Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Un manoscritto inedito del XI sec.

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Il Manoscritto è stato ritrovato ad Elea ed è databile tra  il XI-XII  secolo. L’anonimo autore bizantino, deve averlo scritto in un eremo segreto della Longobardia Minor. Lo stato attuale del reperto è pessimo.

Lo stile è tra il proto e il medio-bizantino, un miscuglio tra lo stile originale e “moderno” della cronografia, modello Amato di Montecassino, Italia meridionale longobardo-normanna, e il panegirico, modello Michele Psello. La “cifra” del testo è perciò spesso criptica e ambigua: si dà molto spazio alle suggestioni interpretative del lettore e si creano molte difficoltà al traduttore.

“Mentre scrivo al lume della lanterna, nel mio eremo della Longobardia Minor, tutto intorno a me si dissolve, i Barbari dilagano, devastano e saccheggiano, l’Impero va in mille pezzi, si sgretola, si disintegra, ma non sono le devastazioni materiali dei Barbari che mi preoccupano, a quelle ormai, noi, ultimi epigoni e diadochi dell’Impero, ci siamo avvezzati; ben più gravi, pericolose e dannose per l’Impero e per i suoi diletti figli, sono le distruzioni morali e culturali. Esse provengono da un mondo a noi estraneo e anche lontano, i cui abitanti, vestiti di ferro e di pelli, si nascondono tra le brume e le nebbie, in mezzo a paludi e a immani foreste. Essi, dal nostro Michele Psello, vengono definiti “Oi Keltoi”, i Celti. La loro ideologia la possiamo definire senz’altro “neoceltica”. Di che si tratta esattamente, come mai questa “eresia neoceltica” ha attecchito così rapidamente nelle membra, nelle radici, nel corpo vivo dell’Impero millenario?                                                                                                     

Innanzitutto le colpe dell’Apocalisse odierna, dell’Abisso luciferino in cui siamo precipitati miseramente, sono in gran parte da ascrivere all’ignavia, all’apostasia e alla eterodossia del Basileus, dei logoteti, degli strateghi e navarchi e al dilagare conseguente e inevitabile dei “doni” ai clienti e ai parenti del Basileus e dei suoi ministri e cortigiani. Il “palation” è diventato il ricettacolo dell’Anticristo.

La cultura imperiale è finita nelle mani dei cattivi retori e di pedanti scoliasti che quotidianamente e squallidamente massacrano nei panegirici e prostagmi le antiche e profonde tradizioni aristoteliche, platoniche, plotiniane e porfiriane, fornendo un comodo alibi alle massicce e perniciose infiltrazioni dell’ideologia neoceltica, che gode e si ingrassa in questo sfacelo senza fine, altro che “Impero senza fine”. Ma una volta per tutte, in realtà che cosa è questa nuova dottrina, questa nuova eresia? Essa sostiene che il cammino della scienza moderna sembra essere unidirezionale: che lo scibile umano è tutto contenibile dentro i due poli estremi della “verità” e della “opinione”. Tutte quelle nozioni non sottoponibili ai criteri “scientifici” della logica matematizzante, neopitagorica?, o sperimentale, neoarchimedica?, non appartengono all’appagante, tranquillo e definito e definitivo? mondo dell’eterna “verità”, ma al mondo dell’ “apparenza”, della “opinione”. Ma noi, postremi proseliti del “dogma” neogorgiano, attenti all’uomo “come misura di tutte le cose”, non siamo di questo parere, di questa “opinione”.

Noi combattiamo tutte quelle dottrine che caparbiamente e “dogmaticamente” pretendono di limitare e “racchiudere” le conoscenze umane, noi avversiamo tutti quei neoaristotelici, travestiti di “modernità”, che, con il pretesto dell’apparente e conclamata ricerca della “verità” ultima, ipostatizzano il linguaggio e si vantano di aver scoperto una presunta corrispondenza tra ideale, linguistico e realtà.                        

