradizione retorica che è propria della nostra razza – essa configura infatti senz’altro una sorta di vero e proprio istinto alla prassi avvocatizia. Tuttavia non si tratta affatto solo di questo.

E ciò perché in tal modo noi isoliamo l’aspetto rigorosamente tecnico dall’aspetto culturale ed ancor più antropologico. Dimentichiamo cioè volutamente che la categoria della «retorica» rientra a Napoli pienamente nella categoria della spettacolarità enfatica e cioè nella «teatralità».

E del resto è presumibile che le cose siano state così anche nella polis greca. Tale categoria insomma – nel caso specifico dell’avvocato quale «tipo» riscuotente consenso incondizionato per il suo presunto valore –, si pone a Napoli molto più come pura spettacolarità (e quindi per definizione indipendentemente da condizionamenti etici) che non come pura tecnica, ossia arte specificamente avvocatizia nel senso antico di téchne.

In questo senso, allora, l’avvocato è in qualche modo per davvero un campione della Napoletanità. Ma, ahimè, se è vero che quest’ultima va assoggettata alle considerazioni negative così fondamentali che ho finora posto in luce, allora inevitabilmente lo deve essere anche la condizione avvocatizia così come essa si presenta a Napoli.

Ho spiegato e rispiegato però infinite volte che tale giudizio «negativo» di fondo non va preso affatto come riferito all’effettiva categoria professionale in senso specificamente tecnico – né tanto meno alle persone in carne ed ossa che in essa rientrano.

Esso va invece riferito solo e soltanto a quella sua forma specifica, che è perfettamente calata nella cornice antropologico-culturale del tipico «avvocatismo» partenopeo; e che poi, a sua volta, si lascia ancora più correttamente inquadrare nella categoria della retorica teatrale che è tipica della Napoletanità.

Posso dunque, in tutta sincerità e tranquilla coscienza, affermare che sto parlando qui non dell’avvocato per così dire «in-sé», ma invece solo e soltanto del retore enfatico e teatrale. Ed è esattamente in quest’ultimo che è da vedere, dunque, la perfetta equivalenza esistente tra il tipo antropologico ed il tipo professionale.

Del resto si potrà vedere chiaramente, nel corso della mia esposizione, che io mi riferisco molto più all’immaginario collettivo della categoria professionale, e molto meno invece a quest’ultima stessa nel proprio auto-definirsi ed agire (com’è del resto suo inalienabile diritto di fare, e senza poter venire sottomessa ad alcun giudizio).

Questo sia detto, allora, una volta per tutte, anche per le altre categorie professionali che da questo momento in poi andrò esaminando, partendo appunto dal principale punto di vista antropologico-culturale.

Ebbene, premesso questo, non dovrà affatto stupirci che la stessa qualifica nominale della professione di avvocato è soggetta a Napoli ad una declamazione enfatica, e quindi perdutamente retorica in termini intensamente teatrali.

A Napoli infatti non c’è alcun avvocato, ma c’è invece solo l’avvocheto; o meglio ancora, facendo uso delle corrispondenti sonorità germaniche, c’è solo l’avvokäto.

Siamo così al cospetto di quella nasalizzazione delle «a», che nella nostra città rappresenta uno dei più fondamentali strumenti di una retorica enfatica che distorce ad arte la pronuncia allo scopo di un abbellimento, il cui scopo ancora più lontano è poi la dimostrazione di appartenenza ad una determinata classe sociale, e cioè quella del «gran signore».1

E di questo siamo consapevoli tutti; sebbene la cosa sia ormai divenuta così irriflessa, e cioè istintiva, da essere nei fatti inconsapevole. Tuttavia non è un caso che la comicità partenopea più espressiva, e cioè quella di Totò, abbia fatto ricorso proprio a questo elemento repertoriale della Napoletanità per prendersi gioco dell’evidente ridicolaggine del relativo comportamento. Ebbene, dobbiamo tutti onestamente ammettere che lo scopo principale di queste distorsioni della pronuncia è l’esibizione della ricercatezza del linguaggio.

Quindi qui è all’opera un atto volontario ed arbitrario, e non invece (proprio come si vuole invece far credere) un’abitudine acquisita fin dalla culla. Si tratta insomma di pura teatralità, e specificamente nella forma di quel gettare fumo negli occhi, che è poi uno degli aspetti più tipici non tanto della teatralità in sé, ma invece di quella maligna aggressività usurpatoria che abbiamo visto essere così caratteristica della nostra Essenza.

