Il viaggio di Ferdinando II in Calabria nell’autunno del 1852
Nell’autunno del 1852, quattro anni dopo sollevazione delle Calabrie e la violenta repressione borbonica, Ferdinando II intraprese un viaggio che, dal lunedì 27 Settembre al venerdì 29 Ottobre, lo condusse attraverso la Basilicata e la Calabria, sino a Catania. Per gli scaramantici, il viaggio iniziò e terminò in giorno di novilunio. Estensore della minuziosa cronaca degli avvenimenti, pubblicata a caldo negli Annali Civili del Regno delle Due Sicilie – fascicolo XCII del 1852, fu il Commendatore Bernardo Quaranta (1796-1867) dei Baroni di San Severino, noto intellettuale napoletano che ebbe a ricoprire numerosi incarichi pubblici e, al momento, titolare della cattedra di archeologia e letteratura greca presso la Regia Università degli studi di Napoli. Due anni dopo scriveva una Orazione per la incolumità prodigiosa di Ferdinando II Re del Regno delle Due Sicilie, a seguito dell’attentato al Re avvenuto l’8 Dicembre 1856 ad opera di Agesilao Milano, uno dei calabresi che il Re era venuto a pacificare nel suo viaggio. La pubblicazione degli Annali era naturalmente sotto il vigile controllo del governo Borbonico e ogni “pezzo” veniva vagliato dalla censura (Note introduttive agli Annali Civili del Regno delle Due Sicilie – Archivio di Stato di Lecce).
Il viaggio iniziò la sera di lunedì 27 Settembre al porto militare di Napoli con l’imbarco del Re e dello Stato maggiore dell’esercito sul piroscafo Fulminante affiancato da una piccola flotta di altre fregate a vapore: il Guiscardo, il Ruggiero, il Sannita, il Carlo III e il Veloce. Facevano parte del seguito il figlio sedicenne Francesco Maria Leopoldo Duca di Calabria e il germano venticinquenne Don Francesco di Paola Luigi Emanuele, conte di Trapani, che si era sposato appena due anni prima. Il Re aveva 42 anni e regnava da 22. L’operazione, definita “esercitazione autunnale” per “addestrar le truppe in quell’arte (militare)” fu intrapresa con il dispiegamento di una colonna mobile composta da 16 battaglioni, 8 squadroni e 20 pezzi d’artiglieria, un chiaro monito alle ribelli popolazioni calabresi. Degna di menzione è la presenza nella truppa e segnatamente nel 13° battaglione Cacciatori (composto da svizzeri), in qualità di chirurgo, del ventottenne Horace de Rilliet che tenne un diario di viaggio corredato da 203 bozzetti raffiguranti luoghi e scene di vita quotidiana (Tournée en Calabre, pubblicato a Ginevra 1852 e in edizione italiana da Brenner, 1960 e Rubbettino, 2008). Giovane di intelligenza vivace, dotato di buona cultura e soprattutto di rara sensibilità umana, Rilliet morì a Napoli appena trentenne, due anni dopo di quegli avvenimenti. Di lui, esponente di secondo piano della truppa (un chirurgo inquadrato nel 13° bataillon de chasseurs) non fa nessuna menzione il Quaranta e neppure De Cesare ma ha meritato il plauso, seppure postumo, di Benedetto Croce, che ha definito il suo lavoro come "il più vivo quadro della Calabria circa la metà del secolo passato" (Aneddoti di varia letteratura, Ricciardi, 1942).
La tabella di marcia del Re è sintetizzata nel quadro che segue.
Raffaele De Cesare (1845-1918) ha dedicato un intero capitolo a quell’avvenimento (La fine di un regno, Città di Castello, 1900), illustrando talora particolari inediti, anche curiosi, ricevuti da testimoni dell’avvenimento. Da un’attenta lettura dei racconti di Quaranta, Rilliet e De Cesare, scaturiscono spontanee alcune riflessioni.
