Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Intervista a Joel Mokyr

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Joel MokyrNel 2015 il prestigioso premio Balzan per le scienze sociali è stato assegnato a Joel Mokyr, «per il pionieristico collegamento tra le scienze economiche e la storia». Mokyr (1946) si è occupato soprattutto di storia della tecnologia e della rivoluzione industriale.

Nei suoi libri più importanti, affreschi ampi e brillanti dove si fondono cliometria e interpretazioni qualitative, Mokyr ha saputo coniugare l’analisi storica con le nuove teorie evolutive e cognitive, evitando le spiegazioni monocausali. Il solido approccio interdisciplinare gli è valso riconoscimenti ben oltre i confini dell’accademia. Il giorno della premiazione – a Berna, il 13 novembre 2015 – Emanuele Felice lo ha intervistato sui temi fondamentali della storia globale: come e in che modo si è formato il mondo moderno, perché sul piano tecnologico e produttivo l’Europa riuscì a superare tutte le altre civiltà del passato.

Professor Mokyr, forse possiamo cominciare subito con la grande domanda sul nostro passato: perché la crescita economica moderna iniziò in Inghilterra, intorno alla metà del Settecento? Come sappiamo, sono state date risposte diverse (anche se non necessariamente fra loro esclusive): la geografia, il commercio, le conquiste imperiali, il costo del lavoro, le istituzioni. Nelle sue ricerche, lei sostiene che, insieme a questi fattori, un ruolo centrale fu giocato dalla cultura e, nello specifico, dall’Illuminismo.

 

Lei sottolinea come, secondo i pensatori dell’Illuminismo, la conoscenza fosse la chiave di volta per conseguire un progresso economico continuativo, e considerato sostenibile nel lungo termine. In aggiunta, i pensatori dell’Illuminismo hanno elaborato anche una strategia di massima per raggiungere tale obiettivo, basata su due grandi intuizioni: l’idea che (mettendola in parole semplici) le persone che «sanno» le cose debbano cooperare con le persone che «fanno» le cose e la tesi secondo cui le riforme istituzionali sono in grado di apportare benefici concreti al benessere degli individui.

Quest’ultima era a sua volta fondata sulla convinzione che siano possibili istituzioni che favoriscono la crescita; in altre parole, i pensatori dell’Illuminismo rifiutavano l’impostazione di un gioco a somma zero e credevano che si potessero ridisegnare le istituzioni in modo da migliorare le condizioni di tutti i componenti della società.

Alla luce di ciò, lei ritiene che il contributo dell’Illuminismo alla rivoluzione industriale sia stato ampiamente sottovalutato, almeno nella storiografia economica. Una ragione è che di norma si tende a vedere la rivoluzione industriale come essenzialmente inglese, l’Illuminismo come fondamentalmente francese. Ma a suo parere questo è un errore. Per quale ragione?

 

Il motivo principale è che nel Settecento un grande numero di importanti innovazioni proveniva dalla Francia, o dall’Europa continentale. Naturalmente noi dovremmo anche spiegare perché, se molte invenzioni si produssero in Francia, poi lì non si sono sviluppate; ma questo non è difficile.

Mi lasci fare solo un esempio, che probabilmente non è molto conosciuto. Aimé Argand (nato a Ginevra nel 1750) inventò la cosiddetta «lampada Argand», che utilizzava un meccanismo rivoluzionario e rappresentava un grande miglioramento rispetto alla tradizionale lampada a olio – dobbiamo ricordarci che quelli erano tempi in cui lampade di questo tipo erano davvero vitali, perché non c’era ancora l’elettricità.

Argand si reca in Inghilterra, dove cerca di mettersi in contatto con l’imprenditoria isolana; ci vuole un po’, ma la sua invenzione alla fine incontra il successo. Perché è dovuto andare in Inghilterra per svilupparla? Parte della risposta non sta nel fatto che gli inglesi fossero più ingegnosi. Piuttosto, quello che loro avevano era una forza lavoro molto meglio qualificata: non soltanto lavoratori che di fatto inventavano nuove cose, ma persone che potevano realizzare sul piano tecnico le idee sviluppando i progetti sulla carta, nonché risolvere i piccoli problemi che si presentavano sempre quando qualcuno cercava di trasformare qualcosa da un prototipo di laboratorio a un prodotto reale; e non si trattava di una o di poche persone, ma di decine di migliaia di operai qualificati.