Lo stesso accade evidentemente anche nell’impiego enfatico-retorico che il Napoletano usualmente fa già del semplice puro e semplice termine «avvocato». È evidente che, come ho detto, si tratta del dischiudere pregiudiziale di un complessivo contesto di valori e gusti, nel quale si sa in partenza di trovare collettivo consenso incondizionato. Ed è evidente che tale contesto ha in primo luogo un aspetto e significato eticamente negativo. Esso rinvia infatti a quei valori della sopraffazione e dell’usurpazione che ho or ora ricordato.

Tuttavia ho già detto, e lo ribadisco con forza, che la caratterizzazione negativa dell’avvocato alla quale qui mi riferisco non vuole affatto proporsi come immagine dell’avvocato in assoluto ed in generale, o anche dello stesso avvocato partenopeo preso in assoluto. Pertanto devo assolutamente precisare che da ora in poi non io parlerò affatto di quest’ultimo, ma parlerò invece solo e soltanto della sua mera controfigura negativa e caricaturale, ossia l’avvokäto. Categoria della cui esistenza io però non sono assolutamente responsabile. Mettendola in evidenza, infatti, io mi limito semplicemente a prendere atto di ciò che è il Costume locale stesso a proporre. Non io!

E questo significa che non sto in alcun modo creando in prima persona, una figura negativa (usurpando così il valore di quella reale, alla quale essa comunque si riferisce), per poterla poi sfruttare cinicamente ai fini del mio discorso critico. Mi sto invece semplicemente limitando a leggere il senso del fenomeno, nativo e naturale, che intanto mi trovo sotto gli occhi.

Vediamo allora quali sono i valori negativi che possono essere considerati stare in relazione specifica con il senso recondito che, entro l’immaginario collettivo partenopeo, riposa nella parola avvokäto.

Ebbene, proprio perché l’avvocato è insieme un giurista (ossia uno che si occupa di Giustizia), un retore e un difensore di accusati e quindi potenziali colpevoli, come meravigliarsi che costui rappresenti l’autentico campione di una razza che, nel profondo di sé stessa, sa benissimo di rendersi costantemente (con il proprio più spontaneo modo di essere) giudicabile e condannabile?

La mitizzazione collettiva dell’avvocato, a Napoli, è quindi in fondo espressione di un profondo senso di colpa per la propria indegnità.

E proprio in relazione alla Giustizia come valore assoluto. E tuttavia si tratta di un senso di colpa che non insorge mai, se non in maniera intimamente associata alla simultanea esigenza imperiosa (vero e proprio locale imperativo categorico anti-morale) di sottrarsi alla colpa e soprattutto alla condanna. L’intensità della mitizzazione porta pertanto con sé l’appello espresso ad una retorica giuristica che, quale tecnica efficace, si ponga al servizio dell’assoluzione del colpevole, e non invece dell’innocente.

Si tratta insomma chiaramente dell’appello, che proviene dall’Essenza partenopea in persona (ossia dall’Oscuro Signore stesso), ad un impiego deteriore e perfino perverso della cultura giuridica, e quindi in particolare alla sua prassi avvocatizia.

E qui bisogna però anche dire che noi così intercettiamo in un certo qual modo una qualche obiettività della negatività (perlomeno potenziale) della natura e prassi avvocatizie a Napoli.

Non è affatto difficile, infatti, ammettere che i peggiori tra gli avvocati napoletani sono perfettamente consapevoli proprio di questo ruolo che ad esso così spontaneamente tende ad essere affidato. E non è affatto difficile ammettere che essi lo utilizzino a proprio vantaggio (oltre che dell’assistito) senza sentirsi in ciò impediti da troppi scrupoli morali.

Ma sono certo che quanto sto dicendo non può in alcun modo costituire un’ingiuria alla categoria. Dato che è evidente che quanto posto in evidenza non può corrispondere minimamente agli standards qualitativi (di best practice) che certamente la categoria impone a sé stessa.

