Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Perché aborrire ed abolire la Serie televisiva Gomorra?

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Le considerazioni svolte in questo articolo hanno lo scopo di illustrare molto a fondo le ragioni che mi hanno spinto a lanciare su Facebook una petizione per richiedere a Sky l’abolizione della serie Gomorra.

È evidente che una simile richiesta urta contro sostanziosi interessi economici, e quindi potrebbe anche venire rigettata. Ma comunque essa ha in primo luogo il senso di manifestare la voce dei tanti che non sono più disposti ad accettare supinamente il sussistere e prosperare di un’operazione di spettacolo, i cui effetti devastanti sono immediatamente intuitivi.

E proprio alla descrizione di tali effetti questo articolo è dedicato. In ogni caso devo dire che la petizione sta riscuotendo un grande successo. In sole 24 ore sono state infatti raccolte già ben 70 firme. Ed inoltre il loro numero continua a crescere. Ciò che io sostengo incontra quindi senz’altro un sentimento di scontento e indignazione che è molto diffuso tra i Napoletani. Ed era quindi decisamente ora che esso venisse allo scoperto.

Noi viviamo ormai in tempi assolutamente terribili, nei quali il confine tra bene e male è divenuto labilissimo. Tempi in cui, come ha scritto Hannah Arendt 1 (commentando la grande stagione dei processi contro i criminali nazisti) tre fenomeni congiunti aprono ormai la strada al male senza che assolutamente nulla si possa frapporre alla sua marcia distruttiva:

1) La paralisi del giudizio impostaci dal relativismo morale sul quale tutti concordiamo.

2) L’assenza di fatto del crimine, in una società il cui ordine è criminale in quanto conformisticamente compatta nel ritenere che l’etica sia ormai morta e seppellita.

3) Il già avvenuto naufragio di tutte le forme possibili di teorie morali, filosofiche (quella socratica del male come irrazionale, e quella kantiana dell’«io devo») e religiose (quella cristiano-paolina, del libero «volere-il-bene»).

 

In altre parole quel Nichilismo che nel XIX e XX secolo fu intuito, pensato ed in gran parte anche vissuto, da parte di sofisticati intellettuali (Stirner, Nietzsche, Heidegger, Michelstaedter, Sartre etc), è oggi diventato pane quotidiano e credo delle masse, cioè di tutti noi. E proprio il Nichilismo, con la definitiva archiviazione dei valori da esso determinata – anche se molto più come costatazione di evidenze già in atto, che non invece come promozione della distruzione dei valori –, determinò di fatto quel “collasso morale2 che rese poi totalmente plausibile un ordine criminale (incentrato sull’anti-comandamento dell’”uccidi!”).

Esso era infatti ormai sostenuto saldissimamente da un conformismo non più scalfito da alcuna eccezione o deroga. Ed è esattamente questo conformismo granitico, ciò che per la Arendt contraddistingue un’effettiva “società totalitaria” (la quale è ben più che una semplice “dittatura”).

La cosa più terribile fu però che, di fronte all’evidenza di tale collasso morale, ci si trovò solo dopo gli eventi. E non prima, o anche magari nel corso dello svolgimento dei fatti. Fu solo dopo, infatti, che un’intera società – fino a poche ore prima schierata come un corpo solo sotto il proprio indiscusso Führer –si riscosse di colpo dall’incanto e dall’inganno, e si vide così costretta ad interrogarsi su come fosse stato possibile che fosse accaduto ciò che intanto era davvero accaduto.

Lo dimostra magnificamente il “Was ist geschehen?” (“Cos’è mai accaduto?”) cantato allora da Marlene Dietrich. Ma la Arendt ci mostra come la spiegazione di ciò non è affatto complessa, ma è invece semplicissima. Era infatti semplicemente accaduto che tutti avevano continuato a comportarsi come ottimi cittadini (obbedendo ed eseguendo a puntino i compiti loro affidati) in una compagine statale burocratica perfettamente organizzata, il cui fine era ormai divenuto il male e non più il bene.

