Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

I tipi antropologici, le professioni e le persone

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Premesse del discorso.

Dovevamo ormai da molto tempo accostarci alle forme vere e proprie della Napoletanità, eppure non l’abbiamo ancora fatto.

Bisognava infatti prima gettare le fondamenta del discorso, ed è quello che ho cercato di fare nei primi quattro articoli dedicati a questo tema.

Solo negli ultimi due sono finalmente giunto ad accostarmi alle forme concrete, ma si trattava comunque ancora solo di quelle narrate. E già in questa sede avevo detto che esistono invece forme vive della Napoletanità, ossia quelle nelle quali noi ci imbattiamo nella vita quotidiana.

Qui noi incontriamo insomma te, lui, quello lì, questo qua, ossia gli uomini concreti. Ed infine senz’altro qui ci imbattiamo anche nell’io stesso in persona – «io» nel senso di tu che mi stai ascoltando (leggendo), ed «io» nel senso di io, proprio io, che ti sto parlando.

Ebbene, è inutile continuare a cercare di nascondere che proprio in questo luogo noi tutti ci troviamo al culmine dell’imbarazzo.

Il discorso critico su Napoli, infatti, cessa di mantenersi sulle generali, descrivendo in tal modo una negatività dalla quale in qualunque momento chi scrive e chi legge può chiamarsi fuori. Esso entra invece ora nel particolare e nel singolare, rendendo così ormai del tutto impossibile a chiunque (a te e a me) di divincolarsi dalla morsa del giudizio in esso emesso.

Ora insomma si fa davvero sul serio. In altre parole, in questa fese del discorso, la metafisica è ormai scesa sul piano terreno e terrestre vero e proprio.

E così ci ritroviamo per davvero tra di noi. È vero, noi stiamo in fondo appena camminando per le strade di una grande città, e comunque guardiamo in faccia dei perfetti sconosciuti; allo stesso modo in cui costoro non sanno nemmeno che noi li stiamo osservando.

 

Ma dobbiamo essere onesti, ed ammettere allora che – siccome ci stiamo ormai muovendo in vivo, e cioè su un piano infine estremamente concreto – il passo è davvero brevissimo dal ritrovarci in una situazione ben più intima. E qui, in quest’ultima situazione, noi ci guarderemo in faccia e ci riconosceremo. Noi insomma, in questa situazione, sappiamo tutti molto bene chi siamo.

E quindi ci interroghiamo ormai angosciosamente sulla possibilità che tu, proprio tu, o lui, proprio lui, possa coincidere perfettamente con il paradigma negativo che intanto stiamo delineando.

È dunque ora davvero fortissima la tentazione di arretrare rispetto agli obblighi che abbiamo imposto a noi stessi affrontando Napoli come una questione metafisica. Una questione metafisica infatti non è né può essere ciò che pretende di essere, se non ha infine una ricaduta effettiva nella realtà fisica. Altrimenti essa resta davvero appena una disputa sul sesso degli angeli.

E quindi, anche se ormai esitiamo, ed anche se ci ripugna profondamente ciò che stiamo per fare, noi dobbiamo comunque andare avanti. E dico «noi» non nel senso di plurale majestatis, ma invece parlando di me stesso (in carne ed ossa) insieme a tutti coloro che forse mi hanno finora voluto accompagnare nel discorso critico su Napoli e sui Napoletani.

È evidente che in questo stiamo insieme perché condividiamo la necessità urgentissima e inderogabile di un giudizio su questi ultimi. E pertanto è evidente che in questo intento noi siamo solo uno sparuto manipolo – di coraggiosi senz’altro, ma forse anche di folli.

Ma non è per nulla un caso che ci siamo ritrovati insieme, e che abbiamo iniziato insieme questo percorso. E quindi non ci resta ormai altro che finire ciò che abbiamo iniziato.

Quindi dobbiamo dire e dirci, come fece Giuseppe Marotta nel lontano 1954: – «Coraggio guardiamo!».

