1799. Le stragi dimenticate di Termoli e Casacalenda. Pdf.

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Categoria: Testi 1799
Creato Mercoledì, 10 Agosto 2016 21:46
Ultima modifica il Sabato, 27 Agosto 2016 17:23
Pubblicato Mercoledì, 10 Agosto 2016 21:46
Scritto da Antonella Orefice
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Intervento di Luigi Pruneti

Quando ho letto l’opera di Antonella Orefice sulle stragi dimenticate di Termoli e di Casacalenda, mi sono venuti in mente dei celebri versi di Fabrizio De André: “La polvere, il sangue, le mosche, l’odore / per terra e fra i campi la gente che nuore / e tu, la chiami guerra e non sai che cos’è /  e tu, la chiami guerra e non ti chiedi il perché”.

Esaminando i manoscritti del fondo D’Ayala, è facile immaginare la costernazione e l’orrore di chi giunse, nel Febbraio del 1799, in quei paesi molisani, dopo le incursioni dei sanfedisti al soldo del cardinale Ruffo.

La morte è una specie di cappa grigia, è un sudario d’orrore che impone il silenzio ed apre le porte del vuoto. Dove giunge tutto si raggela, si ferma, tace, ogni cosa pare trasformarsi in un indifferenziato magma di sofferenza e quell’alito algido che sa di fiori sfatti e di abisso conobbero gli abitanti di Termoli e di Casacalenda.

La Repubblica Partenopea era nata da poco, quando le bande raccogliticce di tagliagole, avanzi di galera e poveri cristi plagiati dalla propaganda reazionaria giunsero a Casacalenda al grido di “Viva il re, morte ai giacobini” … fu subito caccia e sangue, sangue e morte. Quando se ne andarono, rimase solo un assordante silenzio. Qualche giorno prima un identico dramma si era consumato a Termoli.

I fatti del Molise, ebbero una scarsa eco; solo Eleonora de Fonseca Pimentel scrisse sul “Monitore Napoletano”: “Più doloroso è lo stato di Contado di Molise, dove i faziosi sono in varie terre pervenuti a forzare i Patrioti e ad ucciderne molti, e teneano in gran trepidazione gli altri minacciati della vita”.

 

La marginalità mediatica di quanto avvenne nel Molise non deve stupire; nel Febbraio del 1799 l’incalzare degli avvenimenti e la disorganizzazione della Repubblica partenopea impedivano di avere un reale polso della situazione e ciò fu il presupposto della dimenticanza.

Di lì a poco, infatti, la primavera napoletana ebbe fine e le forche annunciarono l’avvento di un nuovo lunghissimo inverno, di conseguenza i martiri di Termoli e di Casacalenda, furono consegnati all’oblio.

Qualcuno però aveva visto e … scritto. A Casacalenda era stato inviato dal vescovo di Larino il Padre Giuseppe Macchia, del convento di San Martino a Pensilis e della mattanza di Termoli era stato testimone il sacerdote Macario De Fanis, non solo: in un manoscritto di Teodosio Campolieri era stata annotata la cronaca di quei giorni di fine inverno.

Siffatti documenti, tuttavia, non videro mai la luce giacché l’erudita Mariano D’Ayala, che li aveva riscoperti, decise di non pubblicarli. Probabilmente questo intellettuale di razza e napoletano d’adozione, ritenne inopportuno diffondere i manoscritti che pur condannando l’eccidio, invocavano il perdono divino sugli autori del massacro. Si legge, infatti, al termine del Breve racconto del tragico fatto accaduto in Casacalenda a di 19 – 20 e 21 di Febbraio 1799: “il carattere di sacerdote mi obbliga a professare la stessa mansuetudine di Gesù Cristo, e di avere gli stessi sentimenti, per cui sulla Croce con infinita carità, ed inalterabile mansuetudine, scusando i suoi perfidi nemici implorò loro dal suo divino Padre il perdono. Così io imploro da Dio misericordia, e perdono a tutti quelli che in questa Patria innocente commisero tante scelleratezze, e tanto crudele sterminio: Pater ignosce illis non enim scierunt quid fecerunt”.