Anche la didattica e la pedagogia odierne obbediscono a questo meccanismo infernale: la teoria-recipiente, a imbuto, sostanzialistico-aristotelica, secondo cui al sapere versato nel cervello corrisponde una “esatta” acquisizione del discente; sui ragazzi si riversano “risposte senza che essi abbiano posto domande e alle domande che pongono non si dà ascolto”.                                                                                              I

Il nostro tentativo, che forse fallirà, perché tutto il mondo intorno a noi a cui apparteniamo e i valori dell’Impero a cui crediamo da oltre un millennio, stanno rovinosamente, precipitosamente e miseramente crollando sotto l’urto concentrico dei Barbari e Neo-Barbari e della perfida e subdola ideologia neoceltica, è quello di chiarire che non esiste uno iato radicale tra verità e opinione, che nelle scienze dell’uomo opera un pendolo, che oscilla continuamente tra i due poli, se esistono, apparentemente opposti, della verità e dell’opinione. Siamo sempre più persuasi che tra i campi elisi ipercoltivati e allo stesso tempo “conclusi” della logica matematizzante e quella sperimentale è viva e operante una “terza via”, una terra incognita, ma poi non tanto, e promessa, che trova la sua estrinsecazione più adeguata nelle così dette “tecnai” retoriche di aristotelica e gorgiana memoria. 

La “Megatecne” retorica o neoretorica tenta di assumersi il compito oneroso e forse impossibile di ricercare tra la logica matematizzante e quella sperimentale una “logica del verosimile” e perciò stesso sempre probabile, opinabile, precaria e mai definitiva, che pertiene largamente e profondamente alla incandescenza ipervulcanica del magma antropico.

In questa “catabasi” le prime esplorazioni brillantemente messe in opera ci sembrano quelle di Aristotele nei suoi “Topici”, dove egli ha iniziato la prima sistematizzazione di tutti quei “luoghi” retorici e  “ opinabili “che potrebbero sembrare in qualche modo più consoni alla palingenesi di una poco improbabile logica delle scienze umane: per la retorica antica, ma anche per la nuova, l’”arte del discorso”, la “tecne del linguaggio” si configura contemporaneamente come strumento di comunicazione e azione nella società.

Le “tecnai”, le argomentazioni sia proprie che improprie, (qui rimandiamo alla “Retorica” e alla “Poetica” di Aristotele), sono la “logica” che guida l’orchestrazione retorica.                                                                                                                     

Le capacità argomentative, persuasive, dell’oratore sono strettamente legate alla sua capacità di adattamento all’uditorio, al suo pubblico. E la logica argomentativa è strettamente legata alle contingenti performance dell’oratore nei confronti del suo uditorio in quella precisa e determinata situazione, transazionale, per usare una categoria teoretica “moderna”.                                                                            

Quindi “il discorso”, la comunicazione viene a cadere nell’universo cogente dell’Impero retorico con la sua disciplina millenaria, che molti possiedono naturalmente, mentre in altri assurge al rango di “arte”, vedi Aristotele, “Retorica”. Stiamo attenti, però, a non confondere la terza via, quella dell’Impero retorico con l’irrazionale, con l’arte teurgica; il linguaggio della Retorica non è assimilabile alle cacofonie dell’analisi del profondo della psiche, vedi le moderne apostasie psico-sociologiche sulla metafora e sull’analogia, né al “contaminazionismo” e al formalismo pseudo-alessandrino ed ellenistico della moderna stilistica.

Per una formulazione più decisa e precisa del nostro discorso si rimanda al venerabile e sacro Aristotele della Retorica e della Poetica, affinchè quelle belve immonde e fameliche, sostenitrici dell’ideologia neoceltica, quei cani idrofobi, rabbiosi e maligni sprofondino di nuovo nell’Abisso crudele, senza fondo, dell’Anticristo da cui sono sbucati per impestare l’aria che respiriamo e distruggere l’ultimo baluardo, l’ultima Thule della civiltà di Cesare e di Cristo”.                                        

 

Nota critica

A sostegno dell’attualità delle affermazioni di questa incomparabile “pergamena” il traduttore contemporaneo vuole riportare il senso di una “querelle” tra i moderni, o se volete, tra i contemporanei. Essi vivono, operano ed elaborano il pensiero critico nella trincea “calda” della nuova e antica frontiera culturale europea, mentre noi, piccoli   provinciali alla periferia del nuovo ordine europeo, ci attardiamo in arcaiche diatribe pseudo-sofistiche di retroguardia.                                                              

I protagonisti di questo dibattito europeo, che poco ci appartiene, sono da una parte K.R.Popper, Ch.Perelman, L.Olbrechts-Tyteca e dall’altra K.Buhler e K.Lorenz ed altri, che non citiamo.                                                                                                               

Al di là del recupero della metafisica come immanente all’uomo e apportatrice di ipotesi e congetture discutibili, ma pur sempre ipotesi e congetture, compiuto da K.Popper in contrasto critico con il Circolo di Vienna e i suoi successori, ad esempio L.Wittgenstein, K.R.Popper chiarisce in un interessante saggio la sua posizione rispetto a quello che sembra essere il nodo gordiano della riflessione contemporanea, il problema della comunicazione.                  

