Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Napoli 1799. Cap.XIX - Le donne della rivoluzione

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Due donne su tutte scrivono i loro nomi tra i martiri della rivoluzione del 1799: Eleonora Fonseca Pimentel e Luisa Sanfelice.

La Pimentel  “ornata d’ogni genere di letteratura ed ancor più di virtù, da Metastasio lodata e da lui anche amata, fu per aver scritto il Monitore Napoletano [1] condannata a perder la vita sulle forche piantate in piazza Mercato. Chiamata al supplizio domandava e beveva caffè esclamando: Forsan haec olim meminisse juvabit. Poi marciava in sembianza di donna maggiore della disgrazia. Giunta al luogo ch’era per lei l’ultimo in cui viva sussitere dovesse,incominciò a favellare al popolo, ma i carnefici le ruppero tostamente il femminile e tenero collo con le corde e troncaronle ad un tratto le eloquenti parole”.

Eleonora nasce a Roma, il 13 gennaio 1752, dal nobile portoghese don Clemente Henriquez de Fonseca Pimentel Chaves e da Caterina Lopez de Leòn. Emigra con tutta la famiglia a Napoli, perché in questa città “i preti li fanno stare al posto loro”, non come a Roma che si mescolano alla politica. A Napoli scopre una città chiassosa, colorata e dai mille mestieri.

“Mestieri inverosimili a Napoli ce n’erano parecchi. A Santa Teresella ogni crepuscolo passava il latrinaro col suo orribile carro, ch’era poi una gran botte a stanghe e ruote. Emanava un lezzo spaventoso… Altra curiosa attività quella delle capère. La prima volta che ne vide una fu pochi giorni dopo l’arrivo, in una bella mattinata di sole. Dai bassi erano uscite donne coi capelli sciolti, portando sedie; nell’attesa, mondavano fagioli freschi, cime di broccoli”. E questo diventa il momento in cui Eleonora decide che bisogna spendersi, in prima persona, per aiutare la plebe a diventare popolo attraverso l’istruzione.

E con questa idea la giovane portoghesina (così la chiamano) si impone come “traduttrice dal latino e dal greco, scrittrice di filosofia, poetessa e traduttrice di trattati dove si studiano i rapporti tra Stato e Chiesa; esperta di economia, di scienza con Spallanzani [2], di geologia con Fortis [3]; eccezionale conversatrice nel suo salotto, e nelle riunioni dei patrioti... alle sue  spalle c’è Vico [4], l’iniziatore della nuova scienza, davanti a lei si ergono le donne di ingegno dei primi salotti ,e poi, più tardi, quelle della Rivoluzione francese dell’89, come madame Roland [5], l’unica a cui ella somiglia”.

 

Dopo una gara - vinta - di poesia Eleonora è nominata bibliotecaria della regina Maria Carolina ed ha, così, la possibilità di passare gran parte della sua giornata fra i libri –nelle stanze mai attraversate dai sovrani- e frequentare la nobiltà del regno.

Non dura molto nel suo incarico. Per le sue vicende private (separazione dal marito) è licenziata come bibliotecaria e pivata del sussidio, già accordatole dopo la separazione dal coniuge. La regina, che ha imparato a conoscerla bene, la considera una testa calda, la tiene costantemante sott’occhi, teme le sue idee, ripete spesso “Mai fidarsi di quella!”

Nel salotto di Eleonora si incontrano molti intellettuali per leggere e commentare le opere di Filangieri o di Alfieri, per tentare la traduzione in napoletano della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Queste attività culturali conducono la Pimentel Fonseca a varcare il carcere della Vicaria il 5 ottobre del 1798, poco prima dell’inizio della campagna borbonica contro i Francesi.

-Siete la signora Piemontel? chiese l’ufficiale.

-Sono la marchesa de Fonseca Pimentel, precisò lei.

-Teniamo ordine di perquisizione, signora marchese; ghignò l’ufficiale.

Buttarono fuori il contenuto dei cassetti della scrivania, degli stipi,del comò. E scaraventarono a terra i libri dalle scansie, s’impadronirono delle sue carte.

-Perché tenete l’Enciclopedia dei Francesi? (era l’amata Encyclopedie di Diderot), interrogò l’ufficiale. -E tenete pure Filangieri… Tutti libri proibiti da Sua Maestà. Qui a casa vostra ci stanno riunioni sediziose, ogni notte. Chi viene da voi?… Tutto ‘nfame, tutto proibito, contro Sua Maestà…Siete in arresto.

