Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Il viaggio di Ferdinando II in Calabria nell’autunno del 1852

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Rilliet – Imbarco a Napoli del 12° CacciatoriNell’autunno del 1852, quattro anni dopo sollevazione delle Calabrie e la violenta repressione borbonica, Ferdinando II intraprese un viaggio che, dal lunedì 27 Settembre al venerdì 29 Ottobre, lo condusse attraverso la Basilicata e la Calabria, sino a Catania. Per gli scaramantici, il viaggio iniziò e terminò in giorno di novilunio.

Estensore della minuziosa cronaca degli avvenimenti, pubblicata a caldo negli Annali Civili del Regno delle Due Sicilie – fascicolo XCII del 1852, fu il Commendatore Bernardo Quaranta (1796-1867) dei Baroni di San Severino, noto intellettuale napoletano che ebbe a ricoprire numerosi incarichi pubblici e, al momento, titolare della cattedra di archeologia e letteratura greca presso la Regia Università degli studi di Napoli.

Due anni dopo scriveva una Orazione per la incolumità prodigiosa di Ferdinando II Re del Regno delle Due Sicilie, a seguito dell’attentato al Re avvenuto l’8 Dicembre 1856 ad opera di Agesilao Milano, uno dei calabresi che il Re era venuto a pacificare nel suo viaggio.

La pubblicazione degli Annali era naturalmente sotto il vigile controllo del governo Borbonico e ogni “pezzo” veniva vagliato dalla censura (Note introduttive agli Annali Civili del Regno delle Due Sicilie – Archivio di Stato di Lecce).

 

Il viaggio iniziò la sera di lunedì 27 Settembre al porto militare di Napoli con l’imbarco del Re e dello Stato maggiore dell’esercito sul piroscafo Fulminante affiancato da una piccola flotta di altre fregate a vapore: il Guiscardo, il Ruggiero, il Sannita, il Carlo III e il Veloce.

Facevano parte del seguito il figlio sedicenne Francesco Maria Leopoldo Duca di Calabria e il germano venticinquenne Don Francesco di Paola Luigi Emanuele, conte di Trapani, che si era sposato appena due anni prima. Il Re aveva 42 anni e regnava da 22.

L’operazione, definita “esercitazione autunnale” per “addestrar le truppe in quell’arte (militare)” fu intrapresa con il dispiegamento di una colonna mobile composta da 16 battaglioni, 8 squadroni e 20 pezzi d’artiglieria, un chiaro monito alle ribelli popolazioni calabresi.

Degna di menzione è la presenza nella truppa e segnatamente nel 13° battaglione Cacciatori (composto da svizzeri), in qualità di chirurgo, del ventottenne Horace de Rilliet che tenne un diario di viaggio corredato da 203 bozzetti raffiguranti luoghi e scene di vita quotidiana (Tournée en Calabre, pubblicato a Ginevra 1852 e in edizione italiana da Brenner, 1960 e Rubbettino, 2008).

Giovane di intelligenza vivace, dotato di buona cultura e soprattutto di rara sensibilità umana, Rilliet morì a Napoli appena trentenne, due anni dopo di quegli avvenimenti.

 Di lui, esponente di secondo piano della truppa (un chirurgo inquadrato nel 13° bataillon de chasseurs) non fa nessuna menzione il Quaranta e neppure De Cesare ma ha meritato il plauso, seppure postumo, di Benedetto Croce, che ha definito il suo lavoro come "il più vivo quadro della Calabria circa la metà del secolo passato" (Aneddoti di varia letteratura, Ricciardi, 1942).

 

La tabella di marcia del Re è sintetizzata nel quadro che segue.

 

G.

Data

Avvenimento

 

Settembre

27

Lunedi

Sera del 27. Porto militare di Napoli. Imbarco del Re accompagnato dal suo primogenito, il Duca di Calabria, dal germano Conte di Trapani e dallo stato maggiore, sul Fulminante, "di conserva con altri piroscafi da guerra: il Giuscardo, il Ruggiero, il Sannita, il Carlo III ed il Veloce".

Settembre

28

Martedi

Mattina del 28 - ore 10 a.m. Sbarco nel porto naturale di Sapri, Principato Citeriore. La colonna, dopo un bivacco di poche ore, si è avviata quasi sempre a piedi per erti sentieri verso Torraca, piccolo comune nel Principato Citeriore. Il Re prese alloggio in Torraca nel castello del barone Palamollo.

