Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Fosse Ardeatine, identificate altre due vittime. La storia del partigiano ebreo Marco Moscati

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Sessantasette anni dopo il terribile eccidio nazista del 24 marzo 1944 alle Fosse Ardeatine, altri due martiri hanno un nome e cognome. Un ebreo e un cattolico. Il partigiano Marco Moscati, stretto collaboratore di Pino Levi Cavaglione, comandante delle Bande dei Castelli, e il militare Salvatore La Rosa, siciliano, entrato in clandestinità dopo l’8 settembre e poi tradito a Roma da una spiata che lo aveva fatto rinchiudere a Regina Coeli. L'identificazione, come ha rivelato Paolo Brogi su Il Corriere della Sera, è stata condotta  dai carabinieri del Ris, il Reparto investigazioni scientifiche dell'Arma, i quali qualche mese fa hanno ricevuto da Onorcaduti (il Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti in Guerra del Ministero della Difesa) il delicato incarico di indagare sui resti dei 12 caduti delle Ardeatine rimasti senza nome, attraverso un esame del loro dna.
Un'indagine che è stata accelerata grazie all'intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, su segnalazione di Rosetta Stame, battagliera presidente dell'Anfim, l'associazione dei familiari delle vittime. La prima richiesta al Ministero della Difesa di identificare le salme degli "ignoti" risaliva peraltro già al 2006, da parte di Carla Di Veroli, all'epoca consigliere delegato delle politiche culturali e della Memoria dell'XI Municipio, e della famiglia Moscati. La Di Veroli aveva coinvolto l'allora sindaco Walter Veltroni, la Comunità Ebraica di Roma e l'Anpi.Marco Moscati era nel sepolcro n. 283 e Salvatore La Rosa nel n. 273. Il dna delle ossa della tomba 283 ha combaciato con quello fornito da Angelo Moscati, fratello della vittima, e quello della tomba 273 con quello fornito dalla figlia di Salvatore La Rosa, la signora Angela Alaimo La Rosa di Aragona, un paese dell’agrigentino in Sicilia.Non è escluso che a breve le indagini del Ris permettano di identificare qualcun altro dei caduti "ignoti".
Mancano all'appello fra gli ebrei Cesare Calò, Marian Reicher, Bernard Soike e Heinz Erich Tuchmann, e fra i cattolici Alfredo Maggini, Remo Monti, Michele Partiti e Cosimo De Marco, che probabilmente sarà il prossimo corpo riconosciuto dal momento che i familiari si sono appena sottoposti all'esame.