Qui del resto le radici elleniche in cui affonda la nostra prassi retorico-giuridica intervengono a semmai correggere, e non invece a consolidare, la cattiva prassi. Infatti la dottrina del Diritto platonica prevedeva espressamente la svalutazione della pura e mera “retorica” (ritenuta tendente in primo luogo appunto all’assoluzione del colpevole), a tutto vantaggio invece di quel “discorso” dialettico che punta sempre alla sola verità e solo ad essa.2

 Ed in questo senso si può dire che la dottrina tipicamente ellenica del Diritto tendeva alla relativizzazione del valore dell’avvocato (quale mero retore tecnico, ossia tendenziale «sofista»), nel contesto della complessiva prassi giuridica, piuttosto che alla sua assolutizzazione.

Come ci mostra Friedländer, infatti, l’accento posto sull’avvocato, nel contesto della prassi del Diritto, sopravvenne solo con la cultura romana.

Nella cultura greca infatti l’avvocato venne sempre considerato sostanzialmente un sofista.

Il Napoletano tipico, insomma, mitizza ed idolatra l’avvokäto esattamente perché si aspetta da lui l’esibizione piena e incondizionata della totale infingardaggine immorale nella difesa ostinata, orgogliosa ed arrogante, di tutto quanto si oppone nel modo più radicale al Bene, al Giusto ed al Vero. Egli si aspetta insomma un avvokäto che, sempre e per definizione, demoliscaspietatamente tutto ciò che è verità, giustizia ed anche poi soprattutto interesse comune. E di nuovo qui sconfiniamo sul piano dell’obiettività, senza però assolutamente sconfinare anche sul piano dell’ingiuria alla categoria professionale in sé.

Proprio il giurista più rigoroso, infatti, non avrà senz’altro alcuna difficoltà ad ammettere che non raramente gli avvocati tendono a vedere come pura (e moralmente neutrale) perizia tecnica, quella che è capace di sostenere con abilità efficace tesi in grado di demolire ipotesi accusatorie che però hanno il loro saldissimo fondamento nei fatti oggettivi, e quindi nell’effettiva e più pura e nuda Verità.

È esattamente in questo senso, quindi, che – senz’altro comunque deviando da quello che è il suo vero scopo in maniera tecnicamente oggettiva –, l’avvokäto può a Napoli venir considerato il difensore d’ufficio perfetto del Gran Lazzaro. Lo è evidentemente perché essi condividono la stessa identità senza nutrire il minimo dubbio al proposito.

E qui bisogna peraltro allargare il raggio della nostra osservazione anche a quella filosofia etico-politica, che non a caso si è occupata proprio dei fondamenti del Diritto (ossia della colpa e della verità).3

In essa infatti la colpa è stata espressamente equiparata al “peccato” stesso, e quindi ricondotta ad una dimensione strenuamente morale. Il che spiazza necessariamente buona parte di quella tecnica, che invece pone sé stessa come fisiologicamente a-morale.

Ma, una volta che avremo riportato tutto questo alla specifica realtà napoletana, noi vedremo allora molto chiaramente come il comune intendimento locale di ciò che è un avvokäto tende fortemente e molto direttamente a cancellare proprio quella che è la dimensione etico-metafisica dell’Essenza nella sua determinazione di comportamenti di massa.

L’Essenza stessa infatti, a Napoli, chiede espressamente di poter determinare comportamenti non giuridicamente virtuosi, ma invece inequivocabilmente delittuosi. Il comune intendimento di ciò che è un avvokäto tende insomma a cancellare il fatto che qui non solo c’è una vera e propria «colpa», invece che una semplice ed ingiudicabile «natura» (ossia una natura come un’altra), ma c’è anche una colpa nel senso di vero e proprio «peccato».

Eccoci insomma di nuovo di fronte al «peccato» collettivo e connatale di essere «napoletani», e del quale siamo espressamente chiamati a «pentirci»!

Tuttavia le riflessioni fatte prima sull’impiego enfatico del nome stesso di avvocato, ci conducono davanti ad uno strato ancora più profondo di tale dimensione di colpa connatale e di razza.

Va infatti osservato che colui che, nel mitizzare l’avvokäto, pronuncia allusivamente il suo nome stesso in modo ricercato e lezioso, non è in genere affatto lui stesso un gran signore, ma è invece solo un povero diavolo. E lo sa molto bene. Egli insomma finge solo di esserlo.