1. L’epoca del viaggio Il periodo designato per le operazioni militari è stato scelto incautamente a causa della malaria che imperversava normalmente sino a fine autunno e - con particolare virulenza - nella Piana di Santa Eufemia e in quella di Rosarno, attraversate dal monarca (cfr. Afan De Rivera: Considerazioni sui mezzi da restituire…, 1833; Cortese: Descrizione geologica della Calabria, 1875). Il periodo più favorevole sarebbe stata la primavera. Per precauzione i postali percorrevano quei luoghi, paludosi e malsani, unicamente di giorno, per evitare contatti prolungati con l’aria mefitica (il ciclo della malaria venne scoperto solo alla fine di quel secolo). «La malaria fu fatale alle truppe… morirono parecchi soldati e due ufficiali della Guardia Reale, molti gl’infermi e moltissimo il malcontento». (De Cesare)
2. I rapporti con la popolazione Nella descrizione del Cav. Quaranta «l’adorato monarca, oggetto di sentita e schietta venerazione, padre della patria, salvatore dei popoli, protettore delle famiglie, dispensatore della pace, la cui voce “può lenire ogni sciagura”, fu accolto dal popolo gongolante di gioia con tripudio, con rami di olivo, archi di trionfo, arazzi, broccati, serici trapunti e stoffe colorate ostentate dalle finestre, baldacchini, vessilli, canti, suoni di campane, salve di cannone, fuochi pirotecnici» e così via. L’ingresso di Gesù in Gerusalemme, esaurito in soli due versetti biblici (Luca 19: 37-38), al paragone, era ben poca cosa. Ovviamente le autorità locali (intendenti le province, decurioni, etc.) ebbero cura di preparare al meglio le cerimonie di accoglienza per «colui che fiaccò le teste all’idra della rivolta» e, «per dirlo tutto allo stile del profeta, quelle facce di bronzo che si adirono di muover guerra a Dio e a’ Troni» (ndr.nessun profeta ha mai proferito quelle parole). Le cose, al difuori delle apparenze, erano ben diverse. La Calabria era appena uscita, stremata e impaurita, da una ribellione di popolo soffocata nel sangue. «Il Re ebbe in questo viaggio un contegno addirittura stravagante: fu più volte scortese senza necessità; capriccioso, mordace, caparbio e diffidente sempre; trovò facili pretesti per motteggiare sulle cose del 1848 e rimproverare in pubblico le autorità, ritenute sospette politicamente» (De Cesare). Durante il viaggio ebbe più volte a stizzirsi coi familiari supplicanti dei rivoltosi in galera o in esilio, oltre che coi magistrati e gli amministratori, che riteneva degli incapaci. Vale per tutti l’esempio di Luigi Corapi, presidente dalla Corte Criminale di Cosenza che, umiliato dal Re, si dimise dalla carica con un atto di grande dignità. Le pubblicazioni sulla rivoluzione calabrese del ’48 non si contano, ma mi piace segnalare il racconto edito a Catanzaro nel 1882 dal titolo Storia della rivoluzione del distretto di Nicastro nel 1848 per G.V., «uomo integerrimo ed incapace di mentire per qualsiasi ragione… che volle tacere il suo nome, ed oggi essendo morto, a noi incombe di rispettare il segreto; ci contentiamo perciò di apporne davanti all’opuscolo le sole iniziali”. L’autore, testimone oculare di quegli avvenimenti, scrisse che «I regii più barbari dei Cosacchi e degli Arabi, seviziavano i cadaveri, abbandonati sul terreno con le teste troncate, contusi di colpi sformati, pasto dei cani e delle belve feroci».