-Non ne vedo le ragioni - ribatté Eleonora - E’ fuori dalla legge, da ogni legge.

-Siete giacubbina, altro che ragioni, altro che legge… Siete voi che avete calpestato la legge a Napoli”.

La grande colpa di Eleonora è quella di leggere Filangieri e l’abate Genovesi, è quella di volere la Repubblica come in Francia. È, perciò, colpevole. “Non sono colpevole d’altro che di pensare che il popolo possa avere una vita meno infelice e più giusta”. E’tutto inutile; è accusata di complottare contro il re; l’unica possibilità per evitare il carcere è confessarsi colpevole, fare il nome degli altri giacobini. Ma è inutile. Ed allora Giuseppe Guidobaldi, l’inquisitore, insieme ai giudici Vanni e Castelcicala, della nuova Corte di Giustizia, la destina al carcere criminale della Vicaria.

La detenzione dura un paio di mesi. La liberazione coincide con l’entrata dei Francesi in Napoli e la nascita della Repubblica Napoletana.

Da questo momento, e per tutta la durata della Repubblica, la Pimentel conduce un’attività instancabile a favore dei principi democratici e per l’affermazione delle idee repubblicane.

Dal 2 febbraio  all’8 giugno 1799 compila e dirige - per trentacinque numeri più due supplementi - il “Monitore Napoletano”, il giornale che il 14 Piovoso scrive  “Siam liberi in fine, ed è giunto anche per noi il giorno, in cui possiamo pronunciare i sacri nomi di libertà e di uguaglianza, ed annunciarne alla Repubblica Madre, come suoi degni figliuoli; a’popoli liberi d’Italia, e d’Europa, come loro degni confratelli”.    

Quindi la portoghesina si incontra con i membri del governo provvisorio, discute ed interpreta i provvedimenti presi e da pubblicare sul giornale; si reca, poi, a scrivere in redazione.

Non manca di incontrare il popolo: lo fa nella Sala dell’Istruzione Pubblica, dove, da appassionata oratrice, si rivolge al popolo con discorsi in italiano ed in napoletano. Il suo fine è riscattare il popolo dall’ignoranza dall’oppressione borbonica. Il riscatto sociale passa anche attraverso il dialetto:

 

Napole sarà ricco,

e venarrà lo tiempo de la grassa

fora Signure e fora l’eccellenze

lo povero e lo ricco sogno eguali.

 

Quando Macdonald lascia Napoli al suo destino, la Pimentel non si unisce alle ingiuriose voci di tradimento che commentano  la decisione francese. Anzi, su “Il Monitore” del 25 aprile e del 14 maggio, scrive: ”L’Italia resterà una nazione guerriera, non dall’altrui ferro cinta; si comprenderà la grande verità che un popolo non si difende mai bene che da se stesso, e che l’Italia indipendente e libera è utile alleata; schiava è di peso; perché la libertà non può amarsi per metà, e non produce i suoi miracoli che presso i popoli tutto affatto liberi”.

Quando le bande del Ruffo abbattono la resistenza della Repubblica Napoletana, Eleonora si rifugia nel castel sant’Elmo. La  capitolazione la porta su una nave francese che non salpa mai dal porto di Napoli. Il “ripurgo” voluto dalla regina, poi, conduce alcuni ufficiali ad arrestare la Pimentel, che mezza nuda, offesa dai lazzari festanti, è condotta di nuovo nel carcere della Vicaria e poi davanti alla Giunta di Stato. E’ancora “la iena” Giuseppe Guidobaldi a giudicarla:

-Noi ci conosciamo. Non credevo che dopo la lezione della Vicaria, vi sareste rimessa ad intrigare di nuovo contro le nostre graziose Maestà…Avete niente da dichiarare? Le prove delle vostre colpe sono esplicite, la vostra condotta è indegna di una donna onesta…Siete accusata di aver animato la rivolta, parlato per arringare la gente sula pubblica piazza, tenuto concioni sul palco anche in dialetto contro le Loro Maestà. Siete accusata di aver scritto un sonetto contro Sua Maestà la  Regina…Avete redatto questo lurido foglio della cosiddetta Repubblica … della schifezza… Avete niente da dichiarare?

Lei rispose col silenzio, alzando orgogliosa la bella testa.

-Siete colpevole di vilipendio nelle persone sacre del Re e della Regina…Avete partecipato ad innalzare il cosiddetto albero della libertà -‘na monnezza francese - e avete pronunciato discorsi sul palco,davanti a quello parlato, da svergognata…Che avete da dire a vostra discolpa?

