Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Meridionali nella Resistenza

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Nel Partigiano Johnny, Beppe Fenoglio descrive l'incontro del protagonista con i partigiani a cui ha deciso di unirsi. Il primo in cui s'imbatte è un militare sbandato, ancora vestito in grigioverde, che gli intima il chi va là "con un accento così disperatamente siciliano... che Johnny se ne risentì, stupì ed accorò incredibilmente.

Tutto aveva da essere così nordico, così protestante...". Si sa che Fenoglio, come il suo personaggio, avrebbe voluto essere inglese e che per lui gli italiani erano tutti troppo meridionali, compresi i suoi concittadini di Alba. Ma far incontrare a Johnny proprio dei siciliani serviva a sottolineare in tono ancora più ironico il contrasto fra le sue illusioni libresche e la realtà italiana in cui viveva.

Che fossero militari giunti in Piemonte per ragioni di servizio, o figli di immigrati nati e vissuti al Nord, i partigiani di origine meridionale erano tanti nella Resistenza piemontese, e non di rado famosi. Il mitico Barbato, comandante di tutte le divisioni Garibaldi del Cuneese, era l'avvocato siciliano Pompeo Colajanni, comunista da quando aveva quindici anni, sorpreso dall'8 settembre nella caserma del Nizza Cavalleria a Pinerolo dov'era ufficiale di complemento.

 

Dante Di Nanni, esponente di punta dei GAP torinesi, morto in battaglia nel cuore di quel Borgo San Paolo dove la via principale oggi porta il suo nome, era figlio di immigrati pugliesi, che avevano abitato in via del Carmine prima di trasferirsi nelle case popolari di zona Regio Parco.

A loro e a tanti altri come loro la storiografia piemontese dedica da tempo una rinnovata attenzione, testimoniata fra l'altro dal volume Meridionali e Resistenza.

Il contributo del Sud alla lotta di Liberazione in Piemonte, 1943-1945, uscito nel 2013 a cura di Claudio Dellavalle, presidente dell'Istituto Storico della Resistenza in Piemonte.

Le ricerche dirette da Dellavalle offrono un buon esempio delle possibilità che le nuove tecnologie offrono per l'analisi dei fenomeni di massa, paragonabile all'operazione che l'Archivio di Stato di Torino ha condotto sui garibaldini col progetto 'Alla ricerca dei garibaldini scomparsi'.

Alla fine della guerra di liberazione le commissioni per il riconoscimento dell'attività partigiana produssero decine di migliaia di schede individuali; nel 1995, per il cinquantesimo anniversario, gli Istituti piemontesi di storia della Resistenza le hanno utilizzate per creare online la Banca Dati dei Partigiani Piemontesi. L'elenco dei partigiani meridionali pubblicato in Meridionali e Resistenza si basa su queste fonti, ed è impressionante: sono circa 6000, di cui 3000 combattenti e 400 caduti, quasi un decimo dei 5800 caduti partigiani in Piemonte.

Nell'Italia di oggi, sottolineare che c'erano così tanti meridionali nella Resistenza piemontese potrà stupire e addirittura sembrare provocatorio, agli occhi di chi pensa che l'Italia non sia mai stata unita. Scorrendo quelle migliaia di nomi, l'occhio cade sui nomi di battaglia, riportati ogni volta che li conosciamo.

Qualcuno rimanda esplicitamente ai luoghi d'origine: fra i lucani, ben nove si chiamavano Potenza, sei calabresi si chiamavano Cosenza, diciotto siciliani si chiamavano Catania. Fra i siciliani incontriamo perfino un Giacomo Valenza, nome di battaglia Terrone. Ma tutti gli altri rimandano allo stesso immaginario adolescenziale italiano che già conosciamo attraverso i romanzi di Fenoglio e Calvino, e che spingeva quei ragazzi a chiamarsi Giarabub, D'Artagnan, Tarzan, Yanez, Sceriffo, Blek, Aquila rossa, o magari Lupo, Tigre, Feroce, Fulmine, Tempesta... Vien voglia avviare una ricerca di storia della mentalità sugli pseudonimi dei partigiani: ma non solo dei meridionali, però.

Perché riflettere su questo tema ci costringe a confrontarci con un problema fondamentale del lavoro dello storico: il modo in cui ci condizionano le preoccupazioni del presente. A ben guardare, che Pompeo Colajanni fosse di Caltanissetta lo abbiamo sempre saputo.

Solo che non era così importante sottolinearlo: se la sua presenza di siciliano in Piemonte poteva sembrare un dato rilevante, era semmai per sottolineare l'insipienza dello stato fascista, che metteva sotto sorveglianza quel pericoloso comunista, e poi lo spediva a Pinerolo a fare l'ufficiale di complemento in uno dei più prestigiosi reggimenti del Regio Esercito.

Quanto a Dante Di Nanni, bastava pensarci per capire che il suo nome era meridionale, solo che non ci si pensava proprio: sarà perché Borgo San Paolo è un luogo mitico della Torino operaia, ma a Dante Di Nanni abbiamo sempre pensato come a un gappista torinese, e basta.

Oggi, invece, diventa importante ricordare che i suoi erano meridionali. I suoi, non lui: e infatti Dante Di Nanni nella lista dei 6000 non c'è, perché l'elenco comprende solo quelli nati al Sud, non chi era nato al Nord da genitori magari appena immigrati.

Forse si poteva fare un passo in più, includendo anche la residenza e permettendoci di distinguere il fante della Quarta Armata, appena sbalzato dalla Francia in una regione per lui sconosciuta, dall'aggiustatore della Fiat che abitava da vent'anni in Barriera di Nizza. Perché, a dirla tutta, le identità si sovrappongono e convivono, e quello che insegnano tante di queste biografie è che si poteva essere al tempo stesso piemontese e meridionale, senza che una cosa escludesse l'altra.

Alla fine, constatare che nell'Italia del Duemila il luogo di nascita di un italiano è diventato così importante per definire la sua identità mette un po' di tristezza.

E' chiaro che anche allora quei meridionali erano consapevoli di esserlo, e che molti si saranno sentiti un po' sperduti in Piemonte; vorrà pure dir qualcosa che il gruppo cui si unì Michele Ficco, nato a Cerignola ma immigrato a sei anni a Nichelino, di mestiere tornitore al Lingotto, fosse soprannominato "la Legione straniera" per i tanti meridionali che ne facevano parte.

Ma io credo che insistere tanto su questa diversità non facesse parte del loro orizzonte, in quell'Italia degli anni Quaranta così diversa da quella di oggi.  Vincenzo Modica, il comandante Petralia, ricorda che a deciderlo a unirsi ai partigiani, l'8 settembre, furono "le parole che l'amico tenente Colajanni andava ripetendo a noi giovani ufficiali durante le passeggiate sotto i viali di Cavour: 'Vedete quelle montagne? Presto saranno piene di veri italiani'". Ci sarà una ragione se Barbato non disse "saranno piene di piemontesi e di meridionali".

 

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