Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

La sostanza di Napoli

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Nel precedente articolo, Napoli come problema metafisico, mi sono chiesto «com’è?» Napoli. E sono così anche approdato ad una possibile risposta. Tale risposta mi ha poi permesso di mettere in luce quale sia il tipo più appropriato di discorso per poter illustrare questo «com’è?».

Abbiamo visto che si tratta del discorso metafisico, ed il tal modo abbiamo anche reso disponibile un possibile nuovo metodo di indagine circa la realtà napoletana. Tuttavia la risposta circa il «com’è?» implica inevitabilmente che in essa inizia a delinearsi anche il «cos’è?». E ciò è quello che è effettivamente accaduto nel precedente articolo, con l’emergere sia dell’essenza che della sostanza di Napoli.

Naturalmente (in termini rigorosamente filosofici) è in primo luogo l’essenza ciò che ci informa sul «cos’è?» di una cosa. In essa infatti risiede, straordinariamente concentrato, tutto il possibile dell’essere; ma in uno spazio del tutto impercettibile, interiore ed invisibile. Ed è solo da lì, dunque – come accade probabilmente anche nell’Universo –, che davvero tutto può incessantemente sprigionare irradiandosi.

Vi è comunque in filosofia una fondamentale e radicale disparità di vedute tra chi riassume «tutto-l’essere» nell’essenza (platonismo), e chi invece lo riassume nella sostanza (aristotelismo). E la differenza è davvero rilevante; in quanto i primi vedono l’essere più autentico nell’interiorità (a-spazialità), mentre i secondi lo vedono invece nell’esteriorità (spazialità). Dunque per i primi conta solo la Possibilità (ideale), mentre per i secondi conta solo la Realtà (concreta).

 

Ebbene, proprio il caso «Napoli» (una volta affrontato in maniera metafisica) sembra comprovare molto più la prima tesi (platonica) che non invece la seconda.

Come abbiamo chiarito, infatti, mai più che a Napoli ciò che si lascia vedere e toccare riconosce una ragione profonda, occulta ed in gran parte anche costantemente inesplicabile. Sta insomma proprio lì, nella profondità, quell’essenza, la cui manifestazione esteriore (la sostanza) resta con essa perfettamente coerente – e ciò soprattutto in termini di qualità di essere, ossia nei termini dello spirito profondo della costituzione.

Ecco che la sostanza è perfetta traduzione (sul piano dell’estensione) di quell’essere concentrato e sottile (essenza) che risiede intanto solo nelle oscurità del profondo. La metafisica religiosa orientale ha sempre conosciuto bene tutto questo nella dottrina del jīvātma (l’anima recondita delle cose).(1)

In ogni caso possiamo ora riconoscere che, nell’indagare il «com’è?», noi portiamo di certo alla luce il metodo (tipo di discorso) che può davvero condurci di fronte al «cos’è?».

Ma tale indagine, dandoci ragione pure del perché profondo delle cose nella loro forma esteriore (lo specifico «come» l’essenza si manifesta), ci condurrà inevitabilmente anche al cospetto del «cos’è?», ossia dell’essenza stessa.

L’indagine, dunque, non ci informerà solo sul perché delle forme delle cose manifeste, ma anche sul «che cosa» esse esattamente rivelano. E qui avremo davanti a noi l’identità stessa nella sua radice nucleare, ormai però portata allo scoperto. In termini biologici si potrebbe vedere in questo la relazione esistente tra il genoma (genotipo) e la sua completa espressione in strutture funzionali cellulari (fenotipo).

L’ultima cosa che va ancora chiarita prima di procedere, è però che, se l’essenza è profondissima, la sostanza resta essa stessa ancora in qualche modo profonda. Essa, cioè, è ormai lontana dalla vera profondità, ma sta comunque ancora immediatamente al di sotto dell’esteriorità (e ne segue così anche l’estensione nella sua totalità).

Tuttavia non è ancora del tutto emersa. La sua emersione avviene invece solo nelle forme concrete, e quindi incarnate, che la manifestano, ossia nei «tipi».