-Ho parlato, scritto e operato, perché questa povera terra di Napoli possa diventare una Nazione libera…

-Che avete da dichiarare davanti alla Reale giustizia?

-Che verrà il tempo in cui la nostra morte non sarà giudicata inutile.

-Sia condannata…Non si indugi ancora…

-Voi mi inviate a morte con quel che c’è di meglio a Napoli, il vostro verdetto sarà giudicato infame dalla storia. In verità non siamo noi che moriamo, muoiono i Borbone”.

Il 20 agosto 1799 Eleonora Pimentel Fonseca, nella piazza Mercato di Napoli, è affidato alla forca del  boia masto Donato [6], che, secondo il rituale, annuncia: “Chesta è Eleonora Pimentella, una volta marchesa e adesso rea di Stato”. La folla è in delirio; le lazzare hanno lasciato le loro case all’alba per assistere a questa esecuzione; i popolani, venuti anche da fuori città e ridiventati tutti monarchici, mangiano, ridono - come ad una festa- e cantano:

                                           

‘A signora donna Lionora

ch’alluccava ‘ncopp’’o triato

mo’ abballa miez’’o mercato.

Viva, viva lu papa santo

Che ha mannato li cannuncini

P’ammazzà li giacubini.

Viva la forca ‘e masto Donato,

sant’Antonio sia lodato!

In fondo, per eliminare le voci della libertà non serve nemmeno una cifra esosa. Basta poco, come dimostra la nota di spesa fatte per la esecuzione della sentenza di morte nelle persone di Giuliano Colonna, Gennaro Cassano Serra, Michele Natale vescovo di Vico Equense, Nicola Pacifico, Domenico ed Antonio Piatti, Vincenzo Lupo ed Eleonora Fonseca Pimentel:

- Per 67 scorze di legname di pioppo servite per  armare lo steccato a grana 15 l’una 10,05

-Per 5 rotoli di chiodi a grana 32 il rotolo 01,60

 

-Per fattura di detto steccato 05,00

-Per tavolato del palco, consumo di legname, chiodi e fatighe fatte  07,00

- Per una mannara di ferro, ed alcuni anellari   e zeppe di ferro 18,00

- Per il telaro della mannara 07,00

- Al sollecitatore fiscale per calesse 03,40

- Al Capo a Palmieri per calesse  01,10

- A due sostituti del Cap.n ed al Portiere della Ruota per gratificazione nell’essere andati in diversi luoghi ad eseguire le disposizioni date dal sollecitatore fiscale 01,20

- Per capestri, ed altre funi occorse 04,76

- Per piombo 08,40

- Per trasporto della mannara situata sopra il telaro di legno dal Reclusorio nel Palazzo della Gran Corte, da qui nel Mercato, e dal Mercato nell’istesso Palazzo della Gran Corte 1,60

- Per una resima di carta occorsa per provare la mannara 00,38

- Per pezzi per inchiodare la mannara nel palco  00,80

-Per ammolatura della mannara, per affilatura ed imbrunitura della stessa. 01,20

Al Maestro di Giustizia 48,00

- Al suo aiutante 24,00

-Ad un altro aiutante bisognato per agire la mannara ed assistere alla decapitazione de’cennati Colonna e Serra 03,00

Totale 146,49 

 

Luisa Sanfelice nasce a Napoli, il 28 febbraio 1764, dall’ufficiale spagnolo don Pedro de Molino e dalla genovese Camilla Salinero. E’ una bella ragazza, dalla figura slanciata, dagli occhi neri e dalle labbra piccole e carnose. Appena diciassettenne va in sposa al cugino Andrea Sanfelice; dal matrimonio nascono tre figli.

Per le continue difficoltà finanziarie, dovute al vizio del gioco d’azzardo di Andrea, la vita coniugale di Luisa è molto tribolata, tanto che il figlio Gennaro è rinchiuso a Montecassino e le due figlie femmine nel monastero della Trinità a Magnocavallo, mentre i coniugi stessi, per volontà del re, affidati alla sovrintendenza del marchese Tommaso De Rosa, sono trasferiti a Laureana, un paese del Cilento.

La difficile vita matrimoniale tiene Luisa lontana  dalle vicende politiche del regno. Vi approda, infatti, solo alle soglie dell’era repubblicana e dopo che ha vissuto, per colpa del marito, l’ennesima difficolta finanziaria.