Ebbene questo è esattamente ciò che può accadere tutte le volte che in una società non agisce più alcuna morale. L’ordine resta, perché in assenza di esso una società cessa totalmente di essere un corpo (perfino un disintegrato corpo canceroso). Ma diviene del tutto indifferente se questo ordine, nel suo essere, pensare ed agire, si ispira al bene o al male.

Questo è senz’altro avvenuto in tutto il mondo, ed inoltre accade proprio oggi, sotto i nostri stessi occhi, in maniera ancora più terribile che non sotto le svastiche naziste (o le bandiere rosse di Lenin e Stalin).

Il conformismo nella supina e perfino complice accettazione del male –  come sfrenato edonismo egocentrico, ricchezza sempre piò smodata e illegale, perversioni e crimini atroci di ogni genere, e soprattutto totale disintegrazione della società – domina infatti oggi non solo sovrano, ma anche sotto del tutto mentite spoglie (e cioè quelle di un ipocrita buonismo lassista e della collettiva ossessione per la «sicurezza» e per la political correctness).

Ma che dire allora di una società come quella napoletana nella quale da sempre il bene ed il male (il bello ed il brutto) sussistono l’uno accanto all’altro? Ed in quale società, se non in quella napoletana (come sto dimostrando nei miei articoli), domina sovrano quel conformismo che volontariamente maschera come bene ciò che invece è male?

Ma è qui che emerge il fenomeno «Gomorra» come uno straordinario fattore aggravante di tutto questo.

Insomma, amici miei, cosa si può dire di una società come quella napoletana, nella quale (proprio grazie alla serie Gomorra) possono tranquillamente coesistere addirittura due speculari versioni del male: – quello concretamente e ordinariamente vissuto (cioè visto con i propri occhi e toccato con mano) per le strade e nella vita stessa delle istituzioni; e quello spettacolarizzato in una fiction che però non sarebbe affatto ciò che è, se non rispecchiasse fedelissimamente la realtà effettiva e ordinaria?

L’uno è il male da noi direttamente vissuto senza alcun diaframma, e l’altro è il male da noi vissuto attraverso il diaframma dello schermo televisivo o cinematografico.

La sostanza però è esattamente la stessa.

Il fenomeno è esattamente lo stesso. Il male è esattamente identico. Con però un’unica e determinante differenza.

Nel secondo caso, infatti (quello del male ordinario e quotidiano nella sua versione spettacolarizzata) entra in gioco un fattore decisivo ed assolutamente dirimente, e cioè la dimensione estetica.

In parole povere è il piacere, ossia il piacere che viene sempre evocato in noi da una narrazione. Cosa alla quale si aggiunge poi il calcolo esistente dietro un prodotto che più piace più vende. Tanto più ciò accade quando la narrazione è appunto «spettacolare», e cioè teatrale (quindi anche filmica).

È insomma quello che accade quando un testo (narrativa) – che esso sia effettivo, oppure invece viva solo nella mente di chi lo concepisce – viene trasposto in immagini, e più specificamente in figure di uomini in carne ed ossa (che si muovono, compiono atti, reagiscono ad atti, entrano in relazione tra di loro, provano sentimenti, pensano).

In questo modo abbiamo dunque una vera e propria riproduzione – quanto più ricca e fedele possibile – della vita reale. Ma non è affatto la vita degli uomini buoni, belli e giusti, quella che viene così riprodotta. È invece la vita degli uomini brutti, cattivi ed ingiusti, ossia la vita di quello che Nietzsche (con Bloy)3 definì come “il più brutto degli uomini” (ossia il deicida, e cioè colui per mano del quale “Dio è morto”). In parole povere, in tal modo è il male stesso a venire rappresentato nel modo più realistico possibile. E il male di cosa? E di chi? Il male di Napoli e dei Napoletani!

