Napoli 1799. Cap. XIII - Briganti e leggende

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Creato Mercoledì, 25 Novembre 2015 17:52
Ultima modifica il Mercoledì, 25 Novembre 2015 18:16
Pubblicato Mercoledì, 25 Novembre 2015 17:52
Scritto da Ciro Raia
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Le bande sanfediste sono infoltite da molti briganti entrati, poi, nelle leggende popolari, per i loro crimini e la loro efferatezza. I fuorilegge più noti, molti dei quali sono anche ricompensati da re Ferdinando alla caduta della repubblica napoletana, rispondono al nome di Fra’Diavolo, Gaetano Mammone, Pronio, Rivelli, Sciarpa, De Cesari e Sciabolone.

Di quest’ultimo si racconta, per esempio, che presso Antrodoto abbia attirato in un’imboscata l’esercito francese ed abbia ucciso circa duemila soldati, riuscendo, quasi da solo, a scacciare gli occupanti stranieri dall’Aquila e ad infliggere la più cocente umiliazione alle armi d’oltralpe. Tanto che la tradizione popolare subito ricorda l’accaduto con la composizione:  

 

Quanno fu alla Colonnella, li pigliò la tremarella.

Quanno fu a Roccu’ e Corno, circonnato ‘ntorno ‘ntorno.

Quanno furono alli Grotti, gli avean fatti quasi totti.

Quanno furon a ‘Ntrodoco,ogni monte facea foco.

Quanno furon a lu Borghitto, li buttean ne l’olio fritto…

 

Di Gerardo Curcio, un salernitano conosciuto col nome di Sciarpa, si racconta che si sia messo alla testa dei sanfedisti  ed abbia abbattuto tutti gli alberi della libertà incontrati lungo il percorso ed abbia saccheggiato tutte le case dei nobili. Di questo comportamento ne tengono conto i Borbone, che nel 1880, lo nominano tenente colonnello, ponendolo a capo di una compagnia formata da molti banditi.  

Tra Capua e Terracina agisce, invece, la banda di Gaetano Mammone di Sora, un mugnaio dal fisico massiccio e dall’aspetto truculento.

Mammone capeggia la rivolta antirepubblicana di Sora e, da solo, uccide trecentocinquanta persone.

Di lui si racconta che è aduso bere sangue umano e che sulla sua tavola ci sia una testa mozza, contornata da ravanelli e prezzemolo.

Mammone si fregia dell’amicizia personale di Ferdinando IV, che, in una lettera,  lo definisce: ”Mio generale mio amico”. Il mugnaio di Sora, dopo le giornate di sangue del 1799, è accusato da un altro brigante, di aver congiurato contro il suo re ed è, per questo, arrestato e rinchiuso in un carcere di Ischia. Riesce a scappare; ripreso, è rinchiuso nel carcere della Vicaria, dove si lascia morire di inedia.

Altro famoso brigante è l’abruzzese Giuseppe Pronio, un criminale di Introdacqua (paesino dell’aquilano), che nei giorni dell’anarchia scappa dal carcere nel quale è rinchiuso e, mettendosi alla testa di altri galeotti,combatte contrro i Francesi. Ferdinando IV, il 2 giugno 1799, lo nomina generale e comandante degli Abruzzi. Muore col grado di colonnello dell’esercito borbonico.

Ma il nome più celebre  è sicuramente quello di Fra’Diavolo, al secolo Michele Pezza di Itri.

Michele, giovane dal fisico mingherlino ma dal coltello facile, deve il suo soprannome al voto fatto dalla madre, che da piccolo, e per molti anni, lo veste con un saio francescano. Quando risponde all’appello del cardinale Ruffo, a 25 anni, ha già una taglia sulla testa. Il capo dei sanfedisti gli assegna il territorio tra Cassino, Caserta e Capua.

Si racconta che in pochi giorni riesce a mettere insieme una banda di oltre duemila accoliti. Le sue veloci azioni da guerrigliero procurano non pochi danni alla ritirata  francese.Si racconta anche che il territorio occupato dalla sua banda, sulle carte geografiche, è segnato da un cerchio rosso; giusto per segnalarne la pericolosità!

Anche per Michele Pezza si sbizzarrisce la tradizione popolare che compone:

 

Fra’Diavolo è arrivato

Ha portato i cannuncini

P’ammazzà li giacobbini.

Ferdinando è il nostro Re!

Fra’Diavolo da solo

Ha vinto li Franzesi,

gli abbasta pochi mesi

pe fa’ turnà lu Re!

 

Dopo la caduta della repubblica napoletana Fra’Diavolo diventa colonnello del re ed il suo esercito veste con giubbe di fustagno color tabacco, camiciotti di rigatino blu, coccarde bianche sui capelli a cono, cioce ai piedi. Michele Pezza muore qualche anno dopo, nel 1806, sempre al servizio del re Borbone.

 

 

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