È qui che la Gran Bretagna possedeva un grande vantaggio. Di contro, per quel che concerne la produzione concreta di nuove idee e l’applicazione della scienza (quella che a quel tempo si chiamava «filosofia naturale»), e la trasformazione di tutto ciò in una tecnologia produttiva, io non penso che gli inglesi possedessero alcun vantaggio particolare su altre avanzate nazioni europee. Proprio come gli inglesi, anche i francesi inventavano, i tedeschi inventavano, gli svizzeri inventavano; ci sono molte persone di diverse nazionalità che arrivano in Inghilterra con nuove tecnologie, le quali vengono poi implementate lì.

In breve, questo è propriamente un fenomeno europeo, non soltanto inglese.

Lo stesso vale per l’Illuminismo. Non è solo un fenomeno francese. I pensatori francesi – Voltaire, Montesquieu, Rousseau, Diderot ecc. – non sono certo tutto quello che l’Illuminismo ha rappresentato in Gran Bretagna. Vi sono naturalmente i filosofi scozzesi, come David Hume e Adam Smith, ma a dire il vero nella stessa Inghilterra si possono trovare altri filosofi molto importanti, come Joseph Priestley, Erasmus Darwin e diversi altri.

Per riassumere, nessuno deteneva un monopolio sull’Illuminismo e nessuno lo deteneva sulle invenzioni. Entrambi erano fenomeni europei. L’area in questione è l’Europa, grosso modo a Nord dei Pirenei e a Ovest del fiume Elba. Quelle erano le regioni in cui l’Illuminismo si è sviluppato, e quelle erano le regioni in cui anche l’innovazione tecnologica ha avuto luogo. Per questo non è sorprendente, a mio giudizio, che vi sia una connessione, un legame, fra l’Illuminismo e la rivoluzione industriale. Difatti è stato questo l’argomento principale della mia conferenza tenuta in occasione della premiazione Balzan, come pure del mio libro del 2009 [The Enlightened Economy. An economic history of Britain, 1700-1850].

 

Sull’area di diffusione dei due fenomeni, a me pare che la «conventional wisdom» sia un po’ differente. Probabilmente è piuttosto diffusa la convinzione che l’Illuminismo si sia effettivamente sviluppato su scala europea (alcuni importanti pensatori erano anche italiani, del Nord come del Sud), ma la rivoluzione industriale e le sue innovazioni tecnologiche vengono considerate essenzialmente britanniche. Forse anche il leggendario «lettore colto» tende a vedere le cose in questo modo. Pertanto credo che il suo lavoro sia molto importante.

Ma proviamo a seguire questo ragionamento fino alle sue logiche conseguenze. Sarebbe stata pensabile una rivoluzione industriale senza la Gran Bretagna?

 

Sì, credo di sì. Se nel 1700 la Gran Bretagna fosse improvvisamente affondata nell’oceano, probabilmente ci sarebbe stata una rivoluzione industriale sul Continente. Sarebbe stata diversa, avrebbe visto forse meno cotone e più lino, meno vapore e più energia idraulica, meno libera impresa e più étatisme. Sarebbe stata una rivoluzione industriale francese, belga, sarebbe stata una rivoluzione industriale svizzera; ce ne sarebbe stata anche una italiana. Non dico che avremmo avuto tutto esattamente allo stesso modo. Sarebbe accaduto più tardi, e più lentamente.

 

Con questo controfattuale, lei sta implicitamente sostenendo che a fare la differenza non sarebbero tanto le istituzioni «à la» Acemoglu e Robinson («Why nations fail. The origins of power, prosperity, and poverty», 2012; trad. it. «Perché le nazioni falliscono. Le origini di prosperità, potenza e povertà», Il Saggiatore, 2013), le quali risultano piuttosto peculiari alla Gran Bretagna e al contesto inglese. Dopotutto, lei sta dicendo che quelle istituzioni potrebbero avere avuto un certo impatto in termini di tasso di crescita, ma non per quel che riguarda il cambiamento di fondo.