Ora, Dio mi guardi dal negare che ciò non sia necessario. Proprio io non posso affermarlo. Io che su questa rivista sto proponendo ai lettori una serie di articoli che descrivono proprio la profonda identità negativa e demoniaca che affligge Napoli e i Napoletani, cioè lo specifico male che intride la loro identità.

Per nessuno, più che per me, dunque, la serie Gomorra dovrebbe essere benvenuta. Ma invece le cose non stanno affatto così. E questo proprio per l’intervenire, entro una narrazione come questa, del fattore decisivo che è rappresentato dall’estetica (unita poi peraltro al calcolo). Non intendo dire con ciò che un libro non avrebbe l’effetto nefasto che ha invece un film. Sarebbe assurdo affermarlo. In entrambi i casi si tratta infatti di narrazione e di estetica.

E dunque il fattore davvero più decisivo (sottostante alla dimensione estetica) appare essere semmai proprio quello della cosiddetta fiction, o meglio la scelta stessa della fiction. Insomma è la scelta del mezzo espressivo ciò che costituisce il problema.

Decidere di scrivere un libro non-narrativo (o anche degli articoli) sul male di Napoli non è affatto la stessa cosa che decidere di mettere in scena lo stesso male in forme strenuamente narrative. Ossia forme che attraggono, impressionano i sensi, avvincono con sorprese e colpi di scena, invitano lo spettatore a trasferirsi nella scena provando i brividi che la sua fantasia attribuisce ai personaggi come se fossero esseri reali.

Ecco il sostanziale godimento che viene indotto dalla spettacolarizzazione di qualunque cosa. Perfino del male! Anzi, a veder bene, ciò avviene con il male come non potrebbe invece avvenire con alcun’altra realtà. Perché la rappresentazione figurativa del male sulle prime ci rassicura circa il fatto che ciò che vediamo non sta affatto avvenendo (ma è invece di fatto solo un incubo, ossia un sogno). E così ci avvince e ci lega alle vicende narrate.

Poi però insidiosamente e di colpo –  così sorprendendoci e tramortendosi, con l’abolizione in tal modo di tutte le nostre difese – ci spalanca le porte stesse della scena, invitandoci in tale maniera ad entrare realmente in quel mondo.

Invitandoci a sentirci ed essere esattamente come coloro che stanno calcando la scena in quel momento. Invitandoci insomma ad impersonare il male. E così noi proveremo il brivido irresistibilmente seducente di essere noi stessi uno di quei tanti truci e nauseantemente malvagi «savastani» – di avere la stessa acconciatura ma mohicano sanguinario, di avere lo stesso sguardo velenoso da cobra sanguinario, di sibilare allo stesso modo un napoletano atroce e spaventevole, di brandire con lo stesso sadico piacere l’arma che sta per aprire un buco nella fronte dell’avversario, di trascinarne il cadavere sanguinante con la stessa sprezzante indifferenza.

E forse che voi stessi non vedete ormai legioni di questi «savastani» girare fierissimi e truci per le strade di Napoli e provincia? E come costoro sono diventati così, se non venendo letteralmente trascinati nel mondo del male che la serie Gomorra mette in scena? Ecco insomma una perfetta fabbrica di zombies.

In nulla da meno rispetto ad un Auschwitz, Mauthausen, Treblinka o Dachau. Ed importa davvero pochissimo che coloro che escono da Gomorra siano vivi e vegeti, e non invece scheletri calcinati. Vivi costoro lo sono davvero? Ne siamo proprio sicuri? Oppure sono stati giù uccisi dall’esempio atroce?

Ebbene, amici miei, non è forse esattamente questa la ricetta del successo della serie Gomorra? Non è forse esattamente per questo che essa è diventata un prodotto che vende ottimamente, in modo da poter essere esportato in tutto il mondo? E non è forse per questo che la serie viene ormai considerata il fiore all’occhiello dell’arte filmica napoletana?