Orbene, il lettore più attento avrà già intuito a cosa io alluda con questo discorso rispetto al caso specifico di «Napoli». Ma per il momento mi limiterò a dire che abbiamo in tal modo riconosciuto una fondamentale dinamica di relazione continua tra il profondo (interiore) ed il superficiale (esteriore). E questo può ben costituire il filo conduttore sul quale muoversi nell’indagine che andremo ora a fare.

Indagine il cui scopo sarà quello di dare un volto compiuto alla sostanza di Napoli, ovvero al «cos’è?» di Napoli nella sua manifestazione esteriore.

Il primo passo di tale indagine non può quindi essere altro che un invito a guardarsi intorno per vedere quello che effettivamente c’è da vedere. Ma, per tutto quello che ho finora chiarito, è evidente che, noi napoletani in particolare, nel nostro guardarci intorno ci guarderemo intanto inevitabilmente anche dentro.

Noi dovremo così scoprire la nostra stessa identità, ossia ciò che nel profondo tutti ci accomuna. E questo è davvero di capitale importanza. Perché la sagoma personale che ben presto vedremo così emergere (come incarnazione della sostanza) è di certo ben caratterizzata antropologicamente e sociologicamente, ma in effetti (nella propria essenza) non si limita affatto a questo.

Essa cioè non riguarda affatto solo il tipo antropologico-sociologico così identificato, ma semmai fa di esso il «prototipo» personale di una realtà trasversale che in effetti tutto abbraccia. Inclusi noi stessi, che intanto tutto osserviamo e giudichiamo.

Dunque tutti noi napoletani, nel profondo (nella nostra sostanza), siamo proprio quel genere di prototipo.

Infine, poi, bisogna anche far notare che quest’evidenza esteriore, di cui sto ora parlando, sta sì di certo sotto i nostri occhi, ma lo è per noi in maniera tutt’altro che scontata. Noi, infatti, vediamo sì dei tipi, ma non sappiamo (o meglio facciamo finta di non sapere) che essi sono paradigmatici; e quindi non sono invece appena fortuiti e arbitrari.

Essi, insomma, non sono affatto appena aspetti di un qualsiasi costume e colore locale; che riconosce di certo le sue precise determinanti, ma che, nel luogo specifico (Napoli) avrebbero magari anche potuto avere forme e determinanti completamente diverse. Non è invece affatto così.

Ed allora, se ci si limita solo a questo, si ricadrà fatalmente in quelle indagini sociologiche, le quali, anche quando tengono debitamente conto dell’antropologia, ne trascurano però comunque il vero e profondo significato. Si tratta così magari di attentissime, coltissime e documentatissime indagini di tipo sostanzialmente storico. Ma non si tratta invece in alcun modo di indagini davvero metafisiche. Solo queste ultime, infatti, puntano alla profondità e solo alla profondità.

Ebbene, il significato dell’antropologia in questa città è nei fatti uno ed uno solo. Esso, cioè, esprime in maniera pienissima il fatto che «Napoli è così com’è e non può essere diversa!».

Ecco! Una volta che noi saremo divenuti finalmente consapevoli di star guardando non solo fuori ma anche in noi stessi, una volta che noi avremo riconosciuto un prototipo nei tipi così constatati, ed una volta che ci saremo arresi al vero significato antropologico di tale tipologia prototipica –, noi avremo davanti ai nostri occhi in un sol colpo noi stessi e Napoli.

Noi vedremo insomma con i nostri stessi occhi la nostra identità come quella di Napoli stessa. E così finalmente potremo guardare (effettivamente e pienamente) al prototipo antropologico, come al tipo personale che più pregnantemente incarna tutto questo.

Ed ecco che in tal modo, ancora una volta, noi avremo davanti a noi null’altro che l’Eterno Lazzaro. Questa volta però davvero in persona. Da ora in poi, dunque, per tutto quello che ho appena detto, noi potremo chiamarlo più propriamente il Gran Lazzaro.