 

Sì, la metterei all’incirca in questi termini. Ad ogni modo nella tesi di Acemoglu e Robinson c’è un punto molto importante, e riguarda lo Stato estrattivo. Si può avere tutta la creatività e l’innovazione tecnologica del mondo, ma se c’è uno Stato che è veramente estrattivo, allora ucciderà tutti gli incentivi, e la creatività da sola non porterà molto lontano; per esempio, questo è ciò che si verifica in alcune parti del mondo in cui vi è troppo potere statale, e lo Stato può prendere così tanto dai cittadini, che questi non hanno nemmeno la sicurezza dei diritti di proprietà. Pertanto, io direi che alcune istituzioni sono condizioni necessarie. Ma non sono condizioni sufficienti.

A mio parere, quello che Acemoglu e Robinson non riescono a spiegare – benché il loro sia naturalmente un libro notevole – è quale tipo di istituzioni possano condurre a miglioramenti nella «conoscenza utile»; e a miglioramenti utili nella filosofia naturale, come veniva chiamata a quel tempo. Quelle istituzioni sarebbero diventate molto importanti, perché dobbiamo sempre ricordarci che è molto difficile incentivare la creazione di conoscenza: tu puoi scrivere un articolo scientifico, puoi provare un teorema matematico, ma una volta che il contenuto è stato pubblicato su un libro o su una rivista, non ne hai più il controllo. In altre parole, l’appropriabilità della conoscenza è un tema davvero fondamentale per lo sviluppo economico. Ci sono due soluzioni a questo problema.

La prima soluzione sono i brevetti: un brevetto garantisce un monopolio temporaneo, non sulla conoscenza in sé, ma sul suo sfruttamento; non c’è più la segretezza, ma nondimeno puoi limitare l’accesso per un certo numero di anni alla tua innovazione. Tuttavia, se è vero che puoi brevettare la tecnologia, non puoi brevettare le idee scientifiche. E quindi come si risolve il problema di incentivare persone come Galileo, o Newton, o Boyle?

Qui sopraggiunge la seconda soluzione, ossia un insieme unico di istituzioni, peculiare all’Europa di quel periodo: una sorta di Repubblica Internazionale delle Lettere, in cui la reputazione è essenzialmente tutto ciò che ogni scienziato desidera ottenere. Uno scienziato vuole diventare famoso, vorrebbe essere rinomato presso i suoi colleghi come una persona che ha dato un grande contributo (qualcuno che ha innovato), e una volta che è riuscito a stabilire quella reputazione, se anche non diventa ricco, ottiene maggiore sicurezza economica e può beneficiare del patronaggio.

L’esempio classico è quello di Galileo: dopo aver pubblicato del Sidereus Nuncius (1610), il primo libro nel quale documenta l’utilizzo di un telescopio e per osservazioni astronomiche, riceve un’offerta di lavoro da parte del principe di Firenze, che gli propone di recarsi lì per il quadruplo del salario che percepiva (era professore a Padova); in aggiunta non gli viene nemmeno chiesto di insegnare.

È il tipico lavoro in una relazione di patronaggio. Ed è il genere di patronaggio che ogni studioso avrebbe desiderato. Un po’ diverso, ma essenzialmente lo stesso fenomeno, è quando a Isaac Newton, dopo la pubblicazione dei Principia (1687), viene offerto un posto come guardiano della Zecca Reale. Newton non sapeva molto sulla coniazione delle monete, era un matematico e un cosmologo, ma quello era un classico lavoro in una relazione di patronaggio. In un certo senso, è l’equivalente di una cattedra universitaria, e fondamentalmente funziona allo stesso modo: tu hai un incentivo a innovare, perché devi pubblicare, e se pubblichi abbastanza guadagni una reputazione e consegui una certa sicurezza finanziaria.

Naturalmente, non diventerai milionario, ma la maggior parte della gente che crea conoscenza non è interessata molto a questo aspetto. Quello che vuole è sicurezza finanziaria e avere il tempo e la comodità di dedicarsi a ciò che gli interessa, ossia fare ricerca e scrivere. E questo è quello che avviene in Europa, nei secoli XVI e XVII. Io credo che nessuno abbia colto questo punto, perché tutti si sono concentrati sul ruolo dello Stato, mentre la Repubblica delle Lettere non è un’istituzione politica.

