La sanguinosa oppressione borbonica della Sicilia

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Categoria: Storia del Risorgimento
Creato Giovedì, 17 Dicembre 2015 14:49
Ultima modifica il Martedì, 22 Dicembre 2015 19:00
Pubblicato Giovedì, 17 Dicembre 2015 14:49
Scritto da Angelo Martino
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Il rancore e l’odio che i Siciliani nutrivano nei confronti del regime borbonico erano talmente radicati e forti che fino al 1848 sia i patrioti liberali che quelli democratici ne furono condizionati. I patrioti napoletani e siciliani, che avrebbero dovuto sentirsi affratellati dalla comune lotta all’oppressore, dapprima si danneggiarono gli uni contro gli altri. Solo nel 1848, con il bombardamento di Messina,  iniziarono a muoversi  in sinergia contro il regime.

In effetti - scrive lo storico Raffaele De Cesare - “il nome Napoletano era aborrito in tutta l’isola, quanto a Milano il nome di Croato”. Pertanto la dissidenza dei Siciliani nei confronti del Regno Borbonico si configurava anche come duro conflitto tra Napoli e Palermo, due metropoli di cui la prima contava nel 1816  322.000 abitanti e la seconda 114.000.  Inoltre sia Messina che Catania superavano i 40000 abitanti.

Rancore odio si acuirono allorché Ferdinando II, nel 1837, aveva sentenziato: “La prima cosa a cui bisogna abituare la Sicilia si è di obbedire”.

Il patriota e storico Michele Amari rispondeva indirettamente: “il popolo siciliano non è né avvezzo né disposto a sopportare una dominazione tirannica e straniera”, facendo riferimento alla storia della Sicilia dai Vespri siciliani.

Così nel 1848 la Sicilia fu la prima a dare l’avvio ai moti insurrezionali europei.

Dopo un terribile inverno segnato dalla povertà, il 12 gennaio 1848 il popolo palermitano eresse le barricate e si rivoltò, sventolando per le strade dell’isola il tricolore italiano, inneggiando all’Italia ed  alla Costituzione. Dalla tetra fortezza di Castellammare le forze borboniche bombardarono la città con gli artiglieri che scagliarono piogge di proiettili contro la folla degli insorti.

I tiranni borbonici decisero di ritirarsi solo dopo aver lasciato sul terreno in solo quel giorno trentasei vittime. Il loro sacrificio non fu vano, poiché nel giro di pochi giorni i contadini delle campagne si unirono ai rivoltosi, assaltando i municipi e dando alle fiamme i registri delle imposte e del catasto.

 

L’esercito borbonico, capitanato dal generale De Majo, cercò di opporre una qualche resistenza ma, dopo che Palermo fu luogo di aspri combattimenti, l’esercito borbonico si ritirò e si insediò un comitato generale, che si assunse le funzioni di governo, chiedendo la convocazione di un Parlamento.

Il 25 marzo 1848, dopo 30 anni, venne proclamato nuovamente il Parlamento di Sicilia, presieduto da Vincenzo Fardella di Torrearsa, fra l’ottimismo e la gioia dei politici e del popolo. L’isola riuscì ad essere nuovamente retta da un governo costituzionale con la proclamazione del nuovo Regno di Sicilia.

Il capo del nuovo governo Ruggero Settimo, già ammiraglio della flotta borbonica, ma che da sempre aveva nutrito schietti sentimenti liberali e si era opposto alla tirannia borbonica nei confronti del popolo isolano, fu accolto con entusiasmo e salutato come padre della patria siciliana. Tra i ministri, furono nominati Francesco Crispi, Francesco Paolo Perez, Mariano Stabile, Michele Amari e Salvatore Vigo.

La bandiera del Regno della Sicilia fu il tricolore: verde, bianco e rosso.

Alle notizie della rivolta siciliana, la stessa Napoli si sollevò contro i borbone, come anche i contadini del Cilento. In quel frangente, Ferdinando II, consapevole ormai che le sue truppe non erano ben disposte a combattere, liberò dal carcere Carlo Poerio. Il gesto incoraggiò tutti i liberali napoletani che organizzarono una manifestazione di venticinquemila persone sulla grande piazza di fronte al Palazzo Reale.
Per soffocare le giuste rivendicazioni della Sicilia, Messina venne assediata dalle truppe borboniche e semidistrutta dopo una serie di bombardamenti durati da gennaio a settembre del 1848. L’assedio di Messina valse al tiranno Ferdinando II l’epiteto di “re bomba”.