Del resto le persone coinvolte più o meno direttamente nell’operazione (gente del cinema e degli studi televisivi napoletani, cinefili etc) con le quali io ho parlato – nel presentare la mia petizione – mi hanno obiettato con assoluta convinzione che si tratta di un ottimo prodotto in quanto “ben scritto, ben filmato, ben montato...”.

La bontà, insomma, sta tutta nella forma estetica ed in nient’altro. E lo stesso vale anche per la giustizia. Bontà e giustizia stanno insomma tutte nella nuda bellezza, e nel piacere che essa evoca. E basta! Il male passa così del tutto in secondo piano – e con esso anche il brutto delle facce e dei corpi, il ripugnante Gran Guignol, la natura nauseabonda o odiosa del parlare e degli atti, la truculenza arrogante, proterva e demoniaca, la volgarità sguaiata, la bassezza, l’immondità di tutto questo.

E proprio questo dimostra quanto siano ciniche, false ed ipocrite le ragioni a favore della serie che vengono addotte da creatori, attori, produttori e perfino sostenitori (cioè entusiastici spettatori). Dicono infatti che la serie sarebbe «educativa». E nel pensarlo e dirlo è evidentissimo che costoro non hanno la minima idea di ciò che stanno pensando e dicendo. Essi insomma «non sanno quello che fanno!».

E questo perché essi sono le prime vittime del “collasso morale” moderno, ossia non hanno per nulla le idee chiare. Cosa che poi sottolinea l’inaccettabilità del fatto che leaders intellettuali e morali di una società siano di fatto i registi di film, e non invece ben più qualificati intellettuali (ammesso che nel mondo moderno questi esistano ancora).

Secondo costoro, insomma, la serie Gomorra porterebbe allo scoperto il male (e precisamente quello peggiore possibile) per dissuadere gli spettatori dal farsene attori o complici.

Detto in termini piuttosto pedestri, si tratta con ciò di un rinvio alla funzione catartica che fu dell’antica tragedia greca. Nella quale appunto lo spettatore veniva direttamente coinvolto nei fatti, proprio perché potesse sperimentare il male in modo da poi accedere al processo che recava alla liberazione da esso (catarsi).

Ma in questo caso il male non passava assolutamente in secondo piano per essere invece sostituito dalle pure forme estetiche. E meno che mai la bontà e la giustizia divenivano qualcosa di secondario rispetto al dominare assoluto della pura e neutrale bellezza formale. L’intera cultura ellenica, infatti (maxime in Platone) ha sempre considerato come una sola ed unica cosa il Bene, il Giusto ed il Bello. Inoltre lo spettacolo tragico era un’autentica rappresentazione religiosa.

Era insomma teologia vissuta. Era liturgia. Laddove poi il contenuto della teologia erano i miti in esso messi in scena. E forse che la serie Gomorra mette in scienza qualcosa di sublime e divino come un mito? No! Mette invece in scena il peggio del peggio della società napoletana nella sua più bruta naturalità; ossia esattamente quella bestialità del Gran Lazzaro che io intanto vado descrivendo nei miei articoli su Napoli.

Infine, allora la catarsi dal male non avveniva nel contesto dell’inscenazione tragica, ma invece solo dopo, e cioè nel contesto delle liturgie sacre proprie di feste e rituali misterico-iniziatici.

Dunque, che per favore non venissero a raccontarci balle parlando della funzione «educativa» di un fenomeno mediatico come Gomorra! È evidente che si tratta non solo di insipienza, ma anche di una spudorata menzogna. Una menzogna cinica, irresponsabile, ed infine non meno insidiosamente malvagia della protervia dei bruti subumani che intanto viene messa in scena.