È solo in questo senso, dunque, e tenendo così presente tutti i rischi da ciò comportati, che si può ora spostare il discorso sui "tipi antropologici" effettivi. E tuttavia si tratterà pur sempre appunto solo di «tipi», e non invece di individui unici veri e propri, e cioè persone. Ebbene di queste ultime noi non parleremo. Non ne abbiamo alcun diritto, e quindi ci proibiremo severamente di farlo.

E con ciò avremo allora tracciato una linea divisoria davvero nettissima, un confine insuperabile, tra ciò che in questo discorso si può fare e ciò che invece non si può in alcun modo fare.

Tale linea segna insomma chiaramente il confine tra critica e calunnia. Perché va ammesso che quest’ultima può sussistere solo quando con la propria critica si investa la sfera delle vere e proprie persone.

Ma sta di fatto che non vi è una grande differenza tra persone singolari e persone invece collettive. Il che significa allora che effettivamente la critica a Napoli può assumere il carattere di una calunnia (come sostengono i pro-partenopei d’assalto) – divenendo così sterile, autolesionistico, e quindi anche inaccettabile.

Ciò può però accadere solo quando il discorso critico riguarda Napoli come una vera e propria persona collettiva. Ma questo non può valere assolutamente per un discorso che ha invece come proprio oggetto l’Essenza.

Quest’ultima infatti, per quanto qualitativa, rappresenta sempre appena una sostanza media ed impersonale, ossia una sorta di minimo comun denominatore distillato dalla somma degli individui personali nel senso di fattuali personalità – che essi siano individui in carne ed ossa, gruppi di individui, fenomeni oppure solo eventi.

In altre parole il giudizio su Napoli e sui Napoletani deve arrestarsi aldiquà di questo limite, senza poter più procedere di un solo passo. E solo qui, dunque, il discorso deve fermarsi, per poi intrattenersi con i propri oggetti.

Ed ormai, visto che esso si trova sul piano davvero concreto, potrà farlo davvero in lungo ed in largo, ossia diffondendosi su tutto ciò che è effettivamente possibile osservare scendendo nelle minuzie.

Tuttavia i limiti di questa operazione sono stati ormai chiaramente fissati, ed essi varranno quindi costantemente per tutto ciò che dirò da ora in poi su Napoli e sui Napoletani. Infatti c’è ancora davvero molto da dire.

Ebbene tutto questo significa che, anche se sarò ora costretto ad accostarmi intimamente alle forme della vita quotidiana attuale – ossia quella in cui noi stessi ci stiamo muovendo proprio adesso –, per definizione nessuno di noi, come autentica persona, dovrà sentirsi chiamato in causa. E questo vale ancor più il determinato genere di persone collettive, cioè i tipi professionali, dal quale tra poco inizierò il mio discorso.

Dunque cosa significa questo molto concretamente?

Significa che non è in alcun modo mia intenzione offendere nessuno a livello personale (sia individuale che collettivo) con il giudizio ancora più pressante che in questi casi sarò costretto ad emettere. E questo perché il mio giudizio continua a riferirsi unicamente all’Essenza dei fenomeni.

Del resto le giustificazioni circostanziali per questo le ho già enunciate di fatto più volte. Ho detto infatti che il giudizio su Napoli ed i Napoletani è assolutamente inderogabile. Ed inoltre esso, nell’ambizione di pervenire all’essenza stessa della relativa questione, ha anche l’espressa intenzione di essere spietato (ma a scopo unicamente costruttivo), e quindi di continuare a frugare nell’oscuro armadio degli scheletri finché non una delle cose contenutevi resti nascosta alla luce che deve essere gettata su di essa.

Eppure, come ho appena chiarito, tutto ciò non tocca, non può e non deve toccare, la sfera personale. E proprio per questo il discorso giudicante può e deve essere solo costruttivo, e non invece distruttivo.