Per Mariano D’Ayala, laico doc, era troppo o meglio questa chiusa in chiave pietistica, rendeva la pubblicazione inopportuna. L’Italia era ormai una realtà, i Borboni un ricordo, ma i nemici dell’Unità erano sempre vivi e vegeti. Basti pensare che fra il 1859 e il 1860, comparvero oltre ottanta testate nostalgiche. Fra di esse ebbero particolare fama “Il Contemporaneo”, “Il commercio”, “Firenze”, “Napoli”, “La vespa”. Erano accomunate da una violenta acredine nei confronti del nuovo che, “sotto le note divise della libertà e della giustizia vessava il popolo”, costretto «per pagare la libertà ... in camicia [e che] seguiterà a farsi scorticare nel santo nome della patria». Gli artefici della nuova Italia, non erano altro che dei profittatori, dei corrotti che, mascherati dietro le belle parole, sfruttavano le masse, ridotte in miseria: «Gli alti funzionari poltriscono negli agi di una vita beata e i parassiti, sotto il pretesto di reggere le masse, si impinguano alla greppia dello stato».

Il linguaggio di questi fogli era semplice, immediato, si basava su slogan, invettive, spesso intrise di una grossolana ironia che non rifuggiva dall’uso di forme dialettali.

Ben presto il giornalismo reazionario si avvicinò a quello clericale, sino a formare un fronte unito. D’altra parte il mondo cattolico, più retrivo, sfruttava abilmente la sua capillare distribuzione sul territorio, per condurre una spietata campagna antiunitaria. Non vi era fatto o episodio che non venisse sfruttato per un’incessante propaganda; anche i terremoti erano presentati come tangibili prove dell’ira divina.

Era il caso di pubblicare documenti che, pur denunciando misfatti e colpevoli, invocavano una pacificazione generale in nome di Dio, di quello stesso nome invocato dal Cardinale Rufo, per armare la mano degli assassini? Per D’Ayala, il momento della lotta, non era terminato e pertanto l’irenico finale del manoscritto ne sconsigliava la diffusione. Sarebbe spettato ad altri, quando i tempi lo avessero consentito, di far riemergere dal passato quelle fonti.

Finalmente quei giorni sono arrivati, grazie all’opera di Antonella Orefice, nota studiosa e autrice di numerosi saggi sulla storia della Rivoluzione napoletana del 1799. Dal suo attento e puntuale lavoro di ricerca affiorano dal passato pagine importantissime che meglio inquadrano quell’anno terribile che vide il sogno e la speranza trasformarsi, nel breve volgere di pochi mesi, in un incubo di sangue e di morte che decapitò l’intellighenzia partenopea, deprivando il Meridione e l’Italia di un apporto intellettuale che avrebbe potuto rivelarsi fondamentale per il successivo processo unitario.

La fatica di Antonella Orefice è ancor più meritoria in quanto è una risposta implicita a tanto revisionismo storico d’accatto, di chi vorrebbe ridurre il Risorgimento a una predazione piemontese, resa possibile dall’appoggio di potenze straniere e dalle trame della massoneria internazionale. Non esiste niente di più sbagliato. Il Risorgimento non va santificato: fu un processo costellato di errori, di miopi valutazioni e si avvalse spesso di uomini inidonei a interpretare nei giusti termini il momento storico. Fu, tuttavia, un processo di liberazione che in un breve lasso di tempo, riuscì a trasformare in stato e in popolo, ciò che Manzoni aveva definito “un volgo disperso che nome non ha”. Questa alchimia sociale e politica ebbe come catalizzatore un numero esiguo di illuminati  tesi ad affermare idee e valori che difficilmente la mentalità collettiva impeciata di superstizioni e d’ignoranza avrebbero potuto recepire.

Un caso eclatante è rappresentato dal Granducato di Toscana che conobbe un periodo di splendore sotto il regno di Pietro Leopoldo di Lorena. Questo monarca illuminato abolì, fra l’altro, i privilegi feudali e il 30 novembre del 1786 promulgò il Codice criminale che eliminò la pena di morte e la tortura come strumento d’indagine. Orbene, quando nel 1790 divenne imperatore e lasciò Firenze per raggiungere Vienna, parte della Toscana rurale insorse proprio contro quelle riforme che avevano spazzato via le ultime ombre del medioevo.

La storia di Domenico De Gennaro di Casacalenda è simile, egli aveva difeso per anni dai soprusi del duca Scipione di Sangro i compaesani, aveva lottato contro la sopraffazione, aveva invocato l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge, aveva lottato per gli umili e altri “umili”, accecati dalle parole dei potenti, lo eliminarono.