 

Pur tuttavia, Galileo, Newton, Boyle sono scienziati del XVII secolo, non dell’Illuminismo. Difatti, a me pare che il punto chiave sia: quand’è che questo processo ha avuto inizio? Su questo forse il suo approccio è fondamentalmente in linea con quello di Jan Luiten van Zanden («The long road to the industrial revolution», 2009), secondo cui sarebbe incominciato grosso modo con la riforma protestante; o con la ricostruzione di Deirdre McCloskey («Bourgeois Dignity. Why economics can’t explain the modern world», 2010); e con Max Weber, dopo tutto.

 

Sì, le mie tesi non sono in contrasto con le loro.

 

Ma allora perché scegliere proprio l’Illuminismo?

 

A mio giudizio, l’Illuminismo è il risultato di questo processo. La Repubblica delle Lettere discuteva molte idee. Fino al Seicento, in termini generali, la gran parte delle idee oggetto di dibattito era sulla religione: cattolicesimo versus protestantesimo. Chi aveva ragione, Lutero o Calvino? Ma anche: chi aveva ragione, Copernico o Brahe? Poi le cose sono iniziate a cambiare. Nel corso del XVII secolo, molte delle idee che venivano discusse avevano a che fare con questioni che anticipavano quelle dell’Illuminismo. È giusta la tolleranza religiosa? Possiamo riporre fiducia in persone che credono in un Dio che è in qualche modo diverso dal Dio in cui crediamo noi? E non solo. C’era un dibattito sugli antichi e i moderni: sono i «moderni», cioè le persone che vivevano in quel periodo, in qualche modo paragonabili ai grandi pensatori del passato?

A questa domanda, a quel tempo molte persone fondamentalmente rispondevano: no, non lo sono; noi siamo nani, pensatori come Aristotele e Tolomeo, quelli erano dei giganti. Ma questo dibattito è proseguito. E, gradualmente, si possono iniziare a vedere figure come Fontenelle e Pascal, che scrivono e dicono: noi siamo capaci quanto lo erano gli antichi, e anche di più, perché sappiamo più cose. Riconoscono che gli antichi potevano essere grandi pensatori, ma loro in cambio hanno il telescopio, e il microscopio, e la pompa a vuoto, e hanno scoperto l’America.

E così questa sorta di complesso di inferiorità che la gente nutriva nei confronti della civiltà classica lentamente si dissolse. Io reputo che fosse ancora lì nella prima metà del XVII secolo, quando la Repubblica delle Lettere era solo all’inizio, tipicamente con figure associate a Erasmo da Rotterdam e altri; a quel tempo, la gran parte del pensiero filosofico risultava ancora piuttosto tradizionale. Ma all’epoca della seconda metà del XVII secolo, le cose sono cambiate. Ritengo che la grande differenza – e c’è un capitolo su questo nel mio prossimo libro [A Culture of Growth: Origins of the Modern Economy] – sia con Francesco Bacone (1561-1626).

Francesco Bacone davvero riveste un’importanza capitale. Perché è riuscito a convincere le persone della validità di un’idea fondamentale: la conoscenza non è lì per essere una tua soddisfazione personale, ma – proprio come pensiamo noi oggi – deve servire per calzare scarpe migliori ai piedi, per mettere più cibo a tavola e avere un tetto migliore sulla testa.

 

L’idea della conoscenza utile.

 

Esattamente. Ora, tutto ciò a noi sembra letteralmente un luogo comune. Nel Seicento era un’idea rivoluzionaria. L’impatto di Bacone sul pensiero dei suoi contemporanei è enorme. Nel XVII secolo, non solo in Inghilterra, ma in Francia, e in Germania, e in Olanda, ogni scienziato leggeva Bacone. In Inghilterra, dove la Royal Society venne fondata nel 1662, ci fu una famosa poesia di Abraham Cowley che addirittura paragonò Bacone a Mosè: fondamentalmente diceva che Bacone ci ha mostrato la terra promessa, ma, proprio come a Mosè, anche a lui non è stato concesso di entrarvi.