Anche, dopo la sconfitta della rivoluzione del 1848, i siciliani come prima e più di prima, continuarono negli anni successivi e precedenti alla spedizione dei Mille a battersi per l’indipendenza e la costituzione

Non si po’ non ricordare quanto avvenne nel novembre del 1856, quando Salvatore Spinuzza e Francesco Bentivegna provarono a spingere le masse contro l’oppressiore. Il tentativo, pur se velleitario ma ricco di generosità e idealità, si concluse drammaticamente con una sconfitta che costò ai due patrioti la condanna alla pena capitale dopo un sommario processo nel marzo dello 1857.

Il 4 aprile 1860, a poche settimane dallo sbarco dei Mille, si verificò un ultimo disperato momento di rivolta, conosciuta come “della Gancia” ad opera di un popolano, l’artigiano Francesco Riso, che si  concluse con il sacrificio di ben tredici vittime il cui martirio acuì l’odio dei  siciliani verso i Borbone, considerati, anche dalle classi popolari, come stranieri e oppressori.

In Sicilia era diffusa negli ambienti borghesi e aristocratici, come anche tra i ceti popolari e nello stesso clero, un‘idea di Costituzione che i Borbone si erano sempre rifiutati di concedere, abituati all’ambiente napoletano e continentale in cui esercitavano la loro tirannide in maniera più tranquilla rispetto allo spirito vivo patriottico, costituzionale molto sentito in Sicilia.

“All’inizio del 1860- scrive Alfonso Scirocco- la Sicilia appariva sempre più inquieta, tanto da destare le preoccupazioni dei governi europei, che temevano un’insurrezione imminente”.

Tuttavia, nonostante le sollecitazioni continue di Rosolino Pilo, fervente mazziniano siciliano che perirà in uno scontro a fuoco in marcia verso Palermo nel 1860, Giuseppe Garibaldi non era disponibile ad un tentativo avventuroso, rivolto a suscitare un’insurrezione non ancora iniziata, come erano stati quelli dei Fratelli Bandiera e di Pisacane. Quelle sconfitte avevano incrinato le certezze dei mazziniani.

Pisacane aveva scritto nel saggio sulla Rivoluzione, di essere disponibile ad un sacrificio senza speranza di premio: «ogni mia ricompensa io la troverò nel fondo della mia coscienza e nell’animo di questi cari e generosi amici[…] che se il nostro sacrificio non apporta alcun bene all’Italia, sarà almeno una gloria per essa aver prodotto figli che vollero immolarsi al suo avvenire». Le parole di Pisacane erano nobili, ma tante sconfitte avevano lasciato il segno.

Lo storico Scirocco si sofferma sui momenti di esitazione precedenti la spedizione dei Mille in Sicilia, fino a quando non si era deciso che l’impresa si mostrava necessaria per liberare anche la Sicilia dall’occupazione borbonica.

Lo storico Salvatore Lupo pone l’accento su “lo spirito pubblico nell’isola “ tramite le relazioni inviate dal luogotenente borbonico Paolo Ruffo di Castelcicala, mese dopo mese, in quel 1860. Nel gennaio del 1860 il Ruffo scriveva: “I faziosi sperano nelle “orde rivoluzionarie che sono raccolte nell’Italia Centrale”, puntano su “Cavour, su Garibaldi e su quella funesta pleiade di nomi che personificano da anni la sovversiva idea unitaria”.

A febbraio il luogotenente Ruffo mise in risalto come le idee di sovranità del popolo, di suffragio universale e di quelle che definiva “stranezze simili”, che si erano diffuse nella plebe palermitana.

Se ne deduce che il popolo siciliano avesse già interiorizzato i principi del suffragio universale e della sovranità popolare.

 

 

Bibliografia:

Salvatore Lupo, L’unificazione italiana, Donzelli Editore, 2011.
Alfonso Scirocco, Garibaldi, Laterza, 2001.
Rosario Romeo, Il risorgimento in Sicilia, Laterza,  5 ed. 2001.