Popper parla della teoria del linguaggio sviluppata da K.Buhler in un articolo della “Indogermanisches Jahrbuch” del 1919. “Buhler distingue tre stadi nello sviluppo del linguaggio: ogni volta che un animale o anche una pianta si muove, viene ‘espresso’ uno stato interno. In questo caso il linguaggio è qualcosa che rassomiglia ad un termometro: se va su, significa che qualcosa ‘sale’.

Segue subito dopo la funzione segnaletica: l’altro reagisce all’espressione. E come terza, dice Buhler, viene la ‘rappresentazione di stati di cose’, di situazioni, di fatti-e questo è il linguaggio umano. Quasi tutti i teorici del linguaggio si sono fermati all’ambito dell’espressione.  Quasi tutti i teorici del linguaggio parlano del linguaggio come espressione. Pochi arrivano alla funzione segnaletica e nessuno arriva alla funzione rappresentativa, alla rappresentazione o descrizione dove realmente trova la sua genesi il ‘problema della verità’ (K.R.Popper, K.Lorenz, Il futuro è aperto, Milano, 1989; da ora in poi Pop-Lor).

E qui sta veramente l’origine dello spirito umano: nella interazione retroattiva con il linguaggio.”(Pop-Lor) “Il linguaggio ci permette di guardare una proposizione al di fuori di noi stessi e di chiederci: questa proposizione è corretta? E’ vera? E con ciò la proposizione comincia propriamente ad essere una proposizione, con il problema della non-verità della proposizione, con il problema della verità. Tra parentesi, io ho aggiunto, alle tre funzioni buhleriane del linguaggio, una quarta funzione: vale a dire la funzione ‘argomentativa’ del linguaggio. Possiamo discutere se la proposizione è vera o non è vera.”. (Pop-Lor)

“Tutti i linguisti, o almeno la maggior parte di loro, non hanno capito veramente il mio maestro K.Buhler e non l’hanno letto a fondo: non hanno visto quanto sia importante la sua dottrina.” (Pop-Lor) “Buhler ha detto qualcosa che è di decisiva importanza per la linguistica, per la musicologia, per l’estetica. Ha richiamato l’attenzione sul fatto che tutti gli animali, io pure, ‘si esprimono’.

Un maiale che grugnisce esprime in tal modo uno stato interiore. Gli animali si esprimono e l’espressione può essere considerata fino a un certo grado linguaggio. Questo è, ad avviso di Buhler, il livello più basso del linguaggio, un livello che svolge pur sempre un certo ruolo quando si parla, ma che non raggiunge il livello umano. Vi è poi un secondo livello. Il secondo livello è ciò che egli chiama la’funzione segnaletica’ (Auslosefunktion) del linguaggio. Ciò significa, ad esempio, che se ora io parlo, spero che ciò generi in Loro, miei ascoltatori, qualcosa che li spinga a reagire a ciò che dico.

Questa è la’funzione segnaletica’ o ‘funzione comunicativa’, che svolge un grande ruolo anche negli animali. E negli animali a questo riguardo la cosa di maggiore importanza sono i ’gridi di allarme’ o i segnali di allarme. E anche i segnali di richiamo, che possono attirare il partner sessuale. Questo è il secondo livello. E’ presente in tutti gli animali e significa comunicazione tra organismi. K.Lorenz ha certamente ragione quando rileva che questa funzione negli uomini è più sviluppata che negli animali.

Abbiamo quindi due livelli inferiori e cioè la funzione espressiva e quella segnaletica. Quasi tutti i linguisti hanno compreso o solo la funzione espressiva o solo le funzioni espressiva e segnaletica e parlano del linguaggio umano come se questo fosse ‘solo’ espressione e segnalazione. Ma l’elemento proprio, importante e rivoluzionario del linguaggio umano è di andare decisamente oltre la funzione espressiva e quella segnaletica e di giungere cioè alla ‘funzione di rappresentazione’. Questa permette di descrivere cose ad esempio, che si sono svolte mille anni fa.”(Pop-Lor)

“Si possono descrivere, sempre grazie alla funzione di rappresentazione, cose completamente astratte, come nella matematica. In una parola, la funzione rappresentativa non è limitata ai gridi di allarme e di richiamo che servono lì per lì al momento, non è più legata nelle sue formulazioni alle situazioni contingenti. E si possono soprattutto costruire teorie; e, dopo aver costruito queste teorie, le si può criticare.