Oggi questo paragone può sembrare semplicemente assurdo, ma è ciò che nella realtà stava accadendo. Tutti i grandi scienziati che lavoravano nella Royal Society britannica – Boyle e Hooke e Newton – guardavano a Bacone come a una fonte di ispirazione. Pertanto, la mia sensazione è che Bacone da molti punti di vista sia la persona che ha creato le condizioni per una transizione dalla Repubblica delle Lettere del XVI secolo, all’Illuminismo del XVIII.

L’altra figura che ha giocato un ruolo chiave è Newton. È fra Bacone e Newton, io credo, che la possibilità di un illuminismo industriale prende corpo. Nel 1700, questa transizione è in corso. Prima di Newton, molti scienziati avevano già iniziato a chiedersi: noi dovremmo conoscere più cose, ma possiamo conoscere più cose?

Come possiamo capire i movimenti dei corpi celesti? Quando Newton finalmente li ha descritti, qualcuno ha iniziato a pensare che se Newton aveva potuto farlo per i moti dei pianeti, lui avrebbe potuto provarci per il corpo umano. Archibald Pitcairne, che era professore a Leida, notoriamente disse: «Io applicherò i principi di Newton alla comprensione del corpo umano».

Era una frase molto ingenua, in verità, ma è esattamente questo il concetto che inizia a circolare: tutti vogliono essere come Newton in qualche modo. Non solo in Inghilterra; per esempio, gli italiani avevano soprannominato uno dei loro più grandi pensatori illuministi, Cesare Beccaria, il «newtoncino». Per riassumere, Newton veramente dominava le convinzioni che le persone si erano formate sulla scienza. Lui era l’incarnazione di quello che lo spirito umano può fare, del suo potere – ed era un potere di liberazione.

Newton era davvero unico, non soltanto per quello che ha scoperto, ma per l’impatto che ha esercitato sul prestigio della scienza e sull’idea che la gente aveva di quello che la scienza era in grado di realizzare. E questa idea è precisamente quello che penso sia davvero importante dell’Illuminismo.

 

Forse vale la pena discutere ancora un’altra visione alternativa. Anche Yuval Harari, nel suo celebre libro («Sapiens. A Brief History of Humankind», 2011; trad. it. «Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità», Bompiani, 2014), fa riferimento a Francesco Bacone come punto di partenza – cita il suo manifesto del 1620 «Novum organum» e la tesi lì espressa secondo cui «la conoscenza è potere». Ma, secondo lui, l’avvento dell’idea della conoscenza utile si deve, sintetizzando, al matrimonio fra il capitalismo e gli imperi.

Sarebbe stato in sostanza il capitalismo, nato in Europa nel tardo medioevo, e il fatto che si sia innestato sulle rivalità fra le potenze europee, a far nascere e allevare attraverso i secoli quest’idea secondo cui la conoscenza poteva essere adoperata per scopi pratici, come «potere». E pertanto in fin dei conti la successiva rivoluzione culturale, che iniziò nel XVI secolo, fu un prodotto del peculiare ambiente europeo – che favoriva la frammentazione politica e quindi la competizione – associato con il sistema capitalista.

E ancora, lungo una traccia simile. Secondo lo storico italiano Paolo Prodi, il potere capitalista, quello che lui chiama la Repubblica Internazionale del Denaro, a sua volta origina dalla lotta fra il Sacro romano impero e il papato nel XII secolo, che per la prima volta ha infranto la struttura e la natura monolitiche del potere, separando quello spirituale (la Chiesa) da quello materiale (l’impero): in quella frattura, con il tempo una terza forza, il potere finanziario del capitalismo, alla fine è riuscito a emergere.

Per riassumere, l’argomento di fondo di questo approccio alternativo è che l’idea della conoscenza utile fu un prodotto del capitalismo e della competizione politica, che in quanto tale risale al tardo medioevo e quindi a un periodo finanche precedente la riforma protestante.