Luisa Molina, infatti, giunge a Napoli pochi mesi prima dell’avvento rivoluzionario. Nella città partenopea frequenta il salotto della Pimentel Fonseca. Infervorata dalle idee di Eleonora e dalle letture del “Monitore Napoletano”, Luisa decide di mettere tutto il suo cuore, tutte le sue forze al servizio della rivoluzione, per “far godere a questa classe rispettabile (la plebe) la dolcezza di un Governo libero”.

Da quella splendida donna che è, a Napoli, Luisa fa palpitare molti cuori. Tra i suoi spasimanti, o suoi amanti, c’è il capitano Gerardo Baccher, un incallito monarchico, che ha prestato dei soldi ad Andrea e che è ispiratore di una congiura contro i giacobini.

“Fu una trama turpe perché si trattava di una vera strage di san Bartolomeo. Fu del pari una congiura molto importante, perché sarebbe prova che i giacobini pur avendo nelle mani le armi e il potere, e pur legiferando, ordinando, lavoravano e armeggiavano sul cratere di un vulcano. La congiura consisteva nell’ammazzare tutte quelle famiglie che non avevano con sé un cartellino o un bollettino di riconoscimento come fedeli ai Borbone. Le case dei giacobini erano state segnate tutte con una croce”.

La Sanfelice, tramite il Baccher, apprende per prima la congiura e ne svela il piano ai repubblicani. Il 13 aprile 1799 il  “Monitore Napoletano” scrive: “Una nostra egregia cittadina, Luisa Molina Sanfelice, svelò venerdì sera al Governo, la cospirazione di pochi, non più scellerati che mentecatti”.

Da questo momento diventa Luisa “madre della patria” ed a lei il Direttorio tributa ogni sorta di pubblica riconoscenza. Ma la delazione firma anche la sua condanna a morte.

Quando, infatti, la Repubblica Napoletana chiude la sua storia, Luisa Sanfelice è arrestata ed avviata al carcere. Lungo la strada è ingiuriata dai lazzari e dai soldati. Una popolana insinua che “questa madama porta dipinto in rosso, sul petto, l’albero della libertà. Mettetela nuda e vedrete!”.

La giunta di Stato, col solito Guidobaldi, le muove l’accusa:

-Siete colpevole di aver fatto uccidere gli amici del re, i nostri fratelli Baccher, che preparavano il ritorno di Sua Maestà a Napoli. Il vostro reato è stato quello di aver rivelato la loro eroica e nobile congiura al governo di quella schifezza della cosiddetta Repubblica napoletana..La vostra complice, l’amica Pimentel, ha già pagato con la vita il crimine di lesa maestà. E ora tocca a voi.

Il 13 settembre 1799 è pronunciata la sentenza: Luisa Sanfelice è condannata alla decapitazione. Non si procede subito perché “appena che ieri mattina giunsero i Fratelli ne’rispettivi criminali quelli che furono assegnati per la signora Molines Sanfelice ebbero da essa l’avviso che aveva sospettato d’esser gravida. Sicché da detti Fratelli ne fu data parte al Castellano, ed alla Compagnia, ed essi ne resero consapevole la Suprema Giunta di Stato. Con tutto ciò fu nel giorno assistita da’nostri Fratelli, ugualmente che gli altri sette condannati.

Nella mattina del 30 di detto mese alle ore 11, essendo andati secondo il solito i fratelli destinati al conforto nel castello suddetto, come qui appresso, si ritrovò aver la giunta mandato buon numero di medici primari, chirurgi ed una levatrice, per osservare la signora Molines e consultarono esser gravida di mesi tre in quattro. Sicché fissò per lei l’assistenza e fu tolta dopo qualche tempo dal criminale ove  ritrovavasi”.

Passano alcuni mesi. Luisa per ben due volte pensa di essere stata graziata; poi, il 1° settembre 1880, giunge un dispaccio da Palermo rivolto al capitano generale del Regno di Napoli: ”Eccellentissimo Signore: Avendo rilevato il Re dall’annessa relazione de’Periti Fisici di questa Capitale che la rea di Stato già condannata Luisa Sanfelice non sia affatto gravida, ha ordinato…che abbia corso la giustizia”.

L’ultima notte Luisa la passa nella cella detta del Confortatorio, l’anticamera della morte. L’assiste un sacerdote che verso l’alba porge alla condannata un fagottino:

-Piove sempre, è umido, voi tremate dal freddo, mettete questo scialle sulle spalle.

-Ma ha i colori della bandiera della Repubblica. Chi ve l’ha dato?