E non a caso lo fa ponendo sulle sue labbra un simbolo che associa intimamente proprio l’immagine (anch’essa mitica) del «gran signore» a tutta la serie appena discussa di connotazioni negative di tipo morale. Qui insomma anche l’appartenenza sociale è solo fittiva ed enfatica. Quindi essa è teatrale nel senso più negativo ed aggressivo possibile, e cioè nel senso di quella dissimulazione, il cui scopo finale è l’imbroglio bello e buono.

Ma il fatto è che la tipologia deteriore dell’avvokäto si presta perfettamente a questo scopo, e per un motivo ben preciso. Si tratta cioè di un motivo che chiama il «tipo» stesso direttamente in causa nell’associazione enfatica negativa che intanto viene fatta dal povero diavolo. Egli stesso, cioè – sbandierando allusivamente l’espressione «avvokäto» come segno della sua (notoriamente falsa) appartenenza alla relativa dignità sociale –, si propone di fatto come l’emblema più pregnante del Napoletano nella sua forma più baroccamente smagliante e sfolgorante.

Ma lo fa in maniera del tutto male intenzionata, e cioè finalizzata all’assimilarsi a quella condizione sociale, che consente impunemente l’esibizione di forza e quindi l’esercizio di un dominio che schiaccia ed asservisce. In altre parole, in tal modo, è proprio l’avvokäto stesso a proporsi (quale tipo antropologico-professionale) come l’immagine emblematica dell’altro tipo antropologico (al quale il povero diavolo desidera assimilarsi), e cioè il «gran signore» napoletano. Qui però non si tratta più di un tipo antropologico professionale, bensì invece sociale.

E così il povero diavolo si limita appena a citare questo caso superiore di assimilazione tra i due tipi. In tal modo, dunque, egli lancia un segnale del tutto convenzionale del cui accoglimento può intanto restare del tutto certo.

Egli avrà infatti così recitato una parte del copione scenico, che nessun Napoletano si sognerà mai di non gradire. Non certo per questo, dunque, il povero diavolo sarà innalzato a chissacosa, o sarà stato ammesso magari al godimento di chissà quale privilegio. Ma intanto sarà stato riconosciuto come uno che ha fatto da bravo la parte del «napoletano».

E peraltro lo ha fatto avvalorando uno degli ambiti di valori negativi che più sta a cuore all’Essenza che governa questa terra e questa razza.

Ebbene con tutto ciò emerge pertanto un altro, e non poco rilevante, aspetto negativo della collettiva mitologia partenopea dell’avvokäto, e cioè appunto quello sociale.

Si delinea insomma ancora una volta quel fenomeno della «città divisa», del quale parlerò poi nei prossimi articoli. Insomma l’avvokäto è di certo il distillato finissimo della peggiore identità partenopea nei suoi aspetti oggettivamente più infimi. E lo è in quanto, nell’immaginario collettivo, egli si fregia di uno dei più alti onori della morale degenere che a Napoli domina sovrana, e cioè quella capacità di fare «fessi» gli altri, la quale costituisce poi automaticamente come «dritto» colui che la possiede.

Cosa che poi sottrae costui a quello che è il vero Inferno per i Napoletani, ossia l’infamante e terrificante girone dei «fessi».

Ma non si tratta affatto solo di questo. Non si tratta insomma affatto solo di bassezza. Perché l’avvokäto incarna in verità in sé stesso anche il più eccelso livello ontologico della Napoletanità, e cioè lo status corrispondente a quella condizione di «gran signore», che a sua volta implica uno degli aspetti più intensi della mitologia auto-referenziale partenopea. Esso implica infatti anche la localizzazione geografica nell’ombelico del mondo per eccellenza, e cioè nel cuore di Napoli stesso, ossia la «città cartolina».4

 È il luogo in cui, come ho già detto, si vuole che Napoli sia più Napoli.

Parlo insomma di quella ridente, prestigiosa e ricercata curva di geologia naturale completamente architettonizzata, che a Napoli guarda in faccia al mare, e precisamente anche dalla sola parte giusta (almeno dal XVIII secolo in poi); cioè quella che volge le spalle alla vetusta città greco-romana e ha direttamente davanti a sé l’altro grande mito dello spettacolo collettivo, e cioè Capri. Non a caso anche questo nome viene pronunciato dai Napoletani solo e soltanto con enfasi retorica che distorce ad arte la pronuncia – è Cäpri, e non invece semplicemente Capri!