 

Io non utilizzo molto il termine capitalismo nelle mie letture o nei miei scritti. Onestamente non credo che questo concetto sia utile. Comprendo il commercio, comprendo gli scambi, comprendo tutte queste cose cui gli storici fanno riferimento, ma non sono del tutto sicuro di quando un qualcosa inizia a essere capitalista. È una categoria che non mi aiuta molto. Ciò che è importante è che un cambiamento culturale prese corpo in un ambiente che era sempre più commerciale, e naturalmente la commercializzazione forniva incentivi alle persone che volevano risolvere certi tipi di problemi. Anche gli imperi, di per se stessi, non sono cruciali in quest’epoca.

Il punto principale è che le persone stavano iniziando a viaggiare attraverso tutto il mondo e cercavano di risolvere alcuni problemi concreti. Un esempio classico è la navigazione. Quelle persone avevano bisogno di costruire navi che potevano realmente andare dove loro volevano recarsi, e tutto ciò era essenzialmente un problema scientifico. A questo proposito, la sfida principale era come misurare la longitudine in mare, ed era una sfida indipendente dalla guerra, indipendente dal capitalismo, indipendente da tutto quello di cui parlano gli storici sociali. Fondamentalmente, se tu vuoi andare da A a B è utile sapere in che punto ti trovi, e con l’approccio monodimensionale (ossia solo con una misura della latitudine, che era il metodo utilizzato da Colombo e Magellano), hai un problema: puoi perderti, e infatti le navi si perdevano e i naufragi erano frequenti. La longitudine non la si poté misurare prima del cronometro marino di John Harrison (1693-1776). Pertanto, io eviterei di dare troppo rilievo a questo concetto di capitalismo, vago e a mio giudizio alquanto ipotetico.

Detto questo, nel libro di Harari si trovano molte buone intuizioni, benché naturalmente vi siano anche numerose piccole cose su cui non mi trovo d’accordo. Dove penso che lui abbia ragione è nell’enfasi posta sulla competizione fra le nazioni europee; non tanto la guerra vera e propria, ma semplicemente l’idea che altri Paesi (la Spagna ecc.) possano avere successo lì dove il mio Paese fallisce.

Questo è in effetti cruciale. Volendo fare un esempio, su di un caso che conosco ragionevolmente bene. Nel 1806, nel bel mezzo della rivoluzione industriale, in Inghilterra l’industria laniera va in Parlamento e chiede che venga messa al bando una certa tecnologia, con la motivazione che rimpiazzava i lavoratori con i macchinari; il Parlamento ha un forte incentivo ad assecondare l’industria laniera, perché quell’industria è una parte significativa dell’economia; e invece respinge la richiesta, e la spiegazione è «se noi non adottiamo questa innovazione, lo faranno i francesi e loro ci surclasseranno». E naturalmente in Francia era lo stesso.

 

E questo non succedeva in Cina, per esempio – benché quello fosse un grande impero, e con un’economia ricca e relativamente avanzata.

 

Infatti. In Cina, fino almeno al XIX secolo, la gente non avverte il rischio di una competizione da parte di altre nazioni. Secondo loro, la Cina era essenzialmente il mondo e al di fuori non c’era nulla di importante. Da questo punto di vista l’Europa è molto diversa: in Europa tutti hanno ben chiaro che qui c’è il mio Paese, ma lì dall’altra parte c’è un altro Paese e se noi non facciamo questa cosa, qualcun altro la farà; e se il re e i governanti non trattano le persone in modo adeguato, quelle se ne andranno (e pertanto non si possono trattare le persone in maniera arbitraria come facevano i cinesi).

Comunque, l’enfasi su questo aspetto non è un’idea nuova. David Hume sosteneva le stesse cose. E così Immanuel Kant. È un’idea che circola da molto tempo – ed è ancora io credo una buona spiegazione. A mio parere, questa linea di ragionamento è più utile, piuttosto che parlare di capitalismo e di qualche altro vago concetto che evoca certe immagini «marxoidi» che nella realtà non esistono.

 

E cosa pensa sull’utilizzo del concetto di capitalismo per periodi storici ancora più distanti? Suppongo che lei non ami nemmeno di vedere il temine «capitalista» riferito alle civiltà classiche antiche, come quella romana o mesopotamica. In ogni caso, rispetto a quelle civiltà del lontano passato, a me pare che la domanda fondamentale sia: perché il cambiamento in direzione della crescita moderna non si è verificato allora?