Ebbene, questo, esattamente questo, siamo tutti noi nella profondità della nostra identità. Che ci piaccia o no, e senza alcuna eccezione. Io stesso ovviamente incluso, e più ancora che gli altri. In questo senso, quindi, l’estrema autenticità dell’indagine su Napoli, comporta (fatalmente ma imprescindibilmente) una sorta di vero e proprio «pentimento» per il fatto di essere napoletani (ossia connatalmente fatti di sostanza napoletana).(2)

Ed è del tutto ovvio che ciò non può essere che sgradevole per noi tutti! Stanno secondo me proprio in questo le ragioni di quell’amore-odio per Napoli, che però in verità contraddistingue solo il Napoletano davvero auto-consapevole, e quindi onesto verso sé stesso e verso la verità. Ebbene l’apparente stranezza di questo necessario pentimento scompare però del tutto se – allorquando riusciamo ad essere davvero onesti fino in fondo con la nostra natura collettiva di popolo (o forse «razza»?) – noi ammettiamo che il Camorrista (emblema negativo di Napoli in pieno) non è ciò che è in quanto prodotto di circostanze qualsiasi. E non è ciò che è solo in quanto commette un determinato genere di atti.

No affatto! Egli è invece ciò che è esattamente perché esprime nel modo più pregnante possibile l’essenza negativa che mina dall’interno l’identità partenopea. In altre parole lui ed il Gran Lazzaro sono la stessa identica persona.

Ma, siccome tale identità è nello stesso tempo anche impersonale – coincidendo con quella di Napoli stessa come città e come terra (ossia come cosa del mondo, ossia pura oggettualità) –, è già con ciò evidente che essa riconosce una precisa dimensione e radice tellurica. Essa si identifica insomma totalmente proprio con la specifica natura tellurica del luogo.

Ecco che allora l’identità del Gran Lazzaro, ossia di tutti noi – ossia la sua profonda sostanza materiale – è di fatto sulfurea e vulcanica. Si tratta esattamente di quanto Goethe – in una di quelle intuizioni fulminanti che ne caratterizzarono lo spirito – colse nel carattere napoletano. (3)

Ed è chiaro allora che, se è vero egli si espresse verso i napoletani anche con parole di fervida ammirazione, l’intuizione appena menzionata colse però comunque un tratto di fondo ben più rilevante; e che è chiaramente molto negativo.

Questo è insomma qualcosa che reca in sé (silente e dormiente) una cattiveria e distruttività davvero senza limiti; e che (ci piaccia o no) ci riguarda intimamente in maniera ineluttabile. Ed è infatti esattamente questo il carattere che a Napoli è puntualmente venuto allo scoperto nei momenti in cui la Natura ha avuto davvero la possibilità di prendere il sopravvento sulla Cultura.

È quanto avveniva nei ricorrenti “arricchimente ‘è Napule” (nei quali in qualche modo rientra anche la stessa rivolta di Masaniello). È quanto è avvenuto nel corso degli eventi descritti da Malaparte (in La pelle). È quanto è avvenuto, antecedentemente, negli aspetti più raccapriccianti che caratterizzarono la prima camorra (vedi caratteri chiaramente sadici come quello di Al Capone), e poi caratterizzarono i costumi della NCO (quell’“’o animale”, al secolo Pasquale Barra, che usava mangiare il cuore delle sue vittime).

Ed infine è quanto è successivamente avvenuto nella serie di eventi rientranti nell’attualissimo e raccapricciante paradigma criminale descritto da Saviano in Gomorra.  

È dunque proprio per questa serie di motivi che io, nel mio scritto su Napoli commentato nell’articolo precedente – e seguendo così il filo dell’intuizione goethiana –, sentii la necessità di definire essenzialmente i napoletani come “i Figli del Vulcano”. Propria questa è a mio avviso la nostra identità profonda, ossia (personologicamente ed antropologicamente) quella del Gran Lazzaro. La sociologia storiografica dei tipi è pertanto invece appena un corollario di questa tesi. Essa è pertanto superficiale per definizione.

Sta di fatto però che, se noi a Napoli ci giriamo intorno, non vediamo affatto tutto questo. Ossia noi non vediamo affatto la pienezza del fenomeno. Che non a caso viene occultata dalla stessa scaltra sapienza dello Spirito del Luogo (il Vulcano stesso quale autentico oscuro Signore e Padrone degli uomini, delle cose, e degli eventi) sotto quella serie di pittoresche, graziose e simpatiche apparenze che poi hanno fatto il “mito” stesso di Napoli (così come individuato da La Capria).