Vi è infine un’altra obiezione che è stata sollevata contro le ragioni per una cancellazione della serie Gomorra. E questa è perfettamente in linea con uno dei fattori normalizzanti il male messi in luce da Hannah Arendt, e cioè la paralisi del giudizio che domina ormai sovrana nella moderna coscienza collettiva. In poche parole il suo motto è questo: – «Chi sei tu per giudicare?», o anche “Chi sono io per giudicare?” (Arendt).

Nel caso specifico si trattava dell’obiezione costantemente rivolta alla pensatrice dagli avversari delle condanne dei criminali nazisti: – “...in ognuno di noi c’è un Eichmann!”.

È dunque esattamente su queste basi che ormai da molto tempo si tende a concedere all’«arte» (e il virgolettato non è casuale!) il diritto e perfino dovere di mettere in scena le peggiori atrocità, perversioni e brutture possibili, senza che intanto alcuna censura possa essere esercitata su di essa. Ebbene l’argomento che il mio conoscente mi opponeva all’abolizione di Gomorra era ispirato proprio a questo: – “Io posso essere d’accordo sulla scarsa qualità del prodotto ma non sulla necessità di abolizione. Vedere o non vedere una serie o qualsiasi altra cosa è una scelta”.

Dunque ne va della libertà, valore che oggi ha sostituito tutti gli altri valori, e quindi è destinato a restare intangibile e indiscutibile nella sua più assoluta integrità possibile. Qui si tratta in particolare della libertà del creatore (l’artista) ed anche di quella dello spettatore. Ed allora, secondo questo modo di vedere (che viene di fatto considerato, chissà perché, assoluto e indiscutibile), tale libertà deve essere e restare totalmente illimitata.

Poco importa se un determinato genere di prodotto artistico possa intanto insidiosamente avere effetti subliminali su chi ne fruisce avendo «scelto» di vederlo (ed in base a quali criteri poi?). E questo vale senz’altro per tutto quello che ho detto finora a proposito della serie Gomorra. Specie quando chi ne fruisce è un individuo (giovane o adulto che sia) il quale in qualunque modo sia psico-spiritualmente fragile, e quindi esposto maggiormente ai possibili effetti negativi dell’influsso.

E si osi dirmi che non esiste oggi nella società (a Napoli come altrove) un’immensa quantità di tali individui! Del resto ciò viene perfettamente provato dalla quantità incalcolabile di «savastani» nei quali ci imbattiamo per le strade di Napoli e del Napoletano.

Comunque di queste così lampanti problematicità della serie Gomorra deve esservi stata ultimamente una certa vaga percezione. Non potrei dire in quale esatta sede ciò sia avvenuto.

Ma in qualche modo deve essere avvenuto nel seno di quel confuso movimento di idee e sentimenti che oggi si manifesta come pro-napoletanismo incondizionato. Ci si deve essere insomma accorti che uno spettacolo come Gomorra inficia buona parte degli assunti di questo movimento. E lo fa proprio mettendo allo scoperto in modo impietoso ed ineludibile la natura negativa della più elementare sostanza partenopea.

E così proprio in questi giorni è stato postato su Facebook da parte di qualcuno un video che invita a tenere presente che Gomorra «parla napoletano» ma «non parla né di Napoli né dei Napoletani». E giù poi con l’intero repertorio delle straordinarie virtù dei napoletani (umanità, cordialità, bontà, simpatia, sincerità etc), che vengono sciorinate mediante la ben nota sviolinatura.

Laddove poi veniva posto in luce proprio che il Napoletano è un essere “teatrale” per definizione, ma intanto nello stesso tempo è la sincerità in persona. Evidentemente si tratta di una lampante e grossolana contraddizione in termini. Perché (come vado dimostrando nei miei articoli) la teatralità del Napoletano serve esattamente lo scopo di tendere agguati ed ingannare, ossia in parole povere serve lo scopo di «fare fessi» gli altri.