Questa decisiva situazione umana è stata generalmente ignorata dai linguisti sebbene K.Buhler l’abbia formulata molto chiaramente nel 1918 in un articolo breve (ad eccezione della funzione critica). La base della cultura umana mi sembra che stia proprio qui: nella possibilità di formulare linguisticamente queste cose. Si può dire molto brevemente la stessa cosa, affermando che l’uomo con il suo linguaggio può almeno mentire in un modo che è precluso agli animali. Come poi questo fatto sia stato analizzato più dettagliatamente, su ciò vi sarebbe molto da dire. Naturalmente gli animali possono in un certo senso mentire, ma l’uomo può dire non solo cose vere, ma anche cose false. E queste cose false non sono generalmente menzogne, ma errori.

A ogni modo, con la possibilità di dire il falso compare nella sua interezza il problema della ricerca della verità e nella sua interezza il problema della critica.”(Pop-Lor) “Eraclito era consapevole del significato del linguaggio umano per la legalità naturale del mondo. E’ certo che ha riconosciuto chiaramente il carattere problematico di ogni pretesa di verità, spingendo così il ’problema della verità’ al centro del problema della conoscenza.

Ciò lo condusse a diffidare per primo della percezione sensibile e a evidenziare che noi dobbiamo essere ricercatori attivi se vogliamo trovare. Il suo testo mostra le possibilità contrapposte presenti nella interpretazione del linguaggio e l’ambiguità del linguaggio e quindi ciò che vi è di problematico in ogni lingua e la necessità di stare in guardia di fronte alle possibilità del linguaggio: il nostro rapporto con il linguaggio deve essere vigile, attivo, indagatore.”(Pop-Lor)  

Al termine di questa breve ricognizione, di questa rapida incursione tra gli antichi e i moderni, ci pare di poter affermare che la '‘ riscoperta'’ della quarta funzione, quella argomentativa e critica, ci riavvicina in modo sempre più diretto, personale ed ineluttabile ad Aristotele, alla Retorica e ai sofisti, (non era Platone che accusava i sofisti di raccontare ‘menzogne’?), ad Eraclito, ad un mondo che forse qualcuno, a torto, aveva creduto perduto e lontano da noi, ma gli antichi si prendono sempre la rivincita.

E ormai nessuno attende più Godot né i Barbari e tanto meno i predatori dell’arca perduta, perché chi l’ha capito, l’arca perduta della sapienza antica l’ha già ‘saccheggiata’ e la continua a saccheggiare e parecchi, soprattutto in Europa, tranne il Bel Paese, sembra che già siano tornati all’antico.  

Non si può dipingere un bel quadro moderno se non si conoscono i segreti dell’arte classica. Con questo non vogliamo innalzare recinti o palizzate intorno alla psicologia o alla sociologia, le due scienze moderne per ‘antonomasia’, né valli di Adriano o muri di Berlino, che del resto la Storia ha fatto sempre prima o poi crollare nella polvere dell’oblio, né cortine di ferro, di gomma o di burro o cordoni sanitari, barriere incivili e acritiche che non servono a nulla e a nessuno, che lasciano il tempo che trovano e che se mai contribuiscono ad inasprire gli animi più che predisporli ad una sana e corretta quarta funzione, quella argomentativa e critica.                                            

Vogliamo al contrario ribadire la grande utilità sia della psicologia che della sociologia, ma contemporaneamente restituire al nostro Sistema formativo nazionale quelle caratteristiche peculiari che sono le radici della nostra cultura, della nostra civiltà e della nostra Repubblica: le sue origini greco-bizantine, il suo profondo radicamento nell’humus classico.                                                                                            

Sono proprio questi i tratti caratteristici, che, nella prospettiva della prossima e inevitabile integrazione europea, ci possono e ci debbono riavvicinare all’alto standard della formazione europea. Il contributo italiano alla costruzione della formazione europea potrà essere originale e proficuo nella misura in cui sapremo recuperare e valorizzare nelle Scuole e nelle Università della Repubblica il nostro ‘spirito’ neocriticamente classico e bizantino.

 

 

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