Esso infatti punta sì all’essenza negativa dei fenomeni attuali. Intanto però, risparmiando (come ha il dovere di fare) l’essenza positiva – costituita appunto dalle persone nella loro unicità (e cioè l’essenza che sta alla radice dei fenomeni potenziali) –, esso punta anche (o meglio soprattutto) a far sì che si delinei finalmente una del tutto nuova costellazione.

Una costellazione nella quale l’essenza positiva – sottratta finalmente al soffocamento da parte dell’essenza negativa – si faccia generatrice di fenomeni positivi. Si faccia cioè centro motore di un rinnovamento che può essere davvero paragonato ad una vera fioritura.

Ebbene le persone, esattamente le persone e solo le persone, hanno questo potere!

Com’è stato riconosciuto dalla moderna "filosofia dei valori"1 – assuntasi il compito di reagire finalmente alla corrosione distruttiva e disintegrante dei valori stessi, iniziata a partire da molto lontano (forse già dalla filosofia della natura rinascimentale) –, risiede proprio solo nella persona il fulcro di qualunque presa di posizione soggettuale di tipo valutativo.

E solo questa presa di posizione mette capo ad un pensiero davvero assiologico del mondo, ossia quello che configura per davvero un’etica.

A chi dunque, se non alle persone, noi possiamo e dobbiamo chiedere che finalmente si dissolvano per sempre, in questa nostra terra, i motivi per un’analisi dei fondamenti negativi che la determinano; motivi quindi per l’inevitabile giudizio di condanna che ne consegue?

In altre parole ciò che io mi auguro, con questo discorso radicalmente critico sui tipi napoletani, è che presto, molto presto, dispaiano completamente le ragioni per poterlo condurre.

Mi auguro insomma di poter essere totalmente smentito, confutato e perfino sbeffeggiato. E tuttavia ciò sarà davvero possibile unicamente sulla base di effettive evidenze, ossia di evidenze realmente inconfutabili.

È per questo, dunque, che io farò appello alle persone nello stesso esatto momento in cui porrò intanto in evidenza la deteriorità assoluta del tipo che ad esse corrisponde.

Perché la nostra colpa consiste proprio solo in questo, ossia nel lasciare che il tipo corrisponde alla persona, ossia che il generico (più che generale) corrisponda allo straordinariamente singolare. Così singolare da essere appunto "unico", e cioè irripetibile, irreplicabile, irriproducibile.2

La persona è quindi un vero e proprio universo, e proprio in questo essa è straordinariamente concreta. Lo è nel senso che in essa c’è tutto perché assolutamente tutto è ormai determinato, definitivamente esplicato. E, come ci mostrò Leibniz3, la necessità che qui si delinea, rinvia di per sé all’agire di un «dover essere» che punta per definizione verso il Bene, e solo verso il Bene.

Il determinato, insomma – ossia ciò che trova il suo culmine solo nell’universo rappresentato dall’unicum individuale irripetibile –, equivale in via di principio al Bene stesso, e solo ad esso.

Ecco allora che la persona unica ed irripetibile è un universo esattamente perché lo è in quanto sfera dell’etica.

Ebbene, a fronte di tutto ciò, invece il "tipo" non è assolutamente nulla. Ed è un nulla esattamente perché non incarna assolutamente alcun valore – o negandolo apertamente, oppure anche ignorandolo. E proprio per questo, dunque, esso non è concreto ma invece è solo astratto.

Esso è solo una figurina sbiadita, è una mera fotocopia dell’autentico esistente (dietro il quale si indovina sempre intuitivamente la buona Mano Creatrice), è una caricatura, è una truffa per definizione.

Ed è esattamente questo tutto ciò che esso è inequivocabilmente «demoniaco» – come ci ha mostrato proprio Goethe nel Faust. Chissà, allora, se proprio Napoli sia stata per lui la palestra dei pensieri dai quali poi si sarebbe sviluppata quest’opera?

Dunque, nel descrivere i «tipi» napoletani, noi in effetti stiamo mostrando il nulla stesso, il non-essere. E per tutto ciò che ho appena detto, è allora evidente che più in particolare si tratta di una forma molto specifica del "dover-essere", e cioè il "non-dover-essere".