Apparenze che poi naturalmente rappresentano anche ciò a cui sono disposti ciecamente ed unilateralmente a credere – con un’ingenuità stupefacente, che però (in linea con il paradigma profondo) non può essere che anche pelosa – i sostenitori della pro-napoletanità incondizionata. Il mito di Napoli assume quindi presso di essi la forma del napoletano come popolo “unico al mondo” per la sua incondizionata ed indiscutibile positività.

Abbiamo però appena visto tutto il non poco che in verità si nasconde dietro tutto questo. E la natura degli eventi storici che ho poc’anzi menzionato dimostra che le cose stanno effettivamente così.

Inevitabile è allora che la cifra stessa dell’occultamento delle forme effettive sotto quelle apparenti sia esattamente quanto di più gradevole, simpatico e seducente ci possa essere al mondo, ossia «il riso». È proprio il riso, infatti, l’elemento che più globalmente caratterizza il prototipo del napoletano. Tutti noi, infatti, invariabilmente ridiamo.

Anzi si può dire che proprio non sappiamo fare a meno di ridere. E così, come vedremo più avanti, è inevitabile che una delle più tipiche maschere teatrali di Napoli (il semi-dandy auto-soddisfatto) non conosca altra espressione che l’immarcescibile riso. Egli è insomma una vera e propria maschera greca – il «prosopon» quale «persona» nella sua più negativa accezione.

Si tratta però di un riso che non fa davvero molti sforzi per nascondere il precisissimo rovescio negativo della medaglia che ad esso corrisponde, ossia «lo scherno», e cioè l’irrisione. Non a caso sappiamo tutti (ed alcuni perfino se ne vantano) che tratto caratteriale tipico dei napoletani è proprio l’essere capaci di scherzare su tutto, o meglio il sapersi prendere gioco di tutto e di tutti.

Ed è evidente che qui è insita una certa intenzione maligna. Lo scherno infatti mira – sebbene nel contesto di un codice teatrale che di fatto attenua sempre l’impatto dei sentimenti reali – alla messa in ridicolo dell’avversario, alla sua espulsione dalla scena (lo «scornamento»), insomma al suo annientamento. E credo che nulla esprima meglio tutto questo – ossia la sostanziale malignità del riso dei napoletani – come lo fa il famoso motto affisso da Scarpetta sulla bella casa che si fece costruire nel migliore Vomero (all’angolo tra via Sanfelice e via Palizzi): – “Qui rido io!”.

Del motto si possono dare naturalmente anche ben altre letture. Ma quella più emblematica sta per me nel fatto che essa ci vuole dire che, quando qualcuno ride, c’è invariabilmente anche qualcuno che piange. Ed il trionfo, evidente nell’affermazione di Scarpetta, consiste pertanto nella soddisfazione per l’essere finalmente passato non tanto dal riso forzoso, faticoso e professionale (del povero comico) alla serietà, ma invece per l’essere finalmente passato dalla parte di coloro che, ridendo, possono bearsi del fatto che altri intanto pagheranno con il pianto questo privilegio del ridente.

Siamo in altre parole di fronte ad una delle convinzioni che esprimono più pregnantemente l’atteggiamento del napoletano verso i propri simili, e cioè quello che in pectore divide sempre gli uomini tra «dritti» e «fessi». Laddove ovviamente i primi sono i vincenti, mentre i secondi sono i perdenti. E lo sono entrambi per nascita, ossia per natura.

Ecco che allora il riso napoletano si rivela essere null’altro che la scaltrezza maligna di un essere di fatto demoniaco; ossia quella scaltrezza che gode sadicamente del dominio, e quindi, inevitabilmente, gode dei mali degli altri.

Ma che tutto ciò riguarda tutti noi in maniera davvero maledettamente personale (io stesso ovviamente incluso!), ci viene a questo punto dimostrato dal fatto che non vi è uno solo di noi, che – di fronte alle leggi dedotte dalle evidenze appena mostrate – sia davvero disposto a giungere alle conseguenze estreme alle quali io sono or ora giunto.

