Mariano D’Ayala, la penna e la spada del Risorgimento italiano

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Categoria: Storia del Risorgimento
Creato Domenica, 18 Dicembre 2016 18:09
Ultima modifica il Mercoledì, 28 Dicembre 2016 18:19
Pubblicato Domenica, 18 Dicembre 2016 18:09
Scritto da Antonella Orefice
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Non fu un biografo delle grandi individualità, non si concentrò su una o poche emblematiche figure. Lo storico Mariano D’Ayala si mosse alla ricerca di una miriade di protagonisti egualmente eroi nelle diverse e drammatiche stagioni della lotta risorgimentale italiana, trovando per ciascuno di essi frammenti  da consacrare alla  memoria dei posteri.

Seguendo il filo rosso di Vincenzo Cuoco e Francesco Lomonaco per ritrovare le origini del Risorgimento,  egli gettò un ponte tra la vicenda illuministico - giacobina del 1799 nel Regno di Napoli ed il più complessivo processo di rovesciamento dell’ordine politico  della Restaurazione, che ebbe origine subito dopo il 1815.

Associando la lotta antiborbonica al complessivo processo risorgimentale, il D’Ayala individuava a Napoli alcuni tra i luoghi originari dell’Unitarismo. E’ comprensibile come, da uomo del suo tempo, considerata l’esperienza fallimentare della Repubblica del ‘99, vedesse nella casa Savoia gli antagonisti dei Borbone, coloro che avrebbero unificato e salvato l’Italia, garantendo al Sud  una sana politica liberale.

 

La Repubblica divideva, secondo le sue considerazioni, e solo una monarchia costituzionale avrebbe potuto unire e risollevare le sorti del paese. Ci credeva D’Ayala, tanto da sostenerne politicamente e militarmente la causa e riceverne, alla fine, una grossa delusione per tutti i risvolti negativi che comportò l’Unificazione del paese sotto la monarchia sabauda, conseguenze che avrebbero dato vita alla tanto attuale e discussa “questione meridionale”.

Sarebbero dovuti trascorrere i duecento anni profetizzati dal Cuoco per comprendere quanto gli eroi  della Repubblica Napoletana del 1799 fossero stati, invece, lungimiranti, superando gli ideali monarchici del Risorgimento, guardando ad un’Italia oltre che libera ed unificata, repubblicana e paese della comunità europea. Ci sarebbero voluti due secoli ancora per realizzare pienamente un sogno che allora costò la vita di tanti giudicati rei di Stato, solo per aver tentato di gettarne le basi.

Non ci soffermeremo in questa sede sulle problematiche della storia scritta e da riscrivere del Risorgimento Italiano, onde evitare un discorso troppo ampio che esulerebbe dalle specifiche finalità del nostro lavoro, ma ci limiteremo a tracciare in linea generale il panorama storico dell’Italia risorgimentale ed il pensiero liberale progressista del nostro autore il quale, vivendo un periodo ricco di grandi mutamenti, ne fu protagonista sia come uomo politico che intellettuale.

Non era persuaso il  D’Ayala che la forza morale delle idee e dell’educazione potesse, da sé sola piegare il governo alle riforme liberali perché, nel guardarsi intorno, notava che i liberali veri, quelli che erano pronti ad ogni pericolo si contavano sulle dita.

Accanto ad un immenso volgo di ricchi e di poverissimi stava l’ordine mezzano, dove i sentimenti civili avevano  più larghe radici, ma con desideri ed  intenti diversi.

Alcuni vagheggiavano una specie di assolutismo illuminato e giusto come quello che il Regno delle due Sicilie aveva conosciuto durante il periodo di Gioacchino Murat (1806-1815), altri volevano una costituzione alla francese, pochi erano propensi all’indipendenza dell’Italia, ancora di meno pensavano all’Unità.

Fino al 1848, il pensiero moderato, da Gioberti a Balbo aveva cercato di accreditare l'ipotesi di una confederazione di Stati aperti a istituzioni moderatamente rappresentative, presieduta dal papa o dal re di Sardegna, cui sarebbe spettato il compito di unificare il mercato della penisola attraverso una grande lega doganale.