3. Il monarca, il clero e la religione. Il cav. Quaranta s’intrattiene abbondantemente sugli aspetti della religiosità del monarca, «addottrinato all’amorosa sapienza del Vangelo», che «si prostra riverente innanzi agli altari per ringraziare il Sommo dator d’ogni lume» e al quale Iddio ha confidato «parte dell’umano genere», associandolo a «governare una porzione del mondo» e - suo malgrado - costretto «ad usare l’autorità ricevuta da Dio sopra la vita degli uomini, e lasciar libero corso alla severità della giustizia». Quella giustizia e quell’amore del Vangelo si erano ben viste nella feroce repressione dei moti di quattro anni prima, ma quella è tutt’altra storia, sin troppo conosciuta. La superstiziosa religiosità del monarca, ingessato nel diritto di sovranità per investitura divina e nella piena sottomissione all’autorità papale (enciclica Unam Sanctam Ecclesiam di Bonifacio VIII secondo cui l’autorità temporale dev’essere sottoposta a quella spirituale) è di tutta evidenza nelle disposizioni date per la costruzione e la restaurazione delle chiese e la munificenza verso le parrocchie e i conventi, che lo ospitarono per nove notti. Durante il viaggio assistette undici volte alla messa, dieci al canto del Te Deum e ricevette per ben diciotto volte la benedizione del Santissimo. Diede disposizione affinché fossero restaurato un eremitaggio, un convento e quindici chiese. Non c’è bisogno di dilungarsi sul fatto che le attività culturali e assistenziali, come d’altronde avveniva direttamente o indirettamente in tutto il Regno, erano concentrate nelle mani dei religiosi. Sintomatica a questo proposito è la presenza, nel corteo reale, di Francesco Scorza, direttore del ministero degli affari ecclesiastici e della pubblica istruzione, unitosi al corteo reale il 27 settembre a Lagonegro. Il Re volle per compagno di viaggio «l’augusto suo primogenito per trasfondergli il senno, la prudenza, e la giustizia, che apportano salvezza e dovizia alle genti, e fanno d’un Sovrano l’immagine viva di Dio». Pare di riascoltare il popolo di Gerusalemme che acclamava Erode Agrippa I, nipote di Erode il Grande, al grido di «Voce di Dio, non di un uomo» (Atti 12:22-23). La fine di quel re, che aveva fatto perire di spada Giacomo, fratello di Giovanni, è ben nota. Il relatore riferisce di un fatto molto curioso che sa di fantasia, avvenuto a Lagonegro dopo che il monarca ebbe udito il Te Deum e preso la benedizione del Santissimo. «Fra la moltitudine quivi fitta e bramosa di fruir dell’augusto cospetto, notossi una contadina di molta età che cercava di aprirsi un varco fra la calca per veder una volta da presso il Padre della Patria. Ella non chiese altra grazia che questa, pianse quando l’ebbe ottenuta e fé piangere gli astanti allorché disse di chiuder contenta gli occhi al sonno della tomba, dopo averli affissi sul sacro volto di Colui che liberò il paese dalla peste rivoluzionaria» (pag. IX). A chi ha dimestichezza col Vangelo non sarà certamente sfuggito il parallelo con la vicenda di Simeone narrata in Luca 2:25-32. «Vi era in Gerusalemme un uomo di nome Simeone; quest'uomo era giusto e timorato di Dio, e aspettava la consolazione d'Israele; lo Spirito Santo era sopra di lui; e gli era stato rivelato dallo Spirito Santo che non sarebbe morto prima di aver visto il Cristo del Signore. Egli, mosso dallo Spirito, andò nel tempio; e, come i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere a suo riguardo le prescrizioni della legge, lo prese in braccio, e benedisse Dio, dicendo: «Ora, o mio Signore, tu lasci andare in pace il tuo servo, secondo la tua parola; perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, che hai preparata dinanzi a tutti i popoli per essere luce da illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele». Un’iperbole mi conduce alle recenti risoluzioni UNESCO tendenti a recidere il cordone ombelicale che unisce da tremila anni i destini di Israele a quelli di Gerusalemme. «Bello si erge, e rallegra tutta la terra, il monte Sion: parte estrema del settentrione, città del gran Re» (Sal 48:2). La devozione scaramantica del monarca è ben nota. Un episodio descritto dal De Cesare ne illustra bene i contorni. A Messina nella chiesa dei Benedettini il Re «cavò di tasca un libro di preghiere, pieno di immagini sacre, fra le quali fu vista quella di San Francesco di Paola. Quando, voltando le pagine, gli veniva innanzi qualcuna di quelle effigie, egli la baciava…» (Vol. I pag. 40).