Tutti noi, infatti, reagiremo a tutto questo inarcando un sopracciglio con una certa perplessità non priva di imbarazzo. Nel mentre sul nostro viso appariranno i tratti di un disagio, che però si trattiene a fatica sui limiti di qualcosa. E di cosa? Appunto della tradizionale irrisione. Il messaggio è dunque in sintesi questo: – «Non esageriamo troppo nel prendere atto del carattere negativo del napoletano. Perché chi lo fa è in verità solo un fesso!».

Ecco allora che gli effetti della congiura dello scaltro e maligno silenzio occultante (congiura iniziata, promossa ed imposta dall’oscuro Signore del luogo) si rendono in tal modo del tutto evidenti. Ciò che con essa viene infatti sapientemente tenuto nascosto è l’infamia stessa di fondo che caratterizza per davvero l’identità autentica del Gran Lazzaro.

La sua è insomma una vera e propria infame cialtroneria; e che non solo è venata di proterva ferocia, ma ne è anche impregnata fino alle midolla; e quindi di fatto ne è nutrita dal profondo.

Bene! A questo punto, dopo aver affrontato le asperità di un’indagine metafisica, siamo ormai approdati decisamente sul terreno ben più piano delle forme esteriori. Ci resta però ancora da indagare alcune ultime premesse di queste ultime; dovendoci così pertanto ancora trattenere in luoghi un po’ più elevati. Ma ormai il cammino è già in discesa.

E così, nel prossimo articolo, potremo porci di fronte alle descrizioni effettive del Gran Lazzaro (quale prototipo dell’identità napoletana profonda), così come esse possono essere ritrovate in un’abbondantissima letteratura.

Intanto dovrò dire però appunto ancora qualcosa delle forme specifiche nelle quali si traduce la profonda tendenza del napoletano al maligno scherno irrisorio.

Ebbene tali forme sono così ampiamente diffuse, che con esse si può ben descrivere la stessa nostra vita collettiva e civile nella sua esaustiva totalità. Direi, dunque, che fondamentalmente tre sono i caratteri partenopei tipici che si pongono perfettamente in linea con la tendenza allo scherno irrisorio. E tra poco li descriverò. Ora, è evidente che insieme essi manifestano nella sua globalità l’intera vita e costume della città di Napoli. Va però qui doverosamente precisato che in tal modo stiamo prendendo atto appena di un carattere medio. E, se la medietà esprime una tendenza davvero generale che esiste innegabilmente (e che quindi sarebbe colpevole ignorare), tuttavia è altrettanto chiaro che essa tocca (per definizione) sempre solo parzialmente i singoli individui.

E tale parzialità non è solo quantitativa (ossia spazio-temporale), ma è anche qualitativa.

Accadrà dunque che vi saranno alcuni individui che esprimeranno effettivamente l’identità negativa – più o meno spesso ed in un numero minore o maggiore di luoghi (e circostanze) –, ed altri individui che invece non lo faranno praticamente mai. Questi ultimi, insomma, sono evidentemente individui costituiti «qualitativamente» in una maniera che non permette in alcun modo all’identità locale (determinata dalla nascita fisica in un luogo) di toccare l’essenza della loro identità strettamente personale.

Proprio la sostanza di tali individui diverge dunque (effettivamente e molto) dalla sostanza collettiva. E Dio mi guardi dal dire che io personalmente non ne abbia conosciuto e ne conosca a Napoli moltissimi. Anzi direi proprio che essi costituiscono una sorta quasi di maggioranza silenziosa (sebbene più qualitativa che non quantitativa), che però molto raramente viene allo scoperto.

E che peraltro rappresenta forse l’anima positiva, sul cui quotidiano sforzo eroico ed abnegato di resistenza (e indomita speranza) si basa il perdurare stesso della vita di questa città e terra. Insomma, se essi non ci fossero, Napoli avrebbe forse già da tempo dovuta soccombere alla così grande negatività che la mina dall’interno.