Settembre

29

Mercoledi

La mattina del 29, attraverso le montagne, viaggio sino a Lagonegro "dove si riuniva una colonna mobile del Real esercito". Alloggiò nel palazzo della ottintendenza. Dopo poche ore di bivacco a Lagonegro, viaggio, quasi sempre a piedi, attraverso erti sentieri, in direzione di Castelluccio. All'imbrunir della sera il corteo giunse al rilievo postale di Lauria inferiore e quindi a Castelluccio Inferiore verso le 10 di sera. Prese alloggio nel convento de' Minori Osservanti.

Settembre

30

Giovedi

Sosta a Castelluccio inferiore

Ottobre

1

Venerdi

Giorno di S. Francesco d'Assisi. Prosegue la sosta a Castelluccio inferiore

Ottobre

2

Sabato

Partenza a cavallo da Castelluccio per Rotonda (tra Castelluccio e Morano guado del Mercuri), Campotenese, Mormanno (alla cappella sita accanto al fortino dove comincia la valle che conduce a Campotenese, per giungere di notte a Morano dove prese alloggio nel seminario.

Ottobre

3

Domenica

Festa del SS. Rosario di Maria Vergine. Riposo del Re e delle truppe a Morano per due notti e un giorno. Pomeriggio del 3 il Re si recò in carrozza a Castrovillari e poi ritornò a Morano.

Ottobre

4

Lunedi

Sul far dell'alba il Re mosse di nuovo per Castrovillari dove fu celebratala solennità dell'onomastico del Duca di Calabria (era il giorno di S. Francesco d'Assisi) pontificata dal vescovo della diocesi. Alloggiò nel palazzo della sottintendenza.

Ottobre

5

Martedi

La mattina partenza della colonna mobile e arrivo a Spezzano Albanese dove il Re alloggiò nella casa del giudice regio, in cui passò la notte tra il 5 e il 6.

Ottobre

6

Mercoledi

Partenza da Spezzano alla volta di Cosenza, percorrendo la Consolare.  Ingresso in Cosenza. All'imbrunire mosse verso Donnici, prendendo alloggio in una casa di campagna dei signori Orlandi.

10°

Ottobre

7

Giovedi

La mattina, ritorno a Cosenza dove le deputazioni dei vari comuni gli rendono omaggio. Alle 5 p.m. uscì e percorse la città. Ritorno a Donnici per la notte.

11°

Ottobre

8

Venerdi

La mattina dell'8 in Donnici. Udienza a molta gente dei circostanti villaggi. Verso le 4 p.m. prese la via di Rogliano, dove giunse la notte e prese alloggio nel convento dei PP. Cappuccini.

12°

Ottobre

9

Sabato

Rogliano. Il Re accordò estesissima udienza e quindi partì in direzione di Catanzaro, pernottando lungo la via alla "osteria di Coraci".

13°

Ottobre

10

Domenica

Nella giornata del 10 il Re rimase nel villaggio di Coraci, dove udì la messa.

14°

Ottobre

11

Lunedi

Alle 3 a.m. del giorno 11 mosse alla volta di Tiriolo con sosta a Soveria per udir mezza. Giunse a Tiriolo in giornata. Le truppe si accantonarono in Tiriolo mentre il Re "si metteva con vettura di posta per la traversa di Catanzaro" entrandovi inaspettato alle 12,30 per la "porta di terra". Dopo poche ore di riposo volle vedere "la nuova strada in costruzione che dovrà condurre a Crotone". Tornò in Catanzaro sull'imbrunir della sera. Prese alloggio nel palazzo dell'Intendenza.

15°

Ottobre

12

Martedi

Catanzaro. La mattina del 12 il Re diede udienza al vescovo coi prelati di altre diocesi, all'intendente, al segretario generale, magistrati, decurionato, etc. Nelle ore p.m. si recò al duomo per assistere al canto del Te Deum e ricevere la benedizione del Santissimo.

16°

Ottobre

13

Mercoledi

Il soggiorno in Catanzaro si protrasse anche per il dì 13. Alle 3 p.m. visitò l'orfanotrofio delle verginelle diretto dalle Suore della Carità, il collegio e liceo diretto dai PP. Scolopii, l'ospedale civile dove ricevette, nella chiesa dell'ospedale, la benedizione del Divinissimo. Al cader del giorno partì da Catanzaro per far ritorno a Tiriolo sotto una pioggia dirotta. Tre ore dopo giunse a Tiriolo e pernottò nel convento dei PP. Cappuccini.