Ebbene non può essere affatto un caso che un avvokäto che davvero si rispetti abbia il suo prestigioso studio proprio in questa parte della città. Meglio ancora poi se vi abita pure. Del resto però, almeno nell’immaginario collettivo, l’avvokäto vero lavora ed abita per definizione in questa parte della città.

Ed eccoci insomma di fronte alla pienezza stessa dell’avvokäto mitico. Di lui infatti non importa nulla l’effettiva e concreta realtà. Importa invece solo la veste fantastica. Essa fa sognare quanto basta l’immaginario collettivo!

Tutto ciò significa allora che l’avvokäto non è solo una tipologia che per natura si presta al macchiettismo così proprio della tradizionale oleografia del cosiddetto paglietta (spesso ancora oggi anche teatrale e filmica in senso pieno). Insomma non è solo una persona benevolmente presa in giro nel mentre intanto però la si ama altrettanto benevolmente; e cioè con una dolcezza priva di qualunque durezza.

Anzi proprio questo strato comico-teatrale della sua concezione immaginativa rappresenta il fondamento non a caso gradevole e simpatico che sorregge un’ammirazione collettiva molto intensa. Ma essa è così intensa da sconfinare molto facilmente verso la rispettosa e perfino timorosa adorazione religiosa di un vero e proprio dio.

Dall’avvokäto quale idolo e mito, infatti, ci si aspetta ben più che solo il frutto della sua opera professionale (ossia l’assoluzione del colpevole). Ci si aspetta invece che gli basti muovere un solo dito per procurare al beneficiato l’accesso a privilegi inimmaginabili – potere, fama, influsso, ricchezza. Ed anche a tale proposito bisogna ammettere che vi sono casi in cui ciò è effettivamente vero.

Dato però che tutto ciò non è mai disgiunto dagli aspetti più estetici dell’etica mitica qui in causa, non vi è nulla da meravigliarsi allora che l’avvokäto tenda a venire immaginato come l’arbitro stesso della vita sociale napoletana, e specialmente quella più dorata possibile, ossia l’arbitro del più raffinato e prestigioso «divertimento» cittadino.

Come allora non pensare che egli incarni alla perfezione tutta l’iconografia mitica della dolce vita che l’immaginario partenopeo proprio a Cäpri colloca. È lui, sì, è proprio lui quel tipo che ora incede in «piazzetta» tutto azzimato (à la mode del momento) e certo incrollabilmente della sua avvenenza, della sua maschilità, del suo successo, del suo potere; e soprattutto dell’incoercibile invidia che tutto ciò susciterà.

È lui sì. Oggi – nel tempo in cui domina sovrana ed assolutamente impositiva (noblesse oblige!) l’ennesima moda da imbecilli – egli va in giro in braghe bianche che scoprono le caviglie nude, polo con il collo rigido dritto dietro la nuca, oppure camicia bianca immacolata con il colletto impettito (che ricorda quello di una divisa ottocentesca), scarpe da tennis dai colori sgargianti, maliziosamente arditi e sorprendenti. Ed il tutto però soprattutto finissimo e prestigiosissimo, ossia tutto ciò di cui si possa e si debba dire con estrema precisione da quale specifico negozio è uscito.

Ma insomma cos’è mai tutto questo strano insieme?

Abbiamo un misto inestricabile di amabile (perfino bonaria ed inoffensiva) scherzosità leziosa, e intanto di serietà mortale.

Con l’opera dell’avvokäto, infatti, proprio nel suo concernere la certa assoluzione dell’innocente, ne va nientedimeno che del restare in piedi di immense fortune; ed ancor più se sono puramente parassitarie ed inoltre guadagnate senza troppo sforzo. E quindi il loro accumulo non solo non cambia nulla nella realtà economica della città, ma addirittura la condizione negativamente (ossia la peggiora).

E tutto ciò diviene ancora più impressionante se si costata l’abilità tecnica in negativo dell’avvokäto si inquadra nel contesto negativo ancora più generale, che è quello di un sistema amministrativo la cui elefantiasi (il cumulo di carte che esso prevede e serba) va esattamente di pari passo con la sua totale inefficienza, e quindi anche improduttività o meglio totale inutilità.