Ma, ritornando al nostro discorso sulla diversità esistente tra le narrazioni del male (e con ciò concludendo), in che cosa una narrativa davvero educante (evidenziazione positiva del male, e cioè catartica) si distingue da una narrativa che invece è solo auto-compiaciuta e complice con il male stesso (evidenziazione negativa del male, cioè coinvolgente)?

E per di più lo è in maniera insidiosa, ossia affatto onesta e scoperta.

Ebbene, la prima distinzione da fare è davvero secca. Essa consiste cioè nel fatto che è la narrativa stessa in sé (in quanto dominata dall’estetica e non dall’etica), cioè la piena fiction, ad appartenere alla seconda categoria. Per sua struttura, e quindi quasi per statuto, essa tende infatti ad evocare il godimento in chi ne fruisce. Ergo, quando essa mette in scena il male, può farlo solo e soltanto in maniera negativa. Mai invece in maniera positiva.

Il primo tipo di narrazione, invece, è solo descrittiva, analitica e contemplativa rispetto al fenomeno da mettere allo scoperto, e cioè il male. Essa tende dunque alla sua raffigurazione più precisa possibile, e soprattutto profonda. In modo che del male si possa cogliere l’essenza. Ed in tal modo si possa entrare in contatto nel modo più strenuo possibile con la sua natura specifica, ossia la più radicale negatività.

È evidente che lo scopo di tale operazione è quella di ingenerare un coinvolgimento solo e soltanto nei termini del vero e proprio orrore (e solo l’orrore, senza alcuna edulcorazione estetica!), che poi richiamerà inevitabilmente il giudizio di valore. Il quale a sua volta evocherà poi invariabilmente la condanna senza mezzi termini del fenomeno malefico. Ed a questo punto uno solo sarà il desiderio dell’osservatore: – quello di non vedere mai più il male comparire alla sua presenza.

Ma non solo il male rappresentato spettacolarmente, bensì soprattutto il male reale ed effettivo, quello cioè quotidiano e nativo. Naturalmente però la raffigurazione spettacolare solo negativa di questo male (in quanto compiaciuta e complice) verrà a questo punto riconosciuta finalmente nella sua valenza di fattore notevolmente aggravante il male reale stesso.

E proprio in questo momento si potrà allora toccare con mano quanto sia malignamente falso che per mezzo di questo genere di narrazione possa avvenire una catarsi del male. Al contrario ne avviene un’incalcolabile moltiplicazione su scala esponenziale.

Tutto ciò significa allora che il condannare la serie Gomorra non può in alcun modo essere un’operazione di facciata, e cioè una ripulitura superficiale che tende ad occultare il male pur sapendo che esso continuerà inesorabilmente a sussistere ed operare. L’azione non deve insomma affatto fermarsi all’abrogazione di Gomorra.

L’operazione deve invece essere il primo atto di una coraggiosa e forte presa di posizione (almeno dei migliori tra i Napoletani) che costituisca la precisa e vincolante assunzione di responsabilità dell’operare perché il male venga apertamente combattuto – nella speranza che così esso svanisca dalla realtà così come dallo spettacolo.

Sono perfettamente consapevole del fatto che si tratta di un’utopia. Ma sta di fatto che proprio la provocazione esercitata dalla serie Gomorra rende inevitabile che la necessità che tale utopia venga finalmente allo scoperto e diventi così oggetto della nostra riflessione. Si tratta insomma dell’operazione che io personalmente sto portando avanti con i miei articoli sull’identità negativa di Napoli.

Dunque ciò che è necessario non è affatto appena abrogare, ma è anche e soprattutto riflettere e fare! Il che impone poi strettamente la necessità di una severa auto-critica.

Ma ecco che comunque insorge insopprimibile l’esigenza di far sì che un fenomeno come la serie Gomorra sparisca finalmente dalla circolazione. Esso infatti induce chiaramente pericolosissimi fenomeni di emulazione. Ma inoltre, cosa ancora più grave, esso rivela davanti a tutto il mondo (la serie viene vista in ben 180 paesi) la vergogna costituita da un intero popolo, noi Napoletani.