17°

Ottobre

14

Giovedi

Soggiorno a Tiriolo dove si occupò degli affari amministrativi della Provincia

18°

Ottobre

15

Venerdi

La mattina del 15, in occasione dell'onomastico della regina (Maria Teresa Isabella - era il giorno di S. Teresa vergine), assistette alla messa solenne e al Te Deum. Alle 12 meridiane partì da Tiriolo dirigendosi a Pizzo. Giunse al ponte dell'Angitola verso le 8 p.m. intenzionato a proseguire per Mongiana ma, impossibilitato, si trattenne a Pizzo, dove giunse verso le 2 di quella notte, prendendo alloggio nel monastero dei PP. Paolotti.

19°

Ottobre

16

Sabato

La mattina del 16 ottobre in Pizzo omaggio di numerose autorità civile e religiose. Partenza alla volta di Chiaravalle e di Mongiana per visitare quello stabilimento, rifacendo il cammino verso l'Angitola e attraversando i comuni di Simbario e Spatola. Arrivo di sera in Serra. Alle ore 9 p.m. giunse alla colonia della Mongiana prendendo alloggio nella casa del Comandante degli Opifici (vi dormì due notti).

20°

Ottobre

17

Domenica

Il giorno 17 dopo aver ascoltato la messa nella Chiesa del Villaggio, visitò le caserme degli artiglieri, i Reali Opifici di armi, l'alto forno e le officine dove si lavorano i minerali.

21°

Ottobre

18

Lunedi

Al sorgere del sole, partendo da Mongiana e percorrendo la stessa via dell'andata, giunse a Monteleone, senza fermarsi a Pizzo. La sera fu festeggiato dalla popolazione. Alloggiò nel palazzo della sottintendenza.

22°

Ottobre

19

Martedi

Partenza da Monteleone nel primo pomeriggio alla volta di Reggio, dopo il disbrigo di varie incombenze e la visita al Collegio Vibonese attraversando Mileto, Rosarno, Gioia, Palme, per giungere di notte a Bagnara sotto dirottissima pioggia, dove sostò, in quella notte tempestosa, fino a giorno, pernottando in una locanda.

23°

Ottobre

20

Mercoledi

Bagnara. Dopo aver udito la messa nella chiesa del Carmine, riprese il viaggio per Reggio e, passando per Scilla, visitò il castello. Giunse a Reggio nelle ore pomeridiane e, dopo una sosta al duomo, prese dimora al palazzo dell'intendenza dove ricevette, sino a notte, gli omaggi delle autorità. Percorrenza del corso borbonico.

24°

Ottobre

21

Giovedi

Permanenza nella città di Reggio dove tenne udienza.

25°

Ottobre

22

Venerdi

Il 22 era ancora a Reggio. Di pomeriggio visitò il collegio provinciale affidato alle cure dei PP. della Compagnia del Gesù e all'educandato di civili donzelle, diretto dalle Suore della Carità. Visita all'orfanotrofio delle Verginelle, a quello de' giovanetti tolti alla corruzione de' trivi e all'ospedale civile.

26°

Ottobre

23

Sabato

Partenza da Reggio alle ore 7 a.m. e imbarco sul Tancredi, per Messina, alle ore 9 a.m. Alle 10 a.m. il Tancredi entrava nel porto di Messina. Visita alla cittadella e all'arsenale. Verso le ore 6 p.m. si assise a mensa e la sera si recò a teatro. Alle 10 p.m. lasciò Messina imbarcandosi sul Tancredi per recarsi a Catania dove giunse all'alba del 24.

27°

Ottobre

24

Domenica

All'alba del 24 giunse nella rada di Catania e alle 7 a.m. scese dalla lancia per dirigersi allo sbarcatoio e quindi alla e al monastero dei PP. Benedettini dove prese alloggio. Dopo la refezione, mosse per l'ospedale di S. Maria e visitò i lavori del porto.  Alle ore 9 p.m. percorse le vie della città. Alle 11 p.m. giunse ad Acireale dove, nella chiesa madre, ricevette la benedizione del Santissimo.

28°

Ottobre

25

Lunedi

Il 25 alle 6 del mattino, dopo aver viaggiato per via terra l'intera notte, era di nuovo a Messina. Dopo un breve riposo, alle 11 e mezzo ascoltò la messa, quindi accolse le autorità e percorse la città. Alle 9 e mezzo p.m. partecipò a una festa da ballo. Poco dopo mezzanotte, reimbarcatosi sul Tancredi, salpò verso Pizzo.