È insomma la celebrazione dell’effimero per eccellenza; e precisamente nella forma specifica dell’attività intesa come pura perdita di tempo e stagnazione. Siamo insomma di fronte al manifestarsi di quel così tipico spirito del luogo, che è il solo apparente e finto attivismo, la cui evidenza lampante fece dire ad Annamaria Ortese che a Napoli non succede mai davvero qualcosa, ossia non succede assolutamente mai nulla.

Ebbene è esattamente nel contesto di un siffatto sistema che prospera per definizione tutto ciò che sfrutta esattamente quanto esiste e si muove, ma solo per sfociare nel più totale nulla. Si tratta insomma proprio di quelle così esiziali «crepe del sistema» che l’avvokäto sa sfruttare alla perfezione per raggiungere gli scopi da lui posti a disposizione del peggiore possibile dei clienti.

Ed ecco allora che il cumulo delle carte assumerà entro la sua pratica l’aspetto davvero sacerdotale (e quindi spettacolarmente misterioso e sfarzosamente circonfuso di incensi) dell’atto religioso nel quale egli si fa cogliere come colui che «...esamina le carte».

Il suo sembra un atto tecnico al suo massimo grado, e quindi esso sembra un atto tanto moralmente neutrale quanto orientato solo e soltanto alla perizia intelligente nel raggiungere gli scopi dell’arte. Ed invece si tratta alla fine in primo luogo nell’impiego di quell’infallibile lente d’ingrandimento (fornita all’uopo proprio dall’Essenza del Luogo) che consente si scovare la «crepa del sistema» dovunque essa si trovi, e per quanto bene possa essere nascosta.

È insomma la realizzazione al massimo grado della scaltrezza come virtù intellettuale e tecnico-artistica. Ma non senza che intanto sul suo sfondo si delinei lo scenario indispensabile di quella vera e propria Macchina Inutile, nel cui immenso e tenebroso corpo tutto e nulla è possibile allo stesso identico modo; e ciò con l’invariabile risultato che, nel mentre «nulla per davvero si fa» (ossia nulla di davvero umanamente pregevole), effettivamente «nulla per davvero accadrà».

Si tratta insomma della realizzazione piena di quel «non fa niente» che noi Napoletani usiamo opporre agli eventi più irrimediabili, ancor più se essi rischiano di delineare una catastrofe nel senso dell’infamia, e cioè in termini etici.

Inutile dire che (come ho già mostrato), in una realtà come Napoli, il disporre di una simile abilità professionale comporta un potere immenso. Ed eccoci dunque davanti ad una delle forme più chiare che assumono l’idolatria e la mitizzazione delle quali può godere l’avvokäto. Si tratta insomma del fenomeno della selezione (dal basso) di chi merita o meno di assurgere all’autentico massimo livello nella collettiva considerazione.

E per tutto ciò che ho appena mostrato, è evidente che in tal modo dovremo costatare l’installarsi dell’Inutilità tecnica stessa per eccellenza al vertice della società.

Ma è ovvio che con ciò non sto accusando affatto gli avvocati di incompetenza da azzeccagarbugli. È naturale che una certa perizia nello scovare i punti deboli della legge debba giocoforza rientrare nella loro abilità tecnica. Ed inoltre ho anche già chiarito a sufficienza che sono perfettamente consapevole del fatto che la best practice avvocatizia non può in alcun modo mettere tutto questo al proprio centro.

Tuttavia ciò di cui io sto parlando è ben altro che questo. Sto infatti parlando del servizio reso dalla prassi giuridica e amministrativa alla società nella sua interezza come organismo, ovvero come entità la cui vita ha bisogno non solo dell’efficienza produttiva ma anche di un’efficienza che sia quanto più possibile in linea con l’etica, ossia con il perseguimento dei migliori (e non i peggiori) scopi del vivere collettivo.

Ed è evidente che, nel «sistema» appena raffigurato questo genere di presupposti viene totalmente a mancare.

Ecco allora che possiamo con ciò cogliere il senso più centrale e profondo del così strano insieme (di bonomia scherzosa e mortale serietà della scaltrezza tecnica posta al servizio del peggio) di fronte al quale ci troviamo con l’avvokäto napoletano. Noi ci troviamo insomma di fronte alla mortificazione ostinata ed efficientissima della Verità una volta eretta a sistema.

E ciò è tanto più vero quanto più la Verità viene fatta idealmente coincidere con il Bene.