-Una donna anziana. Ha detto che avreste capito...Mi ha detto che è solo il pensiero di una donna che la ringrazia per quello ha fatto…Mi ha bisbigliato che è un pensiero per una donna che muore sacrificandosi per tutte noi…Ha aggiunto che siete voi la vera martire, perché avete avanzato sola verso la morte, perché il vostro cuore è puro, e perché volevate solo il bene di Napoli.

-Ah, Napoli! Ma al pari di Napoli, io sono abbattuta, umiliata, messa a morte. Eppure il mio destino, è vero, forse somiglia a quello di molte altre donne. Sono un’eroina per burla, io, o per caso, o per coincidenze eccezionali. Sono la martire involontaria della Rivoluzione napoletana? E però, al tempo stesso, sento che in me vivono tutte le altre. Quelle che non sono state o non saranno celebri, né eccelse oratrici, né scrittrici, né teoriche.Donne e madri di tutti i giorni. Io, come la massa delle altre, non avevo altro da offrire che l’amore, forse anche per Napoli.

Luisa  Sanfelice è affidata al boia l’11 settembre 1800, sotto una pioggia violenta. La folla, questa volta, non applaude all’ennesima vittima del “ripurgo”.

Uomini e donne del popolo, dopo essere stati attori delle violenze antigiacobine ed aver, poi, riconosciuto la crudeltà del re e del cardinale Ruffo, ora implorano la grazia per la sfortunata eroina. E’ inutile. Un momento prima di morire Luisa offre il suo borsello al sacerdote che l’assiste: ”Non ho altro, ma servirà ai vostri poveri”.

Ma Eleonora Pimentel Fonseca e Luisa Molino Sanfelice non sono le uniche donne protagoniste della Rivoluzione napoletana. Molte patriote napoletane hanno dato il proprio contributo per la riuscita della lotta, abbandonando i comodi salotti ed i vestiti delle feste ed andando, quasi sempre incontro alla violenza della plebe ed al patibolo.

“Che dirò del funesto spettacolo della maggior parte delle donne? Senza rispetto per l’età, e per l’abito religioso, le menavano nude per la città, e quindi toglievano ad esse la vita dopo aver loro rapito in pubblico l’onore…Valga per tutte l’esempio della figlia del principe di Santobono Caracciolo. La condussero nuda per le strade di Napoli… poi fu messa sul sagrato della chiesa dello Spirito Santo, spalle al muro contro il portale sacro, e qui, dopo che i cannibali ne ebbero fatto uso e abuso, le fu data finalmente la morte”.

Mariano D’Ayala consegna ai posteri uno splendido ritratto di una donna, che - il 14 giugno 1799- combatte - e muore - davanti agli scavi di Ercolano e alla Reggia di Portici: “al tentennare dei patrioti, una donna dava più animo e impulso; ma in quel mentre una palla indirizzatole da una finestra la buttò in terra morta. Né a dirsi quante crudeltà e quante oscenità si commiseroinchiodandosi il cadavere e tutta denudandola”.

Un ricordo, poi, va certamente per la “madre della Repubblica”, così com’è battezzata da Eleonora Pimentel Fonseca, Giulia Carafa duchessa di Cassano e per sua sorella la duchessa Maria Antonia di Popoli, istintivamente contro i Borbone,

“La città era in lutto; né cibo né denaro e senza aiuto perfino i feriti. Ma due donne, già duchesse di Cassano e di Popoli, e allora con il titolo più bello di Madri della Patria, andarono di casa in casa raccogliendo vesti, cibo, denari, per i soldati e per i poveri che negli ospedali languivano. Poté l’opera e l’esempio”.

Un pensiero particolare per Teresina Ricciardi, di anni 14, di S.Maria Capua Vetere, la più giovane vittima della Reazione; colpevole di essere imparentata con una famiglia giacobina e con Eugenia Ricciardi, che aveva donato le sue terre all’Ospedale degli Incurabili, per permettere che i poveri potessero essere curati. Ma non vanno dimenticate la popolana Vittoria Pellegrini, che guida, a Cortale, il Te Deum di ringraziamento per la repubblica; Laurente Porta, oratrice che infiamma gli animi rivoluzionari  o Cristina Clarizia (che aveva tentato di liberari i giacobini chiusi nelle carceri di Castelnuovo), altrettanto celebre oratrice, e sua sorella Carmela.

E nemmeno la baronessa Ricciulli, la duchessa Fusco, la principessa di Belmonte, Eleonora Capana e Carolina Filangieri, la vedova di Gaetano; o Luigia Minot, nota come Madama Gasses, che gestiva la locanda dei giacobini a Monteoliveto, o Ermenelgilda Gabellane Bozzaotre o Vincenza Petrucci.