29°

Ottobre

26

Martedi

La mattina del 26 verso le ore 9 a.m. la Real fregata il Tancredi gettava l'ancora nelle acque di Pizzo. Quivi prese alloggio nel padiglione militare.

30°

Ottobre

27

Mercoledi

Permanenza a Pizzo. Nello stesso giorno, dopo essersi occupato di vari affari, mosse a cavallo verso il ponte dell'Angitola, per incontrare le truppe che marciavano alla volta di Pizzo per imbarcarsi. Comincia l'imbarco delle truppe per il ritorno a Napoli.

31°

Ottobre

28

Giovedi

Prosegue l'imbarco delle truppe e fine del soggiorno del Re a Pizzo. Commiato alle ore 8 p.m. Partenza dalla marina di Pizzo alle ore 2 di notte con direzione Paola.

32°

Ottobre

29

Venerdi

Dopo cinque ore di navigazione, ossia all'alba del 29, il Real naviglio approdava a Paola e all'alba il Re sbarcava sulla spiaggia di quella città. Ascolto della messa nel santuario. Reimbarco sul Tancredi e arrivo nel porto militare di Napoli il 29 ottobre alle ore 10 e mezzo antimeridiane.

 

Raffaele De Cesare (1845-1918) ha dedicato un intero capitolo a quell’avvenimento (La fine di un regno, Città di Castello, 1900), illustrando talora particolari inediti, anche curiosi, ricevuti da testimoni dell’avvenimento.

Da un’attenta lettura dei racconti di Quaranta, Rilliet e De Cesare, scaturiscono spontanee alcune riflessioni.

 

1. L’epoca del viaggio

Il periodo designato per le operazioni militari è stato scelto incautamente a causa della malaria che imperversava normalmente sino a fine autunno e - con particolare virulenza - nella Piana di Santa Eufemia e in quella di Rosarno, attraversate dal monarca (cfr. Afan De Rivera: Considerazioni sui mezzi da restituire…, 1833; Cortese: Descrizione geologica della Calabria, 1875). Il periodo più favorevole sarebbe stata la primavera.

Per precauzione i postali percorrevano quei luoghi, paludosi e malsani, unicamente di giorno, per evitare contatti prolungati con l’aria mefitica (il ciclo della malaria venne scoperto solo alla fine di quel secolo).

«La malaria fu fatale alle truppe… morirono parecchi soldati e due ufficiali della Guardia Reale, molti gl’infermi e moltissimo il malcontento».  (De Cesare)

 

2. I rapporti con la popolazione

Nella descrizione del Cav. Quaranta «l’adorato monarca, oggetto di sentita e schietta venerazione, padre della patria, salvatore dei popoli, protettore delle famiglie, dispensatore della pace, la cui voce “può lenire ogni sciagura”, fu accolto dal popolo gongolante di gioia con tripudio, con rami di olivo, archi di trionfo, arazzi, broccati, serici trapunti e stoffe colorate ostentate dalle finestre, baldacchini, vessilli, canti, suoni di campane, salve di cannone, fuochi pirotecnici» e così via. L’ingresso di Gesù in Gerusalemme, esaurito in soli due versetti biblici (Luca 19: 37-38), al paragone, era ben poca cosa.

Ovviamente le autorità locali (intendenti le province, decurioni, etc.) ebbero cura di preparare al meglio le cerimonie di accoglienza per «colui che fiaccò le teste all’idra della rivolta» e, «per dirlo tutto allo stile del profeta, quelle facce di bronzo che si adirono di muover guerra a Dio e a’ Troni» (ndr.nessun profeta ha mai proferito quelle parole).

Le cose, al difuori delle apparenze, erano ben diverse. La Calabria era appena uscita, stremata e impaurita, da una ribellione di popolo soffocata nel sangue.

«Il Re ebbe in questo viaggio un contegno addirittura stravagante: fu più volte scortese senza necessità; capriccioso, mordace, caparbio e diffidente sempre; trovò facili pretesti per motteggiare sulle cose del 1848 e rimproverare in pubblico le autorità, ritenute sospette politicamente» (De Cesare).

Durante il viaggio ebbe più volte a stizzirsi coi familiari supplicanti dei rivoltosi in galera o in esilio, oltre che coi magistrati e gli amministratori, che riteneva degli incapaci.