Pertanto, se l’ottimismo dei pro-partenopei ad oltranza volesse essere davvero onesto, lucido e coerente, esso dovrebbe ammettere che coloro che ho appena descritto (per quanto non pochi) rappresentano un’identità specifica che è un’eccezione, e non invece una regola. Proprio per questo essa è solo e soltanto un’identità qualitativa.

Ma ritorniamo ora ai tre caratteri tipici che manifestano nei fatti l’identità partenopea negativa.

Il primo carattere è propriamente quello dell'irrisione nella sua forma più concreta e tangibile.

Direi che il suo aspetto specifico è quello che si potrebbe definire come quell’«ammiccamento» che costantemente caratterizza ogni genere di comunicazione e discorso dei napoletani. Non si tratta però solo del gesto stesso dell’ammiccare in sè, bensì molto più di una sua forma ben più sottile, ambigua e volutamente sfuggente.

Essa infatti, nell’ammiccare, perennemente «rinvia» ad uno strato di essere sottostante al discorso, entro il quale sono contenuti fatti ed atti che la morale e la decenza locali impongono di mantenere accuratamente nascosti. Il rinvio, quindi, non fa altro che rendere presente momentaneamente (senza però mai sollevare il velo su di esso) questo strato, ossia l’insieme di fatti ed atti negativi ed inconfessabili dei quali tutti sono però consapevoli.

Si tratta dunque di un insieme di cose circa la cui natura radicalmente negativa nessuno si fa la minima illusione. Eccoci allora di fronte ad una delle forme con le quali i napoletani – in quella maniera criptica, che è propria di una vera e propria setta esoterica – svelano e nascondono costantemente, inter eos, quella negatività di fondo del proprio stesso essere che però intanto ignorare sarebbe altamente colpevole.

Non a caso l’ammiccamento allusivo contiene in sé molto del divertito e compiaciuto. Esso si pone insomma come una vera e propria fiera e compiaciuta esibizione di sottile quanto cinica sapienza.

È insomma la famosa mitica «intelligenza dei napoletani»; la quale è però nei fatti in verità null’altro che una maligna e malevola scaltrezza, che chiude volontariamente gli occhi (e soprattutto le finestre della coscienza e dell’anima) sull’amplissima devastazione da essa causata o almeno incoraggiata in quanto tollerata. È pertanto evidente che chi non possiede questa scaltrezza malevolmente e scientemente occultante – quella che consente di affermare bugie di sana pianta, senza il minimo scrupolo, ed anzi con convinzione e fierezza (come accade appunto entro la retorica pro-partenopea incondizionata) –, rientra inevitabilmente nella spregevolissima categoria dei «fessi».

E, siccome la numerosità di questo gruppo viene a Napoli severamente controllata e sorvegliata (nel suo possibile troppo pericoloso crescere) – e ciò più ancora della coagulazione sangue di San Gennaro – (come secondo il famoso motto “’cca nisciuno è fesso!”), allora è evidente che l’essere preso in flagrante come «fesso» comporta inevitabilmente l’anatema più totale (da parte dello Spirito del Luogo) nei confronti del malcapitato. È esattamente quello che accade nel contesto dell’accusa di «autolesionismo» che la retorica pro-partenopea d’assalto commina al napoletano auto-critico.

L’accusa è gravissima, e cioè è di fatto quella di altro tradimento – ossia la rivelazione urbi et orbi dell’infamante mistero metafisico di Napoli, che intanto così gelosamente viene custodito dai suoi Adepti e Sacerdoti. Nulla può infrangere di più il principio del “’cca nisciuno è fesso!”. E nulla, quindi, può essere così infamantemente colpevole. La così sapiente congiura del silenzio viene infatti così fatta saltare.

Ed in tal modo Napoli si rivela a tutti non solo così come veramente essa è, ma soprattutto come a tutti i costi essa vuole essere (senza però mai ammetterlo). È evidente che tale così ostinata determinazione ad essere può essere solo il segno del costante permanere di tutti i napoletani sotto la forza del potente incanto prodotto dal loro oscuro Signore, ossia lo stesso sulfureo-vulcanico Spirito del Luogo. Ecco di nuovo, insomma, lo Spirito maligno del Vulcano, ossia il Vulcano quale entità spirituale demonica.