Insieme a tutte le donne senza nome, che, in nome della libertà, sono state umiliate, sono morte suicide, sono state esiliate, sono state incarcerate o che, in silenzio e di nascosto, hanno dato il loro contributo stando vicine agli uomini che combattevano. Insieme anche a tutte le altre donne che, per passione, ignoranza o condizionamenti vari, di volta in volta, hanno difeso la famiglia Borbone contro i Francesi, hanno inneggiato alle truppe di Championnet, hanno infoltito le bande del cardinale Ruffo, hanno mangiato la carne e il fegato dei giacobini e, poi, hanno chiesto la grazia per la Sanfelice!

 

 

 

 



 

 

[1] Giornale giacobino pubblicato, a cura della Pimentel Fonseca, a Napoli nel 1799. ”Questo foglio renderà conto di tutte le operazioni di governo. Si pubblicherà ogni volta che partirà il corriere affinché non soffra un ritardo inutile per tutte le comuni della Repubblica .Le associazioni si ricevono nella stamperia del cittadino Gennaro Giaccio sita alle fosse del grano; il prezzo è di carlini sei per ogni tre mesi da pagarsi al detto cittadino, il quale ne sarà responsabile verso gli associati, e ne terrà registro. Il primo foglio si pubblicherà sabato a mezzo giorno 14 Piovoso anno 7 (2 febbraio 1799). [in il Monitore Napoletano ,a cura di Mario Battaglini, Guida, Napoli, 1974).

[2] Lazzaro Spallanzani, naturalista, nato a Scandiano (RE) nel 1729 e morto a Pavia nel 1799. E’ una delle figure fondamentali nella storia della biologia.

[3] Alberto Fortis, naturalista, nato a Padova nel 1741 e morto a bologna nel 1803.

[4] Giambattista Vico, filosofo, storico e giurista, nato a Napoli nel 1668 ed ivi morto nel 1744.

[5] Marie-Jeanne Philipon Roland, nata a Parigi nel 1754 ed ivi morta nel 1793. Donna di grande cultura, è animatrice del gruppo girondino. E’ghigliottinata l’8 novembre 1793 esclamando la famosa frase: ”Libertà, quanti crimini si commettono in tuo nome!”.

[6] Il nome del boia è (sorte beffarda!) Tommaso Paradiso.

 

 

 

 

Napoli 1799. Cap. I - Il vento rivoluzionario (1)

Napoli 1799. Cap. I - Il vento rivoluzionario (2)

Napoli 1799. Cap. II - Come si vive a Napoli nel XVIII secolo

Napoli 1799. Cap. III - Il re Ferdinando IV di Borbone (1)

Napoli 1799. Cap. III - Il re Ferdinando IV di Borbone (2)

Napoli 1799. Cap. III - Il re Ferdinando IV di Borbone (3)

Napoli 1799. Cap. IV - La regina Maria Carolina d’Austria (1)

Napoli 1799. Cap. IV - La regina Maria Carolina d’Austria (2)

Napoli 1799. Cap. V - Il governo di Napoli dopo la fuga del re

Napoli 1799. Cap. VI - L’entrata dei francesi a Napoli (1)

Napoli 1799. Cap. VI - L’entrata dei francesi a Napoli (2)

Napoli 1799. Cap. VII - Il Generale Championnet

Napoli 1799. Cap. VIII - La Repubblica Napoletana (1)

Napoli 1799. Cap. VIII - La Repubblica Napoletana (2)

Napoli 1799. Cap. IX - L’albero della Liberta’ (1)

Napoli 1799. Cap. IX - L’albero della Liberta’ (2)

Napoli 1799. Cap. X - Chiesa, santi e miracoli. E sullo sfondo il Vesuvio

Napoli 1799. Cap. XI - Anche il vesuvio s’e’ fatto giacobino

Napoli 1799. Cap. XII - I lazzari

Napoli 1799. Cap. XIII - Briganti e leggende

Napoli 1799. Cap. XIV – Il cardinale Ruffo e l’esercito sanfedista

Napoli 1799. Cap. XV – La marcia sanfedista

Napoli 1799. Cap. XVI - Atrocita’ dell’esercito controrivoluzionario

Napoli 1799. Cap. XVII - Gennaro Rivelli

Napoli 1799. Cap. XVIII - Caduta della Repubblica Napoletana

 

 

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