Vale per tutti l’esempio di Luigi Corapi, presidente dalla Corte Criminale di Cosenza che, umiliato dal Re, si dimise dalla carica con un atto di grande dignità.

Le pubblicazioni sulla rivoluzione calabrese del ’48 non si contano, ma mi piace segnalare il racconto edito a Catanzaro nel 1882 dal titolo Storia della rivoluzione del distretto di Nicastro nel 1848 per G.V., «uomo integerrimo ed incapace di mentire per qualsiasi ragione… che volle tacere il suo nome, ed oggi essendo morto, a noi incombe di rispettare il segreto; ci contentiamo perciò di apporne davanti all’opuscolo le sole iniziali”.

L’autore, testimone oculare di quegli avvenimenti, scrisse che «I regii più barbari dei Cosacchi e degli Arabi, seviziavano i cadaveri, abbandonati sul terreno con le teste troncate, contusi di colpi sformati, pasto dei cani e delle belve feroci».

 

3.  Il monarca, il clero e la religione.

Il cav. Quaranta s’intrattiene abbondantemente sugli aspetti della religiosità del monarca, «addottrinato all’amorosa sapienza del Vangelo», che «si prostra riverente innanzi agli altari per ringraziare il Sommo dator d’ogni lume» e al quale Iddio ha confidato «parte dell’umano genere», associandolo a «governare una porzione del mondo» e - suo malgrado - costretto «ad usare l’autorità ricevuta da Dio sopra la vita degli uomini, e lasciar libero corso alla severità della giustizia».

Quella giustizia e quell’amore del Vangelo si erano ben viste nella feroce repressione dei moti di quattro anni prima, ma quella è tutt’altra storia, sin troppo conosciuta.

La superstiziosa religiosità del monarca, ingessato nel diritto di sovranità per investitura divina e nella piena sottomissione all’autorità papale (enciclica Unam Sanctam Ecclesiam di Bonifacio VIII secondo cui l’autorità temporale dev’essere sottoposta a quella spirituale) è di tutta evidenza nelle disposizioni date per la costruzione e la restaurazione delle chiese e la munificenza verso le parrocchie e i conventi, che lo ospitarono per nove notti. Durante il viaggio assistette undici volte alla messa, dieci al canto del Te Deum e ricevette per ben diciotto volte la benedizione del Santissimo. Diede disposizione affinché fossero restaurato un eremitaggio, un convento e quindici chiese.

Non c’è bisogno di dilungarsi sul fatto che le attività culturali e assistenziali, come d’altronde avveniva direttamente o indirettamente in tutto il Regno, erano concentrate nelle mani dei religiosi.

Sintomatica a questo proposito è la presenza, nel corteo reale, di Francesco Scorza, direttore del ministero degli affari ecclesiastici e della pubblica istruzione, unitosi al corteo reale il 27 settembre a Lagonegro.

Il Re volle per compagno di viaggio «l’augusto suo primogenito per trasfondergli il senno, la prudenza, e la giustizia, che apportano salvezza e dovizia alle genti, e fanno d’un Sovrano l’immagine viva di Dio».

Pare di riascoltare il popolo di Gerusalemme che acclamava Erode Agrippa I, nipote di Erode il Grande, al grido di «Voce di Dio, non di un uomo» (Atti 12:22-23). La fine di quel re, che aveva fatto perire di spada Giacomo, fratello di Giovanni, è ben nota.

Il relatore riferisce di un fatto molto curioso che sa di fantasia, avvenuto a Lagonegro dopo che il monarca ebbe udito il Te Deum e preso la benedizione del Santissimo.

«Fra la moltitudine quivi fitta e bramosa di fruir dell’augusto cospetto, notossi una contadina di molta età che cercava di aprirsi un varco fra la calca per veder una volta da presso il Padre della Patria. Ella non chiese altra grazia che questa, pianse quando l’ebbe ottenuta e fé piangere gli astanti allorché disse di chiuder contenta gli occhi al sonno della tomba, dopo averli affissi sul sacro volto di Colui che liberò il paese dalla peste rivoluzionaria» (pag. IX).

A chi ha dimestichezza col Vangelo non sarà certamente sfuggito il parallelo con la vicenda di Simeone narrata in Luca 2:25-32.