Pertanto, la pena per un così orribile crimine non può essere altro che quella della cacciata da Napoli, e quindi dell’esilio. È esattamente quello che mi è stato testualmente paventato nel corso di uno dei miei battibecchi con i neo-borbonici: – “Tu non sei degno di essere napoletano!”.

In ogni caso comunque, volendo sintetizzare su questo primo carattere, diremmo che esso incarna esattamente l’imperativo categorico, a Napoli dominante, che (tra l’altro) impone di non prendere in alcun modo sul serio qualunque forma di negatività dell’essere, ed in particolare quella che è tale in quanto immorale.  È infatti proprio l’indignato stupore di alcuni per l’immoralità così facilmente ammessa da tutti, ciò che nell’immaginario amorale collettivo caratterizza il «fesso».

A tutto questo, dunque, non si può dare altro nome che malefico e malevolo «cinismo».

In ogni caso io direi che è proprio all’essenza di questo specifico primo carattere che si ricollega una delle forme più propriamente tipologiche con le quale l’identità del Napoletano si manifesta. Si tratta di quella sorta di semi-dandy ruspante che circola per le nostre strade praticamente dappertutto. Egli è quindi di fatto la versione alla buona e totalmente self-made – più ostentata che non reale – di quel dandy effettivo (serio, anche nel riso, e davvero borioso) che si ritrova invece solo nelle zone più prestigiose e ricche della città. Sebbene nemmeno quest’ultimo si sottragga affatto allo stesso identico prototipo al quale obbedisce anche l’altro.

Ebbene questo genere di tipo umano è l’auto-soddisfatto per definizione e per decreto. E quindi egli se ne va in giro sempre impettito, azzimato, abbronzato, saccente e sornione. Ma soprattutto egli ride. Ride sempre e comunque. Non manca mai di ridere, e così non lo cogli mai in fallo. In altre parole è un essere umano che (a quanto vuole far vedere) non conosce mai né delusione né tristezza né fatica né sfortuna né sconfitta.

È insomma il vincente per definizione – almeno sulla carta delle apparenze. Insomma egli è ciò che un’amica tedesca una volta definì (in un suo divertito bozzetto napoletano destinato ai suoi connazionali) come il “Selbstdarsteller”, ossia l’“auto-esibizionista”. Ma soprattutto egli è colui che più convintamente è «felice-di-esser-napoletano».

Dunque si sente dandy proprio perché è «napoletano», e si sente «napoletano» purosangue proprio perché la sua natura è quella del dandy. Vedremo poi che a questo tipo si lasciano assimilare anche i diversi altri tipi che possono essere contemplati girando per le nostre strade. In ogni caso, comunque, con questa tipologia è evidente l’enorme rischio del più totale ridicolo, al quale ci espone la rinuncia volontaria all’auto-critica, e quindi l’essere disposti a credere troppo esageratamente nel valore incondizionato della sostanza che ci caratterizza.

Il secondo carattere napoletano-negativo non può non stare in perfetta linea con il primo. Si tratta infatti della competizione continua ed aggressiva che esiste tra le persone; e non solo per assicurarsi il numero maggiore e la qualità più elevata di privilegi, ma ancor più per ostentarli in modo più o meno plateale.

Andando ancor più alla sostanza elementare di tale comportamento, si può e deve parlare di una vera e propria «competizione per lo spazio»; ossia la tendenza ossessiva del napoletano ad occupare quello spazio, che altrimenti sarebbe stato occupato dall’altro.

È dunque con vero fiero e soddisfatto trionfo, che egli si installerà in tale spazio, ormai da padrone assoluto, e difendendone ringhiosamente i confini con le unghie e con i denti. Ossia proprio come se fin dalle origini stesse del mondo quello spazio fosse appartenuto solo a chi l’ha invece appena conquistato sgraffignandolo all’altro.

Non vi è alcun bisogno di descrivere le così tante e varie forme nelle quali ciò si manifesta ogni santo giorno nella nostra città. Ma soprattutto non vi è alcun bisogno di dire che ciò riflette in maniera perfetta la ben nota tendenza del Lazzaro al ladrocinio, allo sgraffignamento ed all’espropriazione violenta di beni. Il famoso “arricchimento ‘è Napule” è in effetti nella sua sostanza proprio questo. E nemmeno vi è bisogno di dire che ciò è evidentemente null’altro che proterva cattiveria, o meglio, più precisamente, ordinaria malvagità.