4. Territorio e la viabilità «Il Re comanda che si ergano templi, si traccino strade, si aprano porti, si fondino ospizi, si appianino monti, si colmino valli» (Quaranta – pag. V). La rete viaria calabrese, ancora alla fine del secolo XIX, era composta essenzialmente dall’antica “strada della Calabrie” c.d. “Consolare”, che iniziava al Ponte della Maddalena e, dopo aver attraversato Salerno e Lagonegro, penetrava nella Calabria Citra attraverso le gole di San Martino. Il tratto calabrese, dalle montagne del Pollino a Villa San Giovanni, fu percorso dal Re fra molti disagi. Si trattava di una strada sterrata, nominalmente carrozzabile, che nella stagione piovosa diveniva per lunghi tratti fangosa e impraticabile. Da Villa a Reggio esisteva solo un sentiero naturale lungo la costa e i torrenti frapposti venivano attraversati a guado. La rete stradale calabrese misurava complessivamente 420 chilometri e oltre alla “Consolare”, ancora nel 1885 (carta d’Italia alla scala 1: 1.000.000 per i tipi dell’Istituto Geografico Militare), comprendeva alcune traverse che da quella congiungevano Rossano, Paola, Catanzaro, Nicastro e la Marina di Gerace. Rilliet - Guado del Mercuro o Leo che «separa i lucani dà bruzi». Dei 412 comuni in cui era divisa allora la Calabria, ben 371 non avevano traccia di strade. Le uniche vie di comunicazione erano rappresentate da sentieri, percorribili solo a piedi e da animali con carico alleggerito (i lancieri vi transitavano a piedi, tirando le loro cavalcature per la briglia) o mulattiere, transitabili da animali da soma con carico regolare. I lavori di costruzione della carrozzabile per Crotone, che il Re volle visitare una volta giunto a Catanzaro, erano appena iniziati. La via rimase sempre sprovvista di ponti e il guado dei numerosissimi torrenti frapposti tra le due località, d’inverno, era impossibile. Quanto ai ponti sui torrenti calabresi, essi erano costruiti solitamente con travi e tavolati su spalle di pietrame, che le piene rovinavano sistematicamente. Rarissimi i ponti in muratura. Il guado di molti fiume era d’obbligo. Esso veniva facilitato talora dalla posa in opera sui sedimenti fluviali di traverse di quercia (Amato, Torbido, Pesipe, Angitola) per una larghezza intorno ai sedici palmi. Il nevralgico ponte “del Calderaio” sull’Amato era in legno e fu costruito in muratura ottant’anni dopo (Ministero dei LL.PP - Opere Pubbliche 1922 - 1932. Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1932). Il ponte sull’Angitola sul quale passò il monarca era stato ultimato da un paio d’anni. Esso ha rappresentato un raro esempio di buona ingegneria. Il suo costo spropositato era giustificato non dalle esigenze delle popolazioni, ma dal fatto che in Pizzo, dotato di un importante porto commerciale, era stabilita dogana di prima classe e a Soverato, collegato a questo dalla dorsale, dogana di seconda classe. Di qua l’importanza attribuita alla strada congiungente i due mari, che doveva servire anche gli opifici della Mongiana. Date le pessime condizioni di quella strada il Re, per percorrerla, dovette rinunciare alla carrozza reale e munirsi di “legni leggeri”, un piccolo phaéton attaccato alla daumont, con un postiglione (sorta di carrozza leggera scoperta, a quattro ruote, con due sedili). Nella foresta da Serra a Mongiana fu tracciata per l’occasione, dai contadini, un’apposita pista. Essendo molto disagevole, in alcuni punti “gli indigeni” dovettero sollevare di peso il legno reale.