Stiamo insomma mostrando al mondo, ma soprattutto a noi stessi, quella che è appena la deplorevole caricatura di ciò che pure potrebbe e dovrebbe essere, di ciò che avrebbe (ed ha) tutte le ragioni per essere.

Anche a Napoli, anzi direi proprio a Napoli. E forse addirittura solo a Napoli. Sta esattamente qui il nucleo dell’urgenza di porre Napoli come questione metafisica.

Quando infatti si parla di una suprema Necessità, si sta parlando di qualcosa che può essere tale tanto in negativo quanto anche in positivo. In entrambi i casi, cioè, si tratta di medesima illimitata potenza, la quale si manifesta esattamente nella forza con la quale essa determina irrevocabilmente gli eventi.

E quindi per Napoli, come Luogo quintessenziale, può valere più che mai il detto “Hic Rhodos, hic salta!”. Mai più che a Napoli, insomma, il negativo più assoluto (il Male) appare poter esistere solo perché esso possa ribaltarsi totalmente, ossia possa presentarsi come positivo più assoluto (il Bene).

È insomma altamente probabile che Napoli costituisca, quale Luogo del destino, un’entità perdutamente metafisica esattamente perché essa rappresenta il palcoscenico squisitamente tragico sul quale viene messo ogni santo giorno in scena (come in ogni tragedia che si rispetti) quella lotta tra Bene e Male, del cui esito mai si può né si deve essere sicuri. Qui tutto infatti, nonostante il Fato, dipende solo e soltanto da noi.

Ecco allora che, solo ponendo Napoli come una questione metafisica, si potrà intanto davvero porre in luce la sua fondamentale negatività. Ma poi, per converso, solo in questo modo, poi, la negatività così possente che è stata portata alla luce, potrà rovesciarsi davanti ai nostri stessi occhi, richiamando così l’emergere una altrettanto possente positività. Ossia una positività appunto metafisica.

Ecco! Il fatto è che, se il "tipo" negativo rischia di rappresentare noi stessi (tu ed io) come persone, ciò accade perché noi stessi come persone lo consentiamo. E quindi questa è davvero l’unica colpa imputabile alla persona stessa in una realtà com’è quella di Napoli.

Ma proprio per tale motivo dovrà essere a tutti i lettori estremamente chiaro che, nel descrivere i tipi in modo radicalmente negativo, io faccio l’esatto contrario che deplorare le persone specifiche che vi rientrano.

Io, insomma, non sto invece facendo altro che sforzarmi di aiutare le persone specifiche a sforzarsi a loro volta (ed in modo davvero strenuo) per non rientrare più nei "tipi". E non credo sia difficile riconoscere che, una volta dilatato il nostro sguardo anche ben oltre i così asfittici limiti dei tipi stessi, noi potremo proprio in tal modo assistere all’innescarsi di un vero processo virtuoso.

Il quale (sfruttando l’azione di un vero e proprio volano moltiplicatore) sempre più cresca su sé stesso in altezza e larghezza in una progressione iperbolica ed in positivo. Giungendo così fino agli estremi confini del campo che stiamo osservando. Ed è evidente che si tratta di un processo di trasfigurazione, ossia di cambiamento, e precisamente in bene.

Mi sembra che sia esattamente questo ciò che sta alla portata delle persone in una realtà com’è quella di Napoli. E si badi bene però che, dato che (come ho detto) con le persone stiamo parlando di essenze positive profonde, noi non staremo quindi affatto parlando di un cambiamento (ossia di un vero e proprio rinnovamento) nel senso negativo della perdita della nostra identità, e quindi del nostro intero passato.

Noi stiamo invece parlando in un cambiamento solo e soltanto, appunto, nel senso della trasfigurazione. E quest’ultima è ciò che fa svanire il peggio perché emerga finalmente il meglio. Un "meglio" che pertanto non è progressivo, ma è invece semmai statico. Esso non è altro che quanto da sempre già c’era ma non poteva venire alla luce.