Tipicamente all’epoca dell’impero romano, quando la scienza ellenistica era al suo apogeo (sto pensando ad esempio a una figura come Ipazia, a questo tipo di filosofi e scienziati che pure possono avere avuto un’idea simile della conoscenza utile).

È perché, ad ogni modo, i filosofi ellenistici erano fondamentalmente diversi da quelli dell’Illuminismo? Oppure è perché le istituzioni erano differenti, o semplicemente risultava più limitato l’ambiente geografico? O, piuttosto, il motivo è che vi era essenzialmente un solo Stato, l’impero romano, che non avvertiva il rischio di una competizione da parte di potenze rivali?

 

Essenzialmente questo è quello che diceva Edward Gibbon. Nel celebre e ultimo capitolo del suo Declino e caduta dell’impero romano (1776-89), Gibbon sostiene proprio questo: oggi l’Europa è divisa fra tutti questi stati frammentati, se solo anche il mondo romano fosse stato così, allora quel mondo avrebbe potuto sperimentare un maggiore progresso scientifico e tecnologico.

Ma su questo tema c’è un’altra questione, sulla quale rifletto ormai da molti anni. I romani in particolare avevano una gran quantità di persone bene istruite – persone che sapevano leggere, persone che sapevano scrivere, persone che si interessavano a numerosi problemi intellettuali – e possedevano anche (questo è importante) un’ottima industria del vetro. Non hanno mai inventato questi [solleva i suoi occhiali]. La prima volta in cui in Europa apparvero gli occhiali era il 1285.

 

E perché i romani non hanno mai inventato gli occhiali?

 

Noi non conosciamo la risposta… come si fa rispondere a una domanda sul perché qualcosa non si è verificato? Sappiamo che, in Seneca, c’è un paragrafo in cui lui parla di questa possibilità. Ma i romani non sono mai arrivati al punto di applicare i principi dell’ottica al miglioramento della visione.

 

E a dire il vero molte fonti del tempo riferiscono – parlandone come problema – il fatto che l’uno o l’altro personaggio influente, arrivato a una certa età non fosse più in grado di leggere.

 

Infatti, e doveva farsi leggere dagli schiavi. Naturalmente, era un modo costoso di risolvere il problema.

Fondamentalmente Seneca dice che se guardi attraverso un globo di vetro pieno di acqua, le cose che ci sono dietro appaiono più grandi. I romani avevano un’idea dell’ottica, pertanto; e avevano il vetro, e avevano la necessità. Non hanno mai inventato gli occhiali. Perché? Ovviamente ci dev’essere qualcosa che manca, nella civiltà classica, e che la rende molto diversa dall’Europa medievale.

 

Potrebbe essere proprio quest’idea della conoscenza utile.

 

Probabilmente. Io penso che l’idea della conoscenza utile implicitamente fosse lì già nel tardo medioevo. L’avevano forse anche i romani? Vero è che su questo si è sviluppato un ampio dibattito, su cui potremmo parlare per molto tempo. Ne ho scritto nel mio libro degli anni Novanta [The Lever of Riches. Technological creativity and Economic Progress, 1992; trad. it. La leva della ricchezza. Creatività tecnologica e progresso economico, Il Mulino, 1995], ma da allora è stata prodotta molta nuova ricerca sull’uso dell’energia al tempo dell’impero romano. Stando a questi ultimi studi, risulta che l’energia idraulica nell’impero romano non era così male come in precedenza si pensava che fosse.

Comunque, rimane vero che i romani non hanno mai inventato gli occhiali, e non hanno nemmeno mai imparato a fabbricare la ghisa. E c’erano anche altre cose che non conoscevano. Per esempio, non hanno mai appreso la navigazione marittima. Viaggiavano nel mare nostrum, attraverso il Mediterraneo, ovvero per mezzo della navigazione costiera; se attraversavano il Mediterraneo, non avevano idea di dove si trovassero. Di contro, già nel IX secolo i marinai arabi sapevano come misurare la latitudine in mare: conoscevano delle tecniche per misurare l’altezza del sole, della luna e delle stelle, e sapevano che cosa fosse la latitudine.

 

 

Da 'Il Mulino'

 

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