Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Nisida, storia di un'isola

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E' stato Benedetto Croce a dedicare  le  parole più belle e sentite alla storia della piccola isola appartenente all'arcipelago delle isole flegree, posta all'estremità della collina di Posillipo, e in particolare al suo possesso privato nel corso dei secoli fino all'Ottocento.

Così apprendiamo che sul finire dell'antica repubblica romana l'isoletta di Nisida (Nesida dal greco) apparteneva a Marco Giunio Bruto e proprio qui si tennero i preparativi della congiura contro Giulio Cesare, in particolare i colloqui tra Marco Giunio Bruto e Marco Tullio Cicerone.

Durante il periodo medievale, Nisida veniva  descritta con il nome di Gipeum o Zippium, ed apparteneva alla Chiesa di Napoli  che vi aveva costruito il monastero di Sant’Arcangelo e la Chiesa di Sant’Angelo de Zippio. Tuttavia, già nel Quattrocento, in pieno periodo umanista, all’isola ci si rivolgeva con l’antico nome greco, come riportato nell’ultima egloga dell’Arcadia di Jacopo Sannazaro, allorché Barcinio, piangendo la morte di Filli, si scolorava la festante natura di Napoli, del Vesuvio, del Sebeto, di Mergellina e di Nisida, a cui il poeta si rivolgeva stupefatto: “ Dimmi, Nisida mia[…] non ti vidi io poc’anzi erbosa e florida…[…] non ti vegg’io or, più che altra, inculta e orrida?[…]

 

La Chiesa napoletana nel 1553,  durante il pontificato di Pio II, vendette l’isoletta a Giovanni Piccolomini, duca di Amalfi, erede di una famiglia arrivata nel Regno di Napoli nel corso della prima guerra dei baroni contro re Ferrante.

I Piccolomini si erano schierati dalla parte del re e per tali “servigi” militari erano riusciti ad imparentarsi con gli Aragonesi attraverso un matrimonio celebrato  nel 1461 tra Antonio Piccolomini  e Maria d’Aragona, figlia del re Ferrante.

Giovanni Piccolomini era figlio di Alfonso e di Giovanna d’Aragona, duchessa di Amalfi, la quale, dopo la morte del giovane marito, nipote di Pio III,  divenne famosa in tutte le corti d’Europa per il suo tragico amore  con Antonio Beccadelli da Bologna, narrato da Matteo Brandello in una novella e drammatizzato sia da John Webster che da Lope da Vega.

Giovanni Piccolomini cercò di superare la vicenda dell'assurda morte della madre e dei suoi fratellastri, dedicandosi all'isoletta di Nisida, dove fece costruire nel punto più alto un castello, richiamandovi la nobile società napoletana "per sollazzi e passatempi".

 Dalla fine del Cinquecento, l’isola  fu più volte rivenduta, dapprima al principe Goffredo Borgia di Squillace, poi nel 1595 al principe di Capua Matteo Conca e in seguito al marchese di Roggiano, Vincenzo Macedonio, a cui appartenne anche per i primi decenni del Seicento.

Secondo  quanto riportato da Giulio Cesare Capaccio (Campagna, 1550 – Napoli, 8 luglio 1634) il marchese di Roggiano  ne ebbe molta cura, ma vi ritrovò, delle tre cose per cui era celebrata fin dal periodo dell’antica repubblica romana, ossia asparagi, erbe selvatiche e conigli, ricca solo delle prime due, perché la terza era venuta meno “per gulusità degli huomini”, ossia per le troppe e distruttive cacce.

Nisida non poteva non essere, data la posizione geografica, scenario importante della sollevazione napoletana di Masaniello del 1647. In particolare il viceré spagnolo,Iñigo Vélez de Guevara,  conte di Onate, vi sbarcò, nel marzo del 1648, con un consistente presidio, ma  Enrico II, duca di Guisa, che  guidava il popolo, riuscì a cacciare dall'isola gli spagnoli quando, ormai, gli eventi a Napoli progredivano verso la sconfitta della " Real Repubblica Napoletana".

Un successivo dominio privato dell'isola ebbe luogo nella seconda metà del Seicento, allorché fu comprata da un magistrato, presidente della Real Camera, Domenico Astuto, che ottenne da Carlo II il titolo di marchese di Nisida e ne divenne l'ultimo proprietario privato fino a quando fu acquisita a possedimento pubblico nel 1814 da Gioacchino Murat, allora re di Napoli.

Con la restaurazione borbonica, sulla pianta del castello, fatto costruire da Giovanni Piccolomini, fu costruita una prigione per gli ergastolani, dove furono relegati molti prigionieri politici, sia di idee liberali che democratiche, a cui poi, nel 1894, furono dedicate molte vie dell'isoletta. Nello stesso anno Benedetto Croce, l'abruzzese innamorato di Napoli, pubblicò il suo omaggio a Nisida, "simile al bimbo dalle tonde guance vermiglie, che non osa ancora dilungarsi dalla madre”, quella madre terra a cui sembra  avvicinarsi  e congiungersi con puerile tenerezza.

 

Bibliografia

B.Croce, Storie e leggende napoletane, Napoli, 1919

 

 

 

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