Appare evidente, insomma, che in tal modo noi assisteremmo al totale ribaltamento di quella costatazione totalmente negativa dalla quale (nel primo articolo) noi siamo partiti; e cioè quella secondo la quale Napoli non sarebbe più ciò che è, se smettesse di restare intimamente legata a quella sua identità negativa, che per definizione mai cambia (specialmente perché non vuole assolutamente cambiare). 

Nel caso di una trasfigurazione, infatti, tutto cambierebbe nel mentre però tutto intanto resterebbe perfettamente uguale a sé stesso. E ciò corrisponde pertanto perfettamente al così grande valore che a Napoli ha l’identità. Questa volta però solo in positivo.

E mi vedo costretto qui peraltro a ricordare – ancora una volta in risonanza perfetta con quell’eredità ellenica che effettivamente ci caratterizza come razza (ma in positivo e davvero seriamente, e non invece in maniera ipocritamente retorica ed inoltre crassamente ignorante)4 – che per Platone l’"identità" delle cose con sé stesse rappresentava uno dei più assoluti valori ontologici.5

È quindi con queste premesse che – certo di non stare "offendendo" nessuno, ma di stare invece solo facendo appello a quella benefica catarsi che esattamente la tragedia greca (ancora una volta nostro patrimonio culturale per razza) ci ha mostrato possibile solo se guardiamo dritto in faccia ai nostri mali ed alle nostre colpe (personali e quindi poi anche fatalmente collettive, ossia tipologiche) – posso finalmente accingermi ad entrare nel vivo della descrizione delle forme concrete e vive. Ed inizierò con quella tipologia antropologica che non a caso (come anche le altre che descriverò) è anche professionale, ossia quella dell’avvocato.

Essa esprime infatti in maniera pienissima la specifica determinazione ad essere qualitativa che è propria del Napoletano, ossia la teatralità nella forma speciale della retorica.

È ampiamente noto, infatti, il fatto che i Napoletani sono in questo maestri e forse perfino anche esempi per tutto il mondo. Ed è evidente che anche tale fenomeno riposa sui fondamenti greci della nostra identità insieme razziale e culturale.

La retorica è stata infatti indubbiamente uno dei prodotti più tipici della cultura ellenica.

Ma di tutto questo parleremo nel prossimo articolo.

 

Note

1 Della quale qui menzioniamo solo alcuni esponenti [Max Scheler, Der Formalismus in der Ethik, Elibron Classics 2007, I, I-III p. 1-161; Carl Schmitt, La tirannia dei valori, Adelphi, Milano 2008, I-VI p. 17-42; Edith Stein, Psicologia e scienze dello spirito, Citta Nuova, Roma 1996, I, 5, 2-3 p. 106-118, II, 2, 2 p. 221-240; Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, II, I, 3 p. 23-26, V, II, 2 p. 80-91].

2 Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, VII, 9-11 p. 360-396.

3 Gottfried W. von Leibniz, Discorso preliminare sulla conformità della fede con la ragione, in: Gottfried W. von Leibniz, Saggi di Teodicea, Fabbri, Milano 1996, 1-4 p. 69-72; Gottfried Wilhelm von Leibniz, Monadologia, Bompiani, Milano 2001, II, 7-15 p. 47-53.

4 Si tratta di quella retorica tipica del pro-napoletanismo incondizionato, secondo la quale il valore positivo di Napoli e dei Napoletani sarebbe assolutamente indiscutibile per il semplice fatto che «...noi siamo gli eredi della Magna Grecia».

5 Platone, Teeteto, Feltrinelli, Milano 2009, 159d p. 81, 177e p. 133, 181c-186e p. 145-157, 189a-190a p. 167-171, 193d p. 185, 202a p. 207, 206e-207c p. 223, 207a p. 233; Platone, Cratilo, Laterza, Roma Bari 2008, 385c-386d p. 7-11; Platone, Lettere, Rizzoli, Milano 2008, 324-352 p. 133-224

 

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