5. Gli opifici della Mongiana Il 16 di Ottobre il sovrano si avviò da Pizzo sulla via di Chiaravalle per Mongiana. Il cav. Quaranta riferisce che «I grandiosi depositi di minerali di ferro e di grafite di che la natura, generosa anche in ciò, dotava il Reame, spargendolo in mezzo al gruppo di Appennini che sta fra l’Ionio e il Tirreno, sono stati sempre oggetto dell’attenzione dell’augusto Monarca. Onde fin dal 1844 aveva la M.S. ordinato che dal ponte dell’Angitola all’Ancinale, cioè dalle sponde del Tirreno a quelle dello Ionio si aprisse una strada rotabile e si diramasse per gli alti piani della Serra fino alla colonia della Mongiana, con lo scopo di agevolare il commercio di quella sì vistosa e rilevante parte del Regno. Volle quindi S.M. percorrere la strada che congiunge i due mari, e visitare al tempo stesso la colonia della Mongiana che tanto è cresciuta in floridezza sotto il suo paterno dominio». Ambedue gli argomenti (ponte e opifici) necessitano di un adeguato approfondimento che spero di completare quanto prima, anche per sfatare la leggenda montata dai nostalgici sull’importanza strategica ed economica delle “ferriere” e “fabbrica d’armi” delle Serre su cui tanto si è scritto e dibattuto. Un’idea dello sfascio tecnico ed economico dell’attività è intuibile dal rapporto che il 17 Ottobre, secondo e ultimo giorno della visita del monarca a Mongiana (Ferdinandea era disattivata), il comandante Pacifici diresse all’Ispettore Capo in Catanzaro.
6. Conclusioni. La conclusione è dettata dallo stesso De Cesare. «Così ebbe termine il viaggio, che fu l’ultimo compiuto da Ferdinando II nelle Calabrie e in Sicilia. Esso non arrecò alcun reale vantaggio alle provincie calabresi, le quali seguitarono ad essere divise dal mondo e separate fra loro da distanze assurde. Il compassionevole abbandono, in cui il Re ritrovava, dopo otto anni, quelle provincie, prive di strade, di ponti, di telegrafi e di cimiteri, non lo commosse e assai meno lo turbò. Gli stessi pericoli, ai quali egli fu sottoposto per il pessimo stato delle vie, e i lamenti, per quanto umili e rispettosi, delle deputazioni che corsero ad ossequiarlo, gli strapparono soltanto risposte sarcastiche, o promesse burlesche, ma non gli aprirono la mente ai bisogni di quelle contrade». Riguardo ai telegrafi, esisteva solo quello ad asta sul modello Chappe lungo la costa. Per motivi congeniti al sistema, non poteva che funzionare imperfettamente ma lo fece egregiamente quando venne trasmessa da Pizzo a Napoli la notizia della fucilazione di Murat. I cimiteri, poi, nonostante le rigide disposizioni legislative del 1817 cui seguirono numerose deroghe a favore di prelati, conventi e nobiltà, rimanevano un fatto largamente incompiuto. Norman Douglas (old Calabria, London, 1915, in Italia edito da Giunti), che visitò più volte la Calabria tra il 1907 e il 1911, riferisce che il vecchio sistema di inumazione nelle chiese era tuttora vigente e che vi erano ancora «più di seicento di queste fosse carnaie in uso per la maggior parte delle chiese». Secondo un censimento ufficiale del 1899, la situazione rimaneva catastrofica. Dei 409 comuni calabresi, solo 235 erano provvisti di cimitero regolare e 94 di cimitero irregolare. I restanti 80 comuni, mancanti di cimitero, seppellivano ancora nelle fosse carnaie. Ma anche questo è un altro discorso.
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