La storia del partigiano Marco Moscati . Marco Moscati, soprannominato "Marchello", commerciante ambulante, nato a Roma il 1° luglio 1916, all'epoca dell'eccidio aveva 27 anni. Dopo l'armistizio si era dato alla macchia e, assieme ad Alberto Terracina, era entrato a far parte della banda partigiana dei Castelli Romani, guidata dall'ebreo Pino Levi Cavaglione, di cui era diventato grande amico e che lo cita più volte nel suo diario. Il 18 ottobre 1943, si legge nel diario di Levi Cavaglione, Marco ebbe notizia della retata degli ebrei nel Ghetto di Roma, avvenuta due giorni prima. Nonostante il rischio di essere catturato, decise di tornare nella capitale, per avere notizie dei suoi, e venne a sapere con quale ferocia i nazisti avessero caricato sui camion gli ebrei romani, compresi i bambini, le donne incinte e i vecchi ammalati. Tornato ai Castelli, Moscati riprese l'attività partigiana, partecipando a numerose azioni, come il lancio dei chiodi a quattro punte sulla via Appia, tra Genzano e Velletri (30 ottobre 1943), e la distruzione della linea ferroviaria Roma-Cassino all'altezza del Ponte Sette Luci (19-20 dicembre 1943), che causò ai tedeschi la perdita, tra morti e feriti, di circa 400 uomini. Gli esplosivi furono forniti dal Fronte Militare Clandestino del colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo. "No, dannati tedeschi - annotò quel giorno Pino Cavaglione Levi sul suo diario -, questa volta il colpo non ci è venuto dagli aviatori inglesi. Vi è venuto da noi! Da noi che in questo momento ci sentiamo orgogliosi di essere italiani e partigiani e non cambieremmo i nostri laceri abiti bagnati e fangosi per nessuna uniforme". Esplodendo nell'invettita: "Vi odiamo. Vi odiamo a morte". La storia venne immortalata da Nanni Loy nel film "Un giorno da leoni".Nel marzo '44 (la data non è certa, il fratello Angelo, in una relazione, parla del 20-22 marzo, proprio alla vigilia dell'azione di via Rasella) Marco fu arrestato, probabilmente su delazione, sulla scalinata di Trinità dei Monti. Si era recato presso un'officina meccanica in piazza Panico a Roma, nelle vicinanze di piazza di Spagna, per ritirare un piccolo carico di armi per la sua formazione partigiana. Al momento del pagamento, era stato sorpreso dai fascisti, che lo avevano inseguito a colpi di spari, catturandolo sulle scale. Venne rinchiuso nel carcere delle SS in via Tasso, dove - come testimonia il fratello Angelo - “fu picchiato selvaggiamente ma con grande onore riuscì a non dire nulla della sua rete operativa partigiana dei Castelli Romani”. Secondo la testimonianza di Alberto Terracina (vedi il saggio di Michela Ponzani, La memoria divisa intorno alla strage delle Fosse Ardeatine, "Il Secondo Risorgimento d'Italia", anno XIX, n. 1, 2009), Marco - dopo essere stato interrogato a via Tasso - era stato portato a Regina Coeli, dove nell’ora d’aria libera aveva potuto parlare con il fratello Emanuele, e gli aveva chiesto di mettersi in contatto con la sorella tramite un detenuto che sarebbe uscito il 22 marzo, per farsi portare dei panni puliti, dato che dopo le percosse questi erano tutti imbrattati di sangue. Reale Moscati, la sorella dei due detenuti, ricevendo dalla guardia carceraria gli indumenti sporchi di sangue del fratello Marco si impressionò e «per non creare una sofferenza maggiore al dramma che (...) tutti noi ebrei stavamo vivendo, li gettò a Ponte Capi, prima di recarsi a casa»
Il trasferimento di Marco a Regina Coeli e l'incontro tra i due fratelli è attestato da una lettera autografa di Emanuele, che dal carcere di Regina Coeli fa sapere alla famiglia di stare bene e di non preoccuparsi, che insieme a lui c'è anche Marco. Il 24 marzo 1944 Marco fu prelevato dal carcere e portato col fratello Emanuele, trent’anni ancora da compiere, alle Ardeatine, dove furono entrambi barbaramente assassinati dai tedeschi. Un altro degli otto fratelli Moscati, David, appena diciassettenne, fu arrestato dai Carabinieri il 12 aprile 1944 e, dopo un periodo di prigionia a Regina Coeli e al campo di raccolta di fossoli, fu deportato nel lager di Auschwitz, dove morì il 10 luglio 1944. La storia dei fratelli Moscati, Emanuele, Marco e Davide, era da tempo nota alla comunità ebraica di Roma. Presso la Sinagoga di Roma, a Lungotevere de’ Cenci, è infatti posta una lapide dedicata agli ebrei partigiani “per la libertà d’Italia e l’onore del popolo d’Israele”, che avevano combattuto la resistenza in città e nei Castelli Romani, che riporta il nome di Marco, mentre nella lapide dedicata ai partigiani caduti per la Liberazione, in Piazza Santa Marita in Trastevere, appare il nome di Emanuele. Anche la sezione Anpi di Albano Laziale porta il suo nome.Inoltre a Marco Moscati sono dedicate una piazza ad Albano Laziale e una via a GenzanoNegli anni ’70 il Comune di Roma, su proposta di Carla Capponi, conferì una medaglia d’argento ai genitori di Marco Moscati per l’attività partigiana del figlio.Tuttavia tra i nomi degli ebrei assassinati alle Ardeatine compariva solo il nome di Emanuele e non quello di Marco, la cui identità non aveva potuto essere stabilita al momento dell’esumazione delle salme poiché la madre di Moscati, Allegra Calò, non aveva riconosciuto gli indumenti che la salma aveva indosso, diversi da quelli che il figlio aveva l’ultima volta che ella lo aveva visto.
Allegra Calò attese il figlio Marco per anni, come ha testimoniato il nipote Cesare Moscati, nella convinzione che potesse tornare da qualche misterioso posto da un momento all’altro e per questo motivo “ogni sera, nei giorni di festività ebraica lasciava la porta di casa sempre aperta, pensando che il figlio avesse perduto le chiavi di casa”.

 

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