E questo è esattamente ciò che accade in quel così platonico trinomio Bene-Giusto-Vero, entro il quale non a caso la Giustizia occupa il posto più centrale. In questo senso allora il partenopeo avvokäto – per quanto incontestabilmente paradigmatico (ma solo come controfigura caricaturale del vero avvocato partenopeo) nella qualità dell’esercizio della virtù tecnica basilare dell’avvocato, ossia la retorica –, deve essere considerato colui che più offende e mortifica il Diritto come disciplina e prassi.

E ciò è ancora più grave se si constata (come abbiamo appena fatto) che egli nello stesso tempo offende e mortifica la Società stessa quale corpo organico orientato a pregevoli scopi comuni.

Nulla da meravigliarsi allora che il rilievo straordinario che ha a Napoli questa figura negativa trascini con sé nel negativo tutte le figure tipico-professionali che inevitabilmente tenteranno di emularlo come quell Campione del Peggio che intanto riscuote il maggiore successo pensabile.

Ed ecco allora, su queste solo illusorie altezze, elevarsi ulteriori (tutti austeri, ricchissimi e sussiegosi) Sacerdoti del Nulla; sempre officianti pompose cerimonie avvolte nell’incenso dell’attonita e tremebonda adorazione collettiva. Sacerdoti della Giustizia da operetta. Sacerdoti del Pedantismo amministrativo. Sacerdoti della micragnosa e cinica Finanza. Sacerdoti delle infinite Carte che non significano né rappresentano nulla, puri documenti di un'inflazione del senso e dell'utile.

Ebbene c’è da meravigliarsi se a questo punto – entro quel contesto della Napoletanità che, in questo come in altri campi, si distingue per la sua negatività paradigmatica – inizia a delinearsi nuovamente la sembianza demoniaca che già così spesso abbiamo visto emergere?

Essa infatti è in grado di raccogliere in sé perfettamente tutti gli elementi finora posti in luce – e nella forma del venire allo scoperto di un vero e proprio genio malefico.

Ma non lo può fare in modo migliore che in quella estrema sintesi che ritroviamo sempre solo nella teatralità (quale specchio della vita), ossia nella maschera. Ed eccoci così nuovamente di fronte al tipico paglietta partenopeo.

Dunque osserviamo più da vicino questa maschera. Ebbene non vi è modo migliore per farlo che sorprendere il nostro avvokäto esattamente nell’atto sacro di «esaminare le carte». Nel mentre lo fa, egli non muove un solo muscolo del viso. Intanto però egli sapientemente lascia che un solo sopracciglio appena si inarchi sulla sua faccia così dignitosamente vuota di espressione.

Quasi impercettibilmente esso si inarca. E lo fa per mostrare come e quanto l’infallibile fiuto del suo possessore l’abbia già messo sulle tracce della «crepa nel sistema» di fronte alla quale egli non esiterà ad impiegare qualunque trucco retorico possibile per sfruttarla ai fine del crollo della tesi accusatoria. È ciò che in termini tecnici viene definito come “vizio di forma” – proprio come se la forma fosse infinitamente più importante e pregevole della sostanza!

Ebbene, il sapientemente solo accennato appena inarcarsi di quel sopracciglio, anticipa in maniera estremamente chiara il ghigno satanico che ne rappresenta la vera pienezza. E tutti gli astanti lo sanno. Lo sa lui, e lo sa soprattutto l’accusato, che è andato da lui proprio per questo, ossia perché il satanismo del Diritto trionfi sulla Verità.

Ma è esattamente per questo che la maschera (qui colta nel suo tratto più cruciale) intende al disopra di tutto esprimere, e cioè la possanza demonica del Princeps – maestro di inganni (principe del foro) e però anche capo di legioni. È insomma colui che domina l’arte sottile del male e dell’ingiustizia.

Ergo ci troviamo così di fronte al Gran Lazzaro stesso – la natura demonica è la stessa e senza alcuna differenza di sostanza, ossia in un’intimità perfetta che si può ben considerare come un «due-in-uno» (ossia la relazione che lega la persona al suo doppio). Ma nello stesso tempo con ciò si tratta anche dell’esatto rovescio speculare dell’ammirazione idolatrica della quale è fatto segno l’avvokäto.

