Cenni storici sulla pena di morte nel sud Italia

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Categoria: Storia e Letteratura - Miscellanea
Creato Venerdì, 18 Agosto 2017 14:48
Ultima modifica il Venerdì, 18 Agosto 2017 14:48
Pubblicato Venerdì, 18 Agosto 2017 14:48
Scritto da Antonella Orefice
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La pena di morte in Italia è stata usata in vari modi e in varie epoche dai tempi dell'antica Roma fino al 1948.

Il diritto romano prevedeva la pena di morte, ma per i cittadini romani concedeva una speciale garanzia: una condanna a morte emanata in base all'imperium del magistrato non poteva essere eseguita senza concedere al condannato la facoltà di fare appello ai comizi centuriati per il tramite dell'istituto della provocatio ad populum.

Il primo Stato al mondo ad abolire legalmente la pena di morte fu il Granducato di Toscana il 30 novembre 1786 con l'emanazione del nuovo Codice Penale Toscano firmato dal granduca Pietro Leopoldo, influenzato dalle idee di pensatori come Cesare Beccaria, che nel suo trattato  Dei delitti e delle Pene, in particolare nel capitolo XXVII,  si era espresso contro la pena di morte, argomentando che con questa pena lo Stato, per punire un delitto, ne commetteva uno a sua volta.

Pietro Leopoldo nel 1790 reinserì la pena di morte solo  per i cosiddetti crimini eccezionali, seguirono la Repubblica Romana di ispirazione mazziniana (che tuttavia ebbe breve esistenza) nel 1849, la Repubblica di San Marino nel 1865 ed altri.

L'Italia Unita, per opera del ministro liberale Giuseppe Zanardelli, l'abolì nel 1889, tranne per i crimini di guerra e il regicidio. La pena fu reintrodotta dal regime fascista con il codice Rocco nel 1930, poi abolita nel 1944 e ripristinata l'anno seguente; con l'avvento della Repubblica nel 1946 è stata espressamente vietata.

La Costituzione italiana, approvata dall'Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947 ed entrata in vigore il 1º gennaio 1948, abolì definitivamente la pena di morte per tutti i reati comuni e militari commessi in tempo di pace. La misura è stata  attuata con i decreti legislativi 22 gennaio 1948, n. 21 (Disposizioni di coordinamento in conseguenza dell'abolizione della pena di morte) e n. 22 (Ammissibilità del ricorso per cassazione proposto dai condannati alla pena di morte).

La pena di morte è rimasta nel Codice penale militare di guerra fino alla promulgazione della legge 13 ottobre 1994, n. 589, che l'ha abolita, sostituendola con la massima pena prevista dal Codice Penale, che è attualmente l'ergastolo. 

 

L'ultima esecuzione è avvenuta a Torino nel 1947; in essa vennero fucilati tre uomini siciliani colpevoli della strage di Villarbasse, durante la quale per una rapina dieci persone vennero massacrate e buttate ancora vive in una cisterna.

Nel regno di Napoli, sia durante l’epoca vicereale che quella borbonica, venivano applicati i «gradi di pubblico esempio», secondo i quali, più efferato era stato il delitto, più dolorosa doveva essere la tortura ed il monito per il popolo. Quando la “giustizia” usciva dalla Vicaria il condannato era circondato da una processione di guardie e sacerdoti. Molto spesso veniva «strascinato» per tutta la città, un’immagine che rimanda alla mitologia greca, quando nell’Iliade Achille uccise Ettore trascinandone per nove giorni il cadavere dietro al suo carro.

Il trascinamento usato dai viceré ed in seguito dai Borbone, avveniva in due diverse modalità: o su tavole di legno legate ad  un carro, oppure «a coda di cavallo»; in questo caso il condannato giungeva al patibolo con il corpo lacerato dal diretto strofinamento col suolo. In taluni casi si procedeva alla recisione delle mani o della lingua, prima dell’esecuzione finale. Uso comune dei pezzi recisi era l’esposizione a tempo indeterminato in gabbie di ferro sospese alle macabre mura della Vicaria o nei luoghi dove era stato commesso il crimine.

Il popolo non faceva da sfondo, ma assisteva con ambivalenza emotiva ad ogni esecuzione: esultava quando il monarca concedeva una grazia, si riuniva in preghiera quando il reo non aveva voluto riconciliarsi con Dio prima di subire la pena.

Il timore delle «anime disgraziate», perché impenitenti, era radicato nella credenza popolare: inquietava  pensarli a vagare in eterno per quei luoghi lontani dalla luce di Dio.

Ciononostante la benevolenza spesso cedeva alla cinica indifferenza o ancora peggio, al ludibrio e al disumano desiderio di sangue vendicativo.

E’ storia documentata questa che risale alla controrivoluzione del 1799, quando i Padri della Compagnia Napoletana dei Bianchi della Giustizia chiesero alla clemenza del re di non lasciare i cadaveri dei rei di Stato sospesi sulle forche per giorni, perché i «lazzari» ne facevano scempio, e non solo. Da manoscritti del periodo si apprende anche di atti di cannibalismo, pezzi di cadaveri arrostiti e mangiati dalla plebe infuriata.

Piazza MercatoPer le esecuzioni «esemplari» venivano scelti siti ampi, atti a contenere il patibolo e la calca: lo spazio antistante Castel Nuovo, il largo S. Francesco, il Cavalcatoio fuori Porta Capuana, e la più famosa piazza del Mercato, dove nella torre del castello del Carmine, chiamata «degli sbirri», sostavano i condannati giunti in gruppo dalle carceri e qui attendevano il loro turno per ascendere al patibolo.