«Vi era in Gerusalemme un uomo di nome Simeone; quest'uomo era giusto e timorato di Dio, e aspettava la consolazione d'Israele; lo Spirito Santo era sopra di lui; e gli era stato rivelato dallo Spirito Santo che non sarebbe morto prima di aver visto il Cristo del Signore.  Egli, mosso dallo Spirito, andò nel tempio; e, come i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere a suo riguardo le prescrizioni della legge, lo prese in braccio, e benedisse Dio, dicendo: «Ora, o mio Signore, tu lasci andare in pace il tuo servo, secondo la tua parola; perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, che hai preparata dinanzi a tutti i popoli per essere luce da illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele».

Un’iperbole mi conduce alle recenti risoluzioni UNESCO tendenti a recidere il cordone ombelicale che unisce da tremila anni i destini di Israele a quelli di Gerusalemme. «Bello si erge, e rallegra tutta la terra, il monte Sion: parte estrema del settentrione, città del gran Re» (Sal 48:2).

La devozione scaramantica del monarca è ben nota. Un episodio descritto dal De Cesare ne illustra bene i contorni. A Messina nella chiesa dei Benedettini il Re «cavò di tasca un libro di preghiere, pieno di immagini sacre, fra le quali fu vista quella di San Francesco di Paola. Quando, voltando le pagine, gli veniva innanzi qualcuna di quelle effigie, egli la baciava…» (Vol. I pag. 40).

 

4. Territorio e la viabilità

«Il Re comanda che si ergano templi, si traccino strade, si aprano porti, si fondino ospizi, si appianino monti, si colmino valli» (Quaranta – pag. V).

La rete viaria calabrese, ancora alla fine del secolo XIX, era composta essenzialmente dall’antica “strada della Calabrie” c.d. “Consolare”, che iniziava al Ponte della Maddalena e, dopo aver attraversato Salerno e Lagonegro, penetrava nella Calabria Citra attraverso le gole di San Martino.

Il tratto calabrese, dalle montagne del Pollino a Villa San Giovanni, fu percorso dal Re fra molti disagi.

Si trattava di una strada sterrata, nominalmente carrozzabile, che nella stagione piovosa diveniva per lunghi tratti fangosa e impraticabile.

Da Villa a Reggio esisteva solo un sentiero naturale lungo la costa e i torrenti frapposti venivano attraversati a guado.

La rete stradale calabrese misurava complessivamente 420 chilometri e oltre alla “Consolare”, ancora nel 1885 (carta d’Italia alla scala 1: 1.000.000 per i tipi dell’Istituto Geografico Militare), comprendeva alcune traverse che da quella congiungevano Rossano, Paola, Catanzaro, Nicastro e la Marina di Gerace.

Rilliet - Guado del Mercuro o Leo che «separa i lucani dà bruzi».

Dei 412 comuni in cui era divisa allora la Calabria, ben 371 non avevano traccia di strade. Le uniche vie di comunicazione erano rappresentate da sentieri, percorribili solo a piedi e da animali con carico alleggerito (i lancieri vi transitavano a piedi, tirando le loro cavalcature per la briglia) o mulattiere, transitabili da animali da soma con carico regolare.

I lavori di costruzione della carrozzabile per Crotone, che il Re volle visitare una volta giunto a Catanzaro, erano appena iniziati.

La via rimase sempre sprovvista di ponti e il guado dei numerosissimi torrenti frapposti tra le due località, d’inverno, era impossibile.

Quanto ai ponti sui torrenti calabresi, essi erano costruiti solitamente con travi e tavolati su spalle di pietrame, che le piene rovinavano sistematicamente. Rarissimi i ponti in muratura.

Il guado di molti fiume era d’obbligo. Esso veniva facilitato talora dalla posa in opera sui sedimenti fluviali di traverse di quercia (Amato, Torbido, Pesipe, Angitola) per una larghezza intorno ai sedici palmi.

Il nevralgico ponte “del Calderaio” sull’Amato era in legno e fu costruito in muratura ottant’anni dopo (Ministero dei LL.PP -  Opere Pubbliche 1922 - 1932. Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1932).

Il ponte sull’Angitola sul quale passò il monarca era stato ultimato da un paio d’anni. Esso ha rappresentato un raro esempio di buona ingegneria. Il suo costo spropositato era giustificato non dalle esigenze delle popolazioni, ma dal fatto che in Pizzo, dotato di un importante porto commerciale, era stabilita dogana di prima classe e a Soverato, collegato a questo dalla dorsale, dogana di seconda classe.