Ed ecco allora che, se lo osserviamo bene, noi comprenderemo perché, mentre l’avvokäto è intento ad «esaminare le carte» (assorbito così in una meditazione quasi samādhica) – le sue palpebre pesanti non si sollevano mai, così come il sopracciglio non si inarcherà mai oltre un certo limite, ed inoltre dalla sua bocca non uscirà per molto tempo un solo suono.

Ci accorgeremo infatti finalmente che la sua bocca, anche se anche in questo caso solo impercettibilmente, è deformata dal disprezzo per tutto ciò che non è lui stesso in persona. E così comprenderemo cosa intende esprimere l’intera maschera, e cioè solo e soltanto la durezza infinita e indomabile di quel perverso cinismo che a lui tutto permette tranne che l’essere trasparente (virtù da «fessi»).

Ci diverrà allora del tutto chiaro chi sia per davvero il modello assoluto di tutti coloro che oggi – specie in quel mondo moderno in cui il «Dio-Denaro» è l’unico ed assoluto valore, e cioè la cosiddetta «economia», o anche «finanza» – sono al vertice della società (per avere seguito il modello dell’avvokäto) proprio in quanto sono insuperabile nell’abilità tecnica che riguarda solo l’Inutile nella forma specifica del «puro burocratico». E non farò i nomi di queste categorie, per quanto sia chiaro a quali io mi riferisca – ancora una volta però senza alcuna intenzione offensiva verso i singoli professionisti e le categorie nelle quali essi rientrano.

In ogni caso – nelle circostanze negative specifiche che Napoli incarna alla perfezione nella propria Essenza – noi ci troviamo così al cospetto del Demonio stesso al potere, ossia esattamente quell’Oscuro Signore che abbiamo visto essere il Padre e Padrone del Gran Lazzaro.

Ed ancora una volta di questo ci offre un’immagine formidabile quella poesia che è sempre stata più intensamente preoccupata con l’etica. Ecco allora lo Shakespeare del Re Lear5 nella sua descrizione dei demoni trionfanti sul mondo nel corso del loro sabba: – Obdicut, demone della lascivia, Hoberdidance, demone delle lingue mute, Mahu, demone dei ladri, Modo, demone degli assassini, Fliddigibbet, demone dalle smorfie ed ogni sorta di versacci. Ed a Shakespeare fa poi ovviamente eco il Goethe che descrive la “Valpurgisnacht” di Goethe6: – “In spaventoso groviglio / si schiantano gli uni sugli altri [...] Che ressa, che spintoni, che sbattere, che sdruccioli! / Che sibili, che frulli, che chiacchiere, che corse! / Sprazzi e scintille, puzzo e vampate! / Il vero elemento delle streghe!”.

Ancora una volta è davvero impressionante la prossimità delle immagini alle forme tipiche della realtà partenopea.

Nei prossimi articoli analizzerò poi anche le altre tipologie professionali che a Napoli tendono ad incarnare l’Essenza negativa.

 

 

Note

1 Altri tipici elementi di questo armamentario enfatico-retorico sono quelli che seguono: – 1) la «g» trasformata in una dolcissima «dghj» (molto simile alla pronuncia ispanica della consonante), come ad esempio in «dghjovani» (invece di «giovani»); 2) la «o» aperta e lunga trasformata in «o» chiusa e breve, come ad esempio in «giórno» (invece che «giòrno»). Ed in questo ultimo caso, l’esatto opposto avviene per le vocali che in napoletano usualmente si pronunciano come chiuse e brevi e non invece aperte e lunghe (come nel caso di «chiésa», e non invece «chièsa»). E questi sono solo alcuni tra i tanti altri possibili esempi.

2 Huntington Cairns, Platone giurista, in: Paul Friedländer, Platone, Bompiani, Milano 2014, I, XVI p. 323-354.

3 Juan Donoso Cortés, Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo, Il Cerchio, Rimini 2007, II, VIII p. 172-181; Joseph De Maistre, Le serate di Pietroburgo, Paoline, Roma 1962.

4 Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in: Silvio Perrella, Raffaele La Capria. Opere, Mondadori, Milano 2003, p. 757-767.

5 William Shakespeare, Re Lear, Rizzoli, Milano 1991, Atto IV, Scena I p. 187.

6 Johann Wolfgang Goethe, Faust, Garzanti, Milano 2004, I, 3947-3949 p. 343, 4016-4019 p. 349.

 

 

 

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