È la vergogna del lasciar che venga raffigurata la nostra stessa inconfessabile vergogna. E cioè il fatto che entro la nostra stessa carne è potuto nascere e prosperare un simile obbrobrioso ed atroce fiore del male. Ed è esso è cresciuto ed ha prosperato a tal punto da aver raggiunto le proporzioni di un fenomeno così emblematico da prestarsi alla perfezione alla raffigurazione più possente possibile del male davvero assoluto.

Alla pari di Gomorra stanno infatti solo i films girati nei Lager nazisti. E così nemmeno il più cruento film di mafia riesce a raggiungere i suoi livelli. Non a caso ho dovuto personalmente ascoltare in un TG che questa così ”coraggiosa” raffigurazione del male (Gomorra) sta ormai pervenendo al suo culmine proprio nel mostrare sempre più pienamente ed efficacemente  “il male assoluto” (e quindi irrevocabile) che viene incarnato dai suoi personaggi.

È immediatamente evidente che dietro tutto ciò vi è una vergognosa operazione di marketing, più che invece un’operazione filmografica o anche artistica. Lo spirito e l’obiettivo dell’operazione è insomma quello di stravincere nel vendere.

E del resto la serie Gomorra ci riesce benissimo. Ma perché ci riesce? Forse perché costruisce sulla realtà un pleonasmo del negativo (il male), raggiungendo così vertici di sapienza artistica fittiva? No! Semplicemente ci riesce perché trasferisce negli studios televisivi quel pleonasmo del male che già esiste pienamente nella realtà.

Dunque sta proprio qui il punto che fa giustizia di tutte le possibili obiezioni all’abolizione della serie Gomorra. Obiezioni perfettamente riassunte da una delle reazioni che più frequentemente ho visto insorgere in coloro ai quali la petizione veniva proposta: – “Io questa serie non l’ho mai vista!”.

Vuol dire: – «Tutto ciò riguarda solo quella parte della città con la quale io non ho assolutamente a che fare. Perché io soggiorno nell’altra, quelle bella, buona e nobile». Ebbene, ciò assomiglia impressionantemente al “non sapevo” di tanti degli uomini comuni che sono stati chiamati a rispondere del crimine orrendo di aver collaborato con il genocidio nazista. Come ho detto all’inizio di questo articolo, il male è invece ormai macroscopico nel nostro mondo. Sta sotto i nostri occhi in un modo che noi non possiamo non vederlo. E peraltro esiste ancora più tenacemente quando noi chiudiamo gli occhi su di esso (o almeno fingiamo di farlo).

E ciò vale un miliardo di volte in più per Napoli.

E questo ci porta allora all’ultimissima considerazione sulla differenza da mantenere tra le due diverse narrazioni del male esistente a Napoli. La narrazione positiva e catartica, che prima ho cercato di descrivere (e cioè la non-narrazione), si differenzia molto sinteticamente per due caratteri intimamente congiunti: – giudizio e pensiero. L’uno non sussiste infatti senza l’altro.

Ed entrambi sono il prodotto tipico dell’unico ente che a questo mondo possieda la capacità di costituire un vero e proprio soggetto cosciente e conoscente, ossia l’uomo.

Infatti solo l’uomo pensa, e solo l’uomo è dunque capace di emettere giudizi che poi implicano necessariamente il pensare. Giudizi che sono pertanto necessariamente soggettivi e soggettuali, ossia rinviano solo è soltanto al “chi” (Arendt, Jonas)4 li ha emessi. È evidente che (come trionfalmente dichiara il relativismo morale) il male non esiste oggettivamente. È evidente che la Natura è del tutto indifferente dal punto di vista morale (Jonas).5

È evidente quindi che il male non è assolutamente oggettivo, ma invece è solo e soltanto soggettivo. Ma ciò è ben lungi dal dimostrare che esso non esiste. Infatti è sempre solo «per me» («quoad nos») che il mondo può apparire come brutto, ingiusto, malvagio, atroce, ripugnante, orribile; ossia può apparire come un vero e proprio inferno letamaio. E se io, proprio io, lo dico, allora è davvero così. Almeno per me.

