Bentivegna, l'ultimo partigiano di via Rasella

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È la sera del 7 novembre 1943. In una Roma buia e minacciosa, dove il silenzio è rotto solo dai passi cadenzati delle SS tedesche, due giovani studenti, Rosario Bentivegna, detto “Sasà”, e Carla Capponi, militanti nei Gap partigiani del Pci, celebrano a loro modo la Rivoluzione d’Ottobre.

Con un pennello e della vernice rossa tappezzano di slogan antifascisti il centro di Roma, da piazza del Popolo a piazza Venezia. A piazza Montecitorio, sede della Camera dei deputati, scrivono “W il Parlamento” e “Morte al fascismo”. Carla, con un pizzico di avventatezza, traccia una grande falce e martello anche su una camionetta tedesca. Tornando verso casa della Capponi, i due giovani entrano nel portone e in quella strana atmosfera gioiosa, soli nella penombra, si scambiano il primo bacio.

È una delle pagine più belle dell’appassionata autobiografia di Rosario Bentivegna, 89 anni, ultimo “orgoglioso” superstite del commando di partigiani comunisti protagonisti dell’azione di via Rasella, che sollecitato dalla giovane storica Michela Ponzani, ha ripercorso la sua vita in Senza fare di necessità virtù. Memorie di un antifascista (Einaudi, 422 pagine, euro 20).

Il 23 marzo 1944 fu proprio Bentivegna, travestito da spazzino, ad accendere la miccia del tritolo che fece saltare in aria 32 soldati del Battaglione Bozen. I tedeschi “punirono” i romani con l'eccidio delle Fosse Ardeatine, la più terribile rappresaglia nazifascista che il nostro Paese ricordi.Nelle sue memorie, l’ex partigiano, medaglia d’argento della Resistenza, con uno stile di scrittura diretto e antiretorico, affronta anche gli aspetti più intimi e privati della sua vicenda umana. Dal contrastato e drammatico rapporto col padre, sorvegliato dall’Ovra e morto suicida nel 1936 per evitare il carcere fascista, al suo passaggio sui banchi del liceo nelle file antifasciste, con l’adesione ai gruppi di orientamento trozkista, dopo essere stato da ragazzo un entusiasta balilla.

Nell’aprile 1941, in pieno Ventennio fascista e con l’Italia già in guerra da un anno, Bentivegna è tra gli studenti che occupano l’Università di Roma.

Arrestato e sottoposto a un pesante interrogatorio, viene rilasciato con diffida di polizia. Dopo l’8 settembre 1943, la scelta di aderire al Pci e di partecipare alla guerra di liberazione, col nome di battaglia di “Paolo”. Era tanto temuto dai nazifascisti, che gli misero sulla testa una taglia di un milione e 850 mila lire, una cifra enorme a quei tempi.A inizio giugno del 1944 Roma è finalmente libera e dopo poche settimane, alle 7 di sera del 20 settembre, Bentivegna sposa Carla Capponi (nel dopoguerra si separeranno); la mattina successiva parte per la Jugoslavia, per combattere tra le formazioni partigiane della Divisione Italia Garibaldi. Ritornerà solo nel marzo 1945, un mese dopo la nascita di sua figlia Elena. Gli anni ’50 sono scanditi da un'intensa stagione di lotte politiche e sociali vissute attraverso la militanza nel Pci e l’amata professione di medico medico-legale dell’Inca-Cgil. Comunista sui generis, libertario e anticonformista, nel ’56 si schiera contro il partito, condannando l’invasione sovietica in Ungheria.

Nel ‘68 l'impegno internazionale a fianco della Resistenza greca durante il “regime dei colonnelli” e l'organizzazione dei “viaggi clandestini” dalla Grecia all'Italia, per permettere la fuga dei comunisti greci condannati a morte.Il terrorismo degli anni ’70 e la violenza dei gruppi di sinistra extraparlamentare sono ferocemente criticati da Bentivegna come fenomeni di “avventurismo” e di “arretramento nel processo di democratizzazione nel paese”: per queste sue posizioni l’ex partigiano sarà minacciato dalle Brigate Rosse e costretto a girare sotto scorta. Nel 1985 la decisione di uscire dal Pci, per i profondi dissensi con la linea “consociativa” del partito di Berlinguer.

Le memorie di questo straordinario e controverso testimone del “secolo breve” si chiudono con una dichiarazione d’intenti e un invito implicito ai giovani di oggi: non abbandonare la ricerca della libertà e neppure “la voglia di lottare per questa libertà”.

 

[Il Mattino, 3 novembre 2011]

 

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