L'elezione di Pio IX al soglio pontificio parve confortare questa tesi; il biennio riformista 1846-1847 vide quasi ovunque la concessione della libertà di stampa e della Guardia civica, e la nascita di un'opinione pubblica moderna, prerequisito indispensabile alla concessione delle costituzioni (1848). Sembrava possibile un'unità federalista e neoguelfa, guidata dai notabilati dei vecchi stati restaurati.

La rivoluzione del febbraio 1848 a Parigi dimostrò invece la precoce obsolescenza non solo di questo programma, ma persino di quello, altrettanto limitato, legato a un ancora incerto liberalismo sabaudo, incapace di coinvolgere nella prima guerra d'indipendenza gli altri sovrani italiani. Sconfitti i piemontesi, la guida del moto passò ai democratici, che sperimentarono governi rivoluzionari a Venezia, Firenze e Roma.

La Repubblica romana (1849) di Mazzini e Garibaldi segnò il culmine della "guerra di popolo", sfortunato tentativo di affermare l'unità nazionale chiamando a raccolta le forze interne disponibili, al di fuori di qualsiasi accordo dinastico o internazionale. La repressione francese e austriaca e il ritorno agli antichi poteri dispotici ridussero i margini di manovra dei mazziniani, confermando il ruolo guida assunto dal Piemonte di Vittorio Emanuele II.

Durante il decennio di preparazione (1849-1859), il Regno di Sardegna attuò una rapida modernizzazione delle istituzioni politiche in senso liberalcostituzionale e delle infrastrutture necessarie al decollo economico; i governi di Cavour, inoltre, crearono le condizioni diplomatiche favorevoli a una soluzione della "questione italiana" concertata a livello europeo.

La partecipazione sabauda alla guerra di Crimea e gli accordi di Plombières con Napoleone III (1859) in funzione antiaustriaca affiancarono la mobilitazione del mondo patriottico intorno a Vittorio Emanuele e permisero, nel biennio 1859-1860, la seconda guerra d'indipendenza e quindi la conclusione in chiave monarchico-unitaria della vittoriosa spedizione dei Mille di Garibaldi nel Mezzogiorno, inizialmente osteggiata da Torino.

Nel 1861, con la proclamazione del Regno d'Italia, si esauriva la prima fase del Risorgimento, definitivamente concluso con la liberazione del Veneto (1866) e di Roma (1870).

Mariano D’Ayala, impegnato nella scena politica, visse da protagonista tutte le fasi di questo lungo e travagliato periodo storico della nazione, subendo prigioni ed esilio, assumendo incarichi militari e letterari, combattendo sempre per la causa patriottica, sia con la penna che la spada.

Durante i moti del 1848, come riportano le Memorie del figlio Michelangelo, in casa del liberale progressista D’Ayala era un andirivieni continuo: non si discorreva che di faccende politiche, si leggevano con ansia i giornali, le lettere degli amici  da ogni parte d’Italia, le poesie di Mameli e del Giusti, si presentavano giovani pieni di entusiasmo proponendo i disegni più temerari, e le che donne lavoravano alle coccarde tricolori.

E  finalmente la sera, a compimento dell’opera, tutti intorno al pianoforte, suonato dalla padrona di casa, a cantare in coro l’inno a Pio IX. Che fede, che entusiasmo, che verginità di sentimenti e di affetti! La patria si amava davvero a quei tempi là, per sé medesima, non per tirarne una prefettura o un ministero.

Ciononostante Ferdinando II di Borbone continuava a fare orecchie da mercante, alimentando nei liberali spazientiti il desiderio di una ribellione popolare. Cominciò a scuotersi dopo che iniziarono focolai di rivolta nel Cilento e sulle rive del Sele, e gli pervenne una lettera del Generale Francesco Pignatelli in cui manifestava nobilmente i sentimenti della maggioranza dei cittadini, esortandolo a soddisfarli.

Mariano D’Ayala, in rappresentanza del popolo liberale, fu chiamato a  presentare al sovrano Borbone le sue proposte di riforma costituzionale, elencate su un foglio sottoscritto da duecentonove cittadini. Tra le firme, per uno studioso del 1799 saltano immediatamente agli occhi quelle di Michele e Ferdinando de Fonseca Pimentel, Lorenzo Montemayor, Giuseppe Cirillo, Antonio Ciccone, Giuseppe Marini Serra, Giuseppe De Simone, Francesco Pignatelli, Domenico Albanese, tutti nomi riconducibili ai parenti dei giustiziati del 1799.