Ma quando poi non è così solo per me, ma lo è invece per tutti (come viene dimostrato proprio dalla serie Gomorra), allora l’’esistenza del male è ancora più oggettivamente certa.

Lo è insomma, come ha dimostrato la Fenomenologia di Husserl e di Edith Stein, in maniera “inter-soggettiva” (e peraltro configurando così un mondo di valori spirituali).6

Il che è come dire che lo è nell’unica maniera che può essere «oggettiva» dal punto di vista di un essere auto-cosciente, pensante e senziente. Ed effettivamente a questo mondo non vi è altro che questo punto di vista. Aldilà di esso, infatti, almeno per chi ci crede, vi è soltanto il punto di vista di Dio.

Ecco. Queste sono le ragioni per le quali, a mio modesto avviso, ci dovrebbe venire concesso il diritto di non vedere più la serie Gomorra. Ma non può bastarci che tale diritto ci venga concesso per mezzo del diritto inalienabile a cambiare canale quando essa ci capiti sotto gli occhi. Questo non è affatto sufficiente. Perché se la serie non avvelenerà e pervertirà noi (che siamo capaci di scegliere), allora avvelenerà e pervertirà senz’altro coloro che sono molto meno capaci di scegliere. E lì l’effetto sarà davvero devastante.

Molto ma molto più devastante che presso chi è in grado di scegliere, e quindi di difendersi.

Dunque la serie Gomorra deve semplicemente cessare di esistere! Deve letteralmente sparire dalla circolazione!

E se ne facciano quindi una ragione tutti quelli che l’hanno voluta e creata, e che magari addirittura di essa vivono. Con tutto il rispetto, non si può assolutamente ammettere che ciò avvenga con una simile mostruosità.

 

 

 

Firma la petizione

 

 

 

Note

1 Hannah Arendt, Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino 2010, p. 15-27, 41-126.

2 Hannah Arendt, Responsabilità... cit.,p. 30-32.

3 Friedrich Nietzsche, L’uomo più brutto, in: Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 2006 p.305-310; Léon Bloy, La salvezza dai giudei, Paoline, Milano 1962 XXVIII p. 105-108.

4 Hannah Arendt, Responsabilità... cit.,p. 27-40, IV p. 106-126; Hans Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio di responsabilità, Einaudi, Torino 1997, IV p. 55-65, XII p. 206-221.

5 Hans Jonas, Tecnica ... cit.,II, 1 p. 28-29 IV p. 55-65, V, 2 p. 68-80.

6 Pedro MS Alves, Carlos Aurélio MoruJão (trad), Edmund Husserl, Investigaçõs Lógicas. Segundo Volume, Parte I. Investigação para a Fenomenologia e a Teoria do Conhecimento, Centro de Filosofia da Unviversidade de Lisboa, Lisboa 2007,  Voll. II, I, I, 6-11, 38-51, p. 59-71, I, III, 24-29, 83-101, p. 103-120, I, IV, 30-33, 102-108, p. 121-129; Edith Stein, Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma 1998, Introd., p. 35-52, I, I p. 53- 86, I, II p. 87- 99 ; Edith Stein, Psicologia e scienze dello spirito, Citta Nuova, Roma 1996, I, Introd., p. 39-44, I, 1-2 p. 45-71, I, 5, 2-3 p. 106-118, II, 2, 2 p. 221-240 ; Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, II, I, 3 p. 23-26, V, II, 2 p. 80-91, VII, III, 1-4 p. 103-127.

 

 

 

 

 

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