Di qua l’importanza attribuita alla strada congiungente i due mari, che doveva servire anche gli opifici della Mongiana.

Date le pessime condizioni di quella strada il Re, per percorrerla, dovette rinunciare alla carrozza reale e munirsi di “legni leggeri”, un piccolo phaéton attaccato alla daumont, con un postiglione (sorta di carrozza leggera scoperta, a quattro ruote, con due sedili).

Nella foresta da Serra a Mongiana fu tracciata per l’occasione, dai contadini, un’apposita pista. Essendo molto disagevole, in alcuni punti “gli indigeni” dovettero sollevare di peso il legno reale.

 

5. Gli opifici della Mongiana

Il 16 di Ottobre il sovrano si avviò da Pizzo sulla via di Chiaravalle per Mongiana.  Il cav. Quaranta riferisce che «I grandiosi depositi di minerali di ferro e di grafite di che la natura, generosa anche in ciò, dotava il Reame, spargendolo in mezzo al gruppo di Appennini che sta fra l’Ionio e il Tirreno, sono stati sempre oggetto dell’attenzione dell’augusto Monarca. Onde fin dal 1844 aveva la M.S. ordinato che dal ponte dell’Angitola all’Ancinale, cioè dalle sponde del Tirreno a quelle dello Ionio si aprisse una strada rotabile e si diramasse per gli alti piani della Serra fino alla colonia della Mongiana, con lo scopo di agevolare il commercio di quella sì vistosa e rilevante parte del Regno. Volle quindi S.M. percorrere la strada che congiunge i due mari, e visitare al tempo stesso la colonia della Mongiana che tanto è cresciuta in floridezza sotto il suo paterno dominio».

Ambedue gli argomenti (ponte e opifici) necessitano di un adeguato approfondimento che spero di completare quanto prima, anche per sfatare la leggenda montata dai nostalgici sull’importanza strategica ed economica delle “ferriere” e “fabbrica d’armi” delle Serre su cui tanto si è scritto e dibattuto.

Un’idea dello sfascio tecnico ed economico dell’attività è intuibile dal rapporto che il 17 Ottobre, secondo e ultimo giorno della visita del monarca a Mongiana (Ferdinandea era disattivata), il comandante Pacifici diresse all’Ispettore Capo in Catanzaro.

 

6. Conclusioni.

La conclusione è dettata dallo stesso De Cesare. «Così ebbe termine il viaggio, che fu l’ultimo compiuto da Ferdinando II nelle Calabrie e in Sicilia. Esso non arrecò alcun reale vantaggio alle provincie calabresi, le quali seguitarono ad essere divise dal mondo e separate fra loro da distanze assurde. Il compassionevole abbandono, in cui il Re ritrovava, dopo otto anni, quelle provincie, prive di strade, di ponti, di telegrafi e di cimiteri, non lo commosse e assai meno lo turbò. Gli stessi pericoli, ai quali egli fu sottoposto per il pessimo stato delle vie, e i lamenti, per quanto umili e rispettosi, delle deputazioni che corsero ad ossequiarlo, gli strapparono soltanto risposte sarcastiche, o promesse burlesche, ma non gli aprirono la mente ai bisogni di quelle contrade».

Riguardo ai telegrafi, esisteva solo quello ad asta sul modello Chappe lungo la costa. Per motivi congeniti al sistema, non poteva che funzionare imperfettamente ma lo fece egregiamente quando venne trasmessa da Pizzo a Napoli la notizia della fucilazione di Murat.

I cimiteri, poi, nonostante le rigide disposizioni legislative del 1817 cui seguirono numerose deroghe a favore di prelati, conventi e nobiltà, rimanevano un fatto largamente incompiuto. Norman Douglas (old Calabria, London, 1915, in Italia edito da Giunti), che visitò più volte la Calabria tra il 1907 e il 1911, riferisce che il vecchio sistema di inumazione nelle chiese era tuttora vigente e che vi erano ancora «più di seicento di queste fosse carnaie in uso per la maggior parte delle chiese».

Secondo un censimento ufficiale del 1899, la situazione rimaneva catastrofica. Dei 409 comuni calabresi, solo 235 erano provvisti di cimitero regolare e 94 di cimitero irregolare. I restanti 80 comuni, mancanti di cimitero, seppellivano ancora nelle fosse carnaie. Ma anche questo è un altro discorso.

 

 

 

 

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