Pur se in numero esiguo, ciò dimostra quanto la censura e la persecuzione borbonica inflitta ai parenti degli eroi del 1799, non aveva allontanato poi così radicalmente da essi il desiderio di riscatto, anzi.

Basta pensare che Michele de Fonseca Pimentel fu il fratello maggiore di Eleonora, la celebre redattrice del Monitore Napoletano, che fu tramandata nella letteratura borbonica come la “pecora nera della famiglia” da cui i familiari per primi ne avevano preso le distanze. A quanto pare la storia vera, quella  documentata ci dice ben altro.

Quando il D’Ayala seppe in confidenza dal generale Filangieri che il re aveva deciso riconcedere la costituzione, corse dagli amici a recare la lieta novella. Figurarsi se quello fu un giorno di festa!

Erano tanti anni che lavoravano e vivevano tra le ansie ed i pericoli per vederlo quel giorno.

E quando all’alba del 29 gennaio 1848 si lesse sulle cantonate l’aspettato decreto, la gioia di quel numero ristretto di uomini di fede antica ed operosa si propagò come scintilla elettrica in ogni ordine di cittadini, travolti quasi senza avvedersene  nel comune entusiasmo indescrivibile per le vie e le piazze della città. E le coccarde, le bandiere di tre colori, che sino allora erano rimaste nascoste e sotterrate quali segni di immenso delitto, vennero fuori per incanto e Mariano d’Ayala, in carrozza con la sua Giulia, le portava sventolando da un capo all’altro di Toledo.

A mano a mano che la notizia giungeva nelle altre città italiane, si manifestava dappertutto il medesimo entusiasmo.

Il D’Ayala dava conto degli avvenimenti ai giornali di Roma, di Bologna e di Torino, ed invitava gli amici di là ad inviare deputazione di bandiere per assistere alla promulgazione della costituzione, in attestato di unità e fratellanza. Ma ancora non era nata la libertà e già nelle diverse parti d’Italia venivano fuori disegni diversi, desideri inopportuni, discorsi inutili.

Combatté e scrisse, dunque,  per la libertà italiana Mariano D’Ayala, iniziando dal celebrare i primissimi giustiziati del 1794 (Tommaso Amato, Emanuele De Deo, Vincenzo Galiani e Vincenzo Vitaliani), proseguendo con Mario Pagano, Vincenzo Russo, Domenico Cirillo, Ettore Carafa, Eleonora de Fonseca Pimentel e gli altri martiri del ’99, fino a quelli della sua generazione, (tra cui Carlo Pisacane che era stato suo allievo alla Nunziatella).

Nei suoi scritti celebrò il filone più radicale del liberalismo italiano, filone che aveva tratto origine e ispirazione dalla cultura illuminista, libertaria e cosmopolita e dalla Rivoluzione francese. Il “dare la vita per la Patria” o “per la Libertà” – che è concetto più preciso – costituì per lui il gesto supremo, il culmine dell’altruismo, la forma più alta dell’azione politica.

Affermare che il 1799 napoletano era stato il primo esempio di una “rivoluzione attiva” in Italia (come scrisse Lomonaco) e non già una “rivoluzione passiva” (come invece sull’onda emotiva scrisse Cuoco), significava modificare radicalmente la prospettiva storica ed evidenziare che era già stato possibile, nel passato recente, trovare in Italia le energie politiche ed ideali per attivare un moto spontaneo, popolare e nazionale, di liberazione ed unificazione.

In  Vite deg’Italiani benemeriti della libertà e della Patria, opera postuma pubblicata dai figli, furono assemblate tutte le notizie biografiche da lui raccolte in oltre trent’anni di  faticose e meticolose ricerche storiche, per le quali non mancò di denunciare la lacunosità dei documenti,  insistendo presso i Comuni affinché istituissero archivi, albi, ponessero lapidi e raccogliessero cimeli per ricordare i patrioti morti combattendo o giustiziati per mano del carnefice.