Le cose appaiono però ancora più gravi se si constata poi che tale comportamento non compare mai scisso da quella giovialità bonaria, e perfino generosa, con la quale ostinatamente il napoletano (proprio in tali circostanze) ama presentare sé stesso. Non a caso, infatti, egli farà di tutto per rendere furtivo il suo atto violento, ossia cercherà di commettere il crimine di espropriazione senza che un solo gesto o muscolo del suo viso tradisca la brama violenta e cattiva che nel farlo lo anima da dentro.

Ed eccoci di nuovo di fronte a quella teatralità di fondo della quotidiana vita partenopea, che può essere solo all’apparenza giudicata saggia, raffinata e graziosa. Essa è invece nella sua nascosta sostanza (essenza) null’altro che criminale e malefica dissimulazione.

Il terzo carattere napoletano-negativo (anch’esso in perfetta linea con i due precedenti) è poi quello dell’assoluto e tenacissimo individualismo del Napoletano medio. Essere umano che è assolutamente incapace di qualunque forma di solidarietà, che non sia solo sentimentalistica e di facciata; ossia quella forma di solidarietà caratterizzata dall'aperto coraggio civile e dalla propensione alla lotta per raggiungere obiettivi comuni.

A questo, il napoletano preferirà invece sempre di gran lunga il tramare dietro le quinte per assicurarsi privilegi esclusivi, che si fonderanno poi proprio sul fallimento al quale sono intanto condannati coloro che osano esporsi.

E questo tramare comprenderà naturalmente l'accorta simulazione in pubblico di una sincera attitudine alla lotta (che però mai sarà espressa apertamente nella sede opportuna); oltre poi anche alla spudorata delazione, in separata sede, consumata ai danni di coloro che intanto hanno osato esprimere apertamente le loro opinioni ed intenzioni.

Ed anche a tale proposito sfido chiunque a dire che ciò non è vero, e che quindi è una calunnia. Sappiamo infatti tutti benissimo che ciò è esattamente quello che accade di regola. Ed inoltre sappiamo tutti benissimo che proprio con questo noi ci aspettiamo di dover fare i conti se vogliamo vivere una vita di successo, o almeno priva di problemi.

Ecco! Con questo credo di aver assolto al compito che mi ero preposto in questo testo, e cioè quello di illustrare nella maniera più completa possibile la sostanza di Napoli. Come abbiamo visto, essa è inevitabilmente anche la sostanza stessa del Napoletano; e quindi necessariamente essa viene manifestata in modo palese dai suoi ordinari comportamenti. Comportamenti dei quali io mi sono sforzato di mostrare per ora le forme più generali e quindi anche più universali.

Una volta fatto questo, nel prossimo articolo, potremo poi affrontare più direttamente le forme ancora più concrete (in quanto viventi) di tali manifestazioni.

 

 

Note

1) Māṇdūkya Upaniṣad, in:Raphael (a cura di), Upaniad, Bompiani, Milano 2010, III, 3, 1-48 p. 1059-1073.

2) Vincenzo Nuzzo, “Il napoletano pentito“, in: www.succedeoggi.it Agosto 2015.

3) “Gewiß wäre der Neapolitaner ein anderer Mensch, wenn er sich nicht zwischen Gott und Satan eingeklemmt fühlte” (“Senza dubbio il napoletano sarebbe un'altro uomo, se non si sentisse stretto tra Dio e Satana ”) [Wolfgang Goethe, Italienische Reise, Beck, München, 2007, p. 216];  “…in diesen Paradiesen der Welt sich zugleich die vulkanische Hölle so gewaltsam auftut und seit Jahrtausenden die Wohnenden und Genießenden aufschreckt und irremacht” (“…in questi paradisi del mondo allo stesso modo l’inferno vulcanico si manifesta in modo così violento e da millenni sgomenta e rende folli abitanti e visitatori” [ibd. p. 171].

 

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