Sono questi i luoghi più tristemente noti ed usati,  ma non gli unici. Durante il periodo vicereale le giustizie si praticavano laddove era stato commesso il delitto, o in prossimità della casa dei parenti della vittima, e i corpi mutilati venivano lasciati in bella mostra per giorni sia per monito che per amplificare la macabra soddisfazione della giustizia compiuta.

Si uccideva, per forca o per mannaia, ma anche col supplizio della ruota che consisteva nel legare il reo per i polsi e le caviglie ad una ruota e con una mazza gli venivano rotte le ossa fino alla morte. Una morte, questa, che comportava  anche una lunga agonia. Solitamente la decapitazione era un macabro privilegio riservato ai rei nobili, mentre per  i “volgari malfattori” veniva usata la forca o un atto di strangolamento quando la giustizia avveniva, in casi particolari, all’interno delle carceri.

«Il ministro li buttò una cordella al collo, et al proferire il nome di Gesù gli la strinsero uno da una banda e l’altro dal’altra, stentò un poco, e si mantende per un paternoster inginochioni, poi caduto che fu il ministro se li pose sopra lo stomaco con le ginochia, e con un’altra cordella che li pose al collo lo finì di soffocare voltando con un bastoncino». [Archivio Storico Diocesano di Napoli, Registri dei Confratelli dei Bianchi della Giustizia. Condanna di Tommaso Pignatelli. Anno 1634, vol.76, c.41.]

La mannaia  le cui origini risalgono al XIV sec., era una macchina per decapitazione molto simile alla ghigliottina francese, ma dotata di lama a forma di mezzaluna anziché obliqua.

La ghigliottina fu progettata in Francia alla fine del 1700 dal chirurgo e fisiologo Antoine Louis, e realizzata dal prussiano Tobias Schmidt, un costruttore di clavicembali.

Il nome deriva dal contributo che il deputato Joseph- Ignace Guillotin, insieme ad altri politici Francesi, aveva dato nel presentare all'Assemblea Nazionale del  9 ottobre 1789 un progetto di legge in sei articoli, con il quale si stabiliva che le pene avrebbero dovuto essere identiche per tutti, senza distinzione di rango del condannato e che il supplizio avrebbe dovuto essere il medesimo, indipendentemente dal crimine commesso, e che il condannato sarebbe stato decapitato per mezzo di un semplice meccanismo.

La macchina fu posta in opera a Parigi il 25 aprile 1792, con l'esecuzione di Nicolas Pelletier, condannato per omicidio e furto. Nel Regno di Napoli la ghigliottina fu introdotta durante l’ultima fase del periodo francese da Gioacchino Murat.

Non tutti i condannati accettavano la morte con rassegnazione; alcuni trascorrevano le ultime ore in preda alle convulsioni, rifiutavano i sacramenti, si dimenavano, imprecavano, chiedevano dell’oppio per stordirsi, altri necessitavano di essere trasportati su una lettiga fino al patibolo perché già tramortiti dalla paura.

C’è chi si lasciava uccidere con segni di «profondo pentimento», chi salutava la terra baciandola, chi rivolgeva al popolo ultimi strazianti addii. Significativo è il racconto delle ultime ore di Vincenzo Talerico, “l’uomo che non voleva morire”. Siamo nel 1831.

«Il paziente Vincenzo Talerico, tuttocché avesse adempiuto a tutti i doveri di Religione, specialmente nel farsi il viatico, che lo ricevé con fede, pure ha rimasto di sé qualcosa dubbio di non essersi veramente pentito, si perché nell’essere obbligato che avesse perdonato i nemici non rispondeva, che anzi colla testa dava segni negativi; come anche perché più volte si lasciò dire che avrebbe fatto ciò che aveva nella sua testa. Quindi per questa pretenziosa, e per  una convulsione che gli venne che gli durò più minuti, bisognò che fosse andato in portantino, ove fu ligato con più funi. In tale maniera, incamminatosi, spesso domandava ai Padri confortatori se era giunto al luogo del patibolo, soggiungendo che ce lo avessero detto quando ci sarebbe giunto. Giunto che fu venne sciolto dalle funi. Ricevé l’ultima assoluzione. Ma non appena che giunse sul palco della guillottina cominciò a dare segni di non voler andare al suo destino, tal che venne in una lotta assieme al carnefice. Si temé che questo lo avesse scannato. Ma finalmente dopo qualche minuto di grande resistenza, essendo soccombuto si eseguì la giustizia. Questa resistenza, o per meglio dire questa lotta che fece fa l’effetto di ciò che più volte aveva detto di volere, cioè di fare ciò che aveva nella sua testa. Da tutto ciò però non se ne può moralmente dedurre che si sia dannato, mentre può darsi che questa resistenza fu cagionata dal risentimento che la sua umanità soffrì nell’accostarsi alla morte». [cit., vol 266, cc.41-42, r.e v.]

Se tutta questa disumanità esercitata dai sovrani doveva essere di monito per il popolo, considerate le cifre crescenti dei condannati, dobbiamo constatare che essa  servì solo a spargere morte e a far accrescere un legittimo rancore verso quelle dispotiche monarchie.

Evidentemente le carestie, le pestilenze e l’autorità schiacciante ed asfissiante dei regnanti che imponevano tasse ed obblighi dall’alto di una corruzione dilagante,  avevano esasperato così tanto la gente da porla in una sfida continua con la morte in cerca di libertà.

 

Abstract da:

 A.Orefice, Delitti e condannati nel Regno di Napoli, Napoli, 2015.

A. Orefice, I Giustiziati di Napoli, Napoli, 2016.