A Mariano D’Ayala dobbiamo le due lapidi apposte sul palazzo San Giacomo, sede del Municipio di Napoli, che commemorano i martiri della libertà italiana. A muoverlo fu certamente il desiderio di tramandare ai posteri vicende politiche e storiche di cui già nel 1871 era cominciato il decadimento.

E’ indubbio che la Repubblica Napoletana del 1799 fu la cellula originaria delle sue idealità politiche. Le sue ultime memorie, rimaste inedite, Cronaca della Repubblica Napoletana del 1799, scritta nel febbraio del 1847, e l’altra su Le nobili donne del 1799, testimoniano come D’Ayala conservò vivi, fino alla fine dei suoi giorni ed in epoca diversa,  l’interesse e la curiosità per quella prima vicenda della sua patria napoletana.

Ma i tempi erano cambiati. Giunti alla fine dell’Ottocento, compiuta l’Unità d’Italia, l’abitudine alla vita pratica e reale  aveva reso retorica tutto ciò che un giorno aveva acceso i cuori e ravvivato le menti.

Nonostante il lavoro impagabile di decenni, gli editori non vedevano più nei suoi libri una buona mercanzia, ma quel che più lo addolorò alla fine fu  l’indifferenza altrui per le sue ricerche, che comunque proseguì sempre con ardore, nonostante i rifiuti scortesi e  le risposte fredde dei parenti degli eroi che voleva commemorare.

E spesso anche dagli amici gli toccò sentirsi dire: Ma smettila di affaticarti dietro a questi morti; pensa ai vivi, datti a lavori più utili, non ti perdere nell’ideale oggi che tutti vanno alla ricerca del reale. Furono quelle parole tutte trafitture per il suo cuore, ma  comunque non lo distolsero mai dalla missione di cui da sempre si era sentito investito.

Mi trovo meglio tra i morti che con i vivi – ripetè spesso, e quando riusciva a trovare un autografo, un documento su Pagano, Cirillo, o su qualsiasi altro martire del 1799, per lui era un giorno di festa; tornava a casa lieto, sorridente, dimentico delle delusioni accumulate in tanti anni di carriera politico-militare.

E così continuò fino alla fine. Dopo aver trascorso anni ed anni cercando al grande archivio (oggi Archivio di Stato di Napoli), o negli archivi municipali dei Comuni vicini, interrogando luoghi, palazzi, i vecchi dei paesi, alla ricerca di ricordi, tombe, cimeli di famiglia, nel suo ultimo febbraio compilò la Cronaca della Repubblica Napoletana del 1799, mettendo in ordine tutto il materiale raccolto.

Fu il suo ultimo costante pensiero, come farebbe una persona che sa di dover andare via per sempre e quasi un’intima voce gli dicesse: “fra pochi giorni sarai morto.” Ed il 26 marzo se ne andò all’alba, stroncato da una polmonite. Morì con  un sorriso sulle labbra, ultima sua immagine tramandataci dal figlio Michelangelo, con un sorriso che lo aveva sempre contraddistinto pur nelle lotte spietate e le esigenze più impellenti della vita, un sorriso che lo aveva reso vincitore sempre e che nemmeno la morte riuscì a scomporgli.

Forse era il sorriso di un’anima che, dopo un’intera esistenza trascorsa tra peripezie e tormenti, affrontava con serenità il suo bardo, consapevole di  aver compiuto con amore e dedizione instancabile la sua più alta missione: consegnare alla memoria storica i martiri della libertà.

Forsan et haec olim meminisse juvabit” (E forse un giorno gioverà ricordare tutto questo): furono le parole di congedo alla vita pronunciate da Eleonora de Fonseca Pimentel il 20 agosto 1799, prima di avviarsi  al patibolo e Mariano D’Ayala, dopo gli esuli, è stato tra i primi ricercatori dell’Ottocento a ricordare Eleonora e con lei tutti gli altri giustiziati per mano dei Borbone, squarciando la damnatio memoriae da loro  inflitta allo scopo di distruggere anche il ricordo  dei sei gloriosi mesi della Repubblica Napoletana. 

Un lavoro, quello di D’Ayala,  prezioso ed impagabile a cui ogni ricercatore di verità e giustizia non può che esserne umilmente grato.

 

 

 

Abstract da Mariano D’Ayala e il Pantheon dei martiri del 1799, a cura di A. Orefice, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Press, Napoli, 2012