Fosse Ardeatine, identificate altre due vittime. La storia del partigiano ebreo Marco Moscati
Sessantasette anni dopo il terribile eccidio nazista del 24 marzo 1944 alle Fosse Ardeatine, altri due martiri hanno un nome e cognome. Un ebreo e un cattolico. Il partigiano Marco Moscati, stretto collaboratore di Pino Levi Cavaglione, comandante delle Bande dei Castelli, e il militare Salvatore La Rosa, siciliano, entrato in clandestinità dopo l’8 settembre e poi tradito a Roma da una spiata che lo aveva fatto rinchiudere a Regina Coeli. L'identificazione, come ha rivelato Paolo Brogi su Il Corriere della Sera, è stata condotta dai carabinieri del Ris, il Reparto investigazioni scientifiche dell'Arma, i quali qualche mese fa hanno ricevuto da Onorcaduti (il Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti in Guerra del Ministero della Difesa) il delicato incarico di indagare sui resti dei 12 caduti delle Ardeatine rimasti senza nome, attraverso un esame del loro dna. La storia del partigiano Marco Moscati . Marco Moscati, soprannominato "Marchello", commerciante ambulante, nato a Roma il 1° luglio 1916, all'epoca dell'eccidio aveva 27 anni. Dopo l'armistizio si era dato alla macchia e, assieme ad Alberto Terracina, era entrato a far parte della banda partigiana dei Castelli Romani, guidata dall'ebreo Pino Levi Cavaglione, di cui era diventato grande amico e che lo cita più volte nel suo diario. Il 18 ottobre 1943, si legge nel diario di Levi Cavaglione, Marco ebbe notizia della retata degli ebrei nel Ghetto di Roma, avvenuta due giorni prima. Nonostante il rischio di essere catturato, decise di tornare nella capitale, per avere notizie dei suoi, e venne a sapere con quale ferocia i nazisti avessero caricato sui camion gli ebrei romani, compresi i bambini, le donne incinte e i vecchi ammalati. Tornato ai Castelli, Moscati riprese l'attività partigiana, partecipando a numerose azioni, come il lancio dei chiodi a quattro punte sulla via Appia, tra Genzano e Velletri (30 ottobre 1943), e la distruzione della linea ferroviaria Roma-Cassino all'altezza del Ponte Sette Luci (19-20 dicembre 1943), che causò ai tedeschi la perdita, tra morti e feriti, di circa 400 uomini. Gli esplosivi furono forniti dal Fronte Militare Clandestino del colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo. "No, dannati tedeschi - annotò quel giorno Pino Cavaglione Levi sul suo diario -, questa volta il colpo non ci è venuto dagli aviatori inglesi. Vi è venuto da noi! Da noi che in questo momento ci sentiamo orgogliosi di essere italiani e partigiani e non cambieremmo i nostri laceri abiti bagnati e fangosi per nessuna uniforme". Esplodendo nell'invettita: "Vi odiamo. Vi odiamo a morte". La storia venne immortalata da Nanni Loy nel film "Un giorno da leoni".Nel marzo '44 (la data non è certa, il fratello Angelo, in una relazione, parla del 20-22 marzo, proprio alla vigilia dell'azione di via Rasella) Marco fu arrestato, probabilmente su delazione, sulla scalinata di Trinità dei Monti. Si era recato presso un'officina meccanica in piazza Panico a Roma, nelle vicinanze di piazza di Spagna, per ritirare un piccolo carico di armi per la sua formazione partigiana. Al momento del pagamento, era stato sorpreso dai fascisti, che lo avevano inseguito a colpi di spari, catturandolo sulle scale. Venne rinchiuso nel carcere delle SS in via Tasso, dove - come testimonia il fratello Angelo - “fu picchiato selvaggiamente ma con grande onore riuscì a non dire nulla della sua rete operativa partigiana dei Castelli Romani”. Secondo la testimonianza di Alberto Terracina (vedi il saggio di Michela Ponzani, La memoria divisa intorno alla strage delle Fosse Ardeatine, "Il Secondo Risorgimento d'Italia", anno XIX, n. 1, 2009), Marco - dopo essere stato interrogato a via Tasso - era stato portato a Regina Coeli, dove nell’ora d’aria libera aveva potuto parlare con il fratello Emanuele, e gli aveva chiesto di mettersi in contatto con la sorella tramite un detenuto che sarebbe uscito il 22 marzo, per farsi portare dei panni puliti, dato che dopo le percosse questi erano tutti imbrattati di sangue. Reale Moscati, la sorella dei due detenuti, ricevendo dalla guardia carceraria gli indumenti sporchi di sangue del fratello Marco si impressionò e «per non creare una sofferenza maggiore al dramma che (...) tutti noi ebrei stavamo vivendo, li gettò a Ponte Capi, prima di recarsi a casa» |
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