Napoli 1799. Cap. VIII - La Repubblica Napoletana (2)

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Creato Giovedì, 05 Novembre 2015 18:26
Ultima modifica il Venerdì, 06 Novembre 2015 21:28
Pubblicato Giovedì, 05 Novembre 2015 18:26
Scritto da Ciro Raia
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Il Governo provvisorio racchiude in sé il potere esecutivo e quello legislativo. E’diviso in sei comitati [1], ognuno dei quali prepara progetti di legge, che sono prima sottoposti all’approvazione di tutta l’assemblea e poi alla ratifica dello Championnet. Sono istituiti anche quatto ministeri [2], i cui compiti e rapporti col governo provvisorio non sono ben chiari.

I primi decreti della repubblica napoletana dividono, per meglio attuare il controllo sul piano fiscale e su quello dell’ordine pubblico, lo Stato in dipartimenti e contorni. Una legge scioglie i fedecommessi [3]. Si dichiarano aboliti i diritti della primogenitura, la feudalità e le giurisdizioni baronali. Sono rimesse le decime e messi in congedo gli armigeri dei Signori.

Si aboliscono, quindi, le pensioni per i servizi resi al re più che alla patria. Si abolisce la gabella sul pesce, sul grano e sul testatico. “I lazzaroni fraternizzano di buona fede col Governo, e, poiché questo ha abolito la gabella delle farine, amano il sistema repubblicano; ed una deputazione di 12 capi lazzari andiedero a ringraziarne il Governo, che li accolse amorevolmente”. I 35 milioni trafugati dai Borbone sono considerati debito pubblico.

Sul piano del funzionamento delle amministrazioni locali, il Governo provvisorio invita tutti i repubblicani ad organizzare delle municipalità composte da un presidente, un segretario e sette o quindici membri, a seconda che il comune sia al di sotto o al di sopra dei diecimila abitanti. In chiave di amministrazioni locali, poi, il Governo provvisorio invita le municipalità a nominare il giudice di pace ed a  organizzare la “guardia nazionale” contro il pericolo di intrighi da parte dei “fautori della tirannia”.

Per evitare vuoti di potere, infine, è consentito che tuti i funzionari pubblici possano restare al loro posto, a patto che si dichiarino “lealmente ed apertamente per la rivoluzione”.

Tutti gli sforzi del governo provvisorio non decretano, però, il pieno successo del nascente stato repubblicano.

Championnet, per ordine del Direttorio, impone una taglia di guerra di due milioni e mezzo di ducati su Napoli, ed oltre quindici milioni di ducati sulla provincia. Per la verità non c’è stata mai molta simpatia tra il governo francese e Napoli, un’ostilità che nasce dalla volontà francese di ostacolare qualunque tentativo italiano che possa portare all’unificazione della penisola. Un’ostilità che si traduce  nel rifiuto da parte del Direttorio di ricevere, il 23 marzo, la deputazione napoletana [4], che si è recata a Parigi per richiedere”con un atto solenne” il riconoscimento dell’indipendenza della Repubblica.

Qualcosa comincia a non girare per il verso giusto, provocando grande confusione. I baroni guardano di nuovo al re con simpatia: l’abolizione della feudalità non è affatto gradita. Gli armigeri, fino a poco tempo prima stipendiati,ritrovatisi senza soldi, per fame si danno al brigantaggio o affollano le bande del cardinale Ruffo. La popolazione, ben istigata da preti e monaci, non tarda a passare contro la repubblica appena nata. Ed anche gli intellettuali giacobini, che tanto hanno lottato per l’affermazione dell’idea repubblicana, sentono che qualcosa sta cambiando.

Quando,infatti,si decide di inviare una delegazione a Championnet per trattare la taglia di guerra,il delegato Gabriele Manthonè non esita a dirgli: “Tu cittadino generale hai presto scordato che non siamo tu vincitore noi vinti, che qui sei venuto non per battaglie e vittorie, ma per gli aiuti nostri e per accordi; che noi ti demmo i castelli; che noi tradimmo per santo amore di libertà i propri concittadini, i tuoi nemici; che i tuoi deboli battaglioni non bastavano a debellare quest’immensa città; né basterebbero a mantenerla se noi ci staccassimo dalle tue parti. Esci per farne prova, dalle mura, e ritorna se puoi: quando sarai tornato imporrai debitamente taglia di guerra e ti si addiranno sul labbro il comando di conquistatore e l’empio motto, poiché ti piace, di Brenno”.

In pochissimi giorni lo scenario è mutato. I patrioti sono molto delusi dall’atteggiamento dei Francesi; i lazzari, al contrario, sono continuamente allettati dai modi gentili e dalle elargizioni in denaro del generale Championnet. Il popolo, da parte sua, patisce la fame. C’è penuria di viveri; il raccolto dell’anno precedente è stato scarso e la guerra  ha richiesto un gran consumo di grano.

La Sicilia, per ordine del re Ferdinando IV, non manda grano a Napoli; qualche nave che parte col prezioso carico dalla Puglia è depredata dalla flotta anglo-sicula.Cresce il prezzo del pane, insieme all’aumento della disoccupazione e della miseria più nera!

La fine della repubblica napoletana sembra ormai segnata.

“La nostra rivoluzione, essendo passiva, l’unico mezzo di condurla a buon fine era quello di guadagnare l’opinione del popolo. Ma le vedute dei patrioti e quelle del popolo non erano le stesse: essi avevano diverse idee, diversi costumi, e finanche due lingue diverse.Quella stessa ammirazione per gli stranieri, che avea ritardata la nostra coltura ne’tempi del re, quell’istessa formò nel principio della nostra repubblica il più grande ostacolo allo stabilimento della libertà. La nazione napolitana si potea considerare come divisa in due popoli diversi per due secoli di tempo e per due gradi di clima. Siccome la parte colta si era formata sopra modelli stranieri, così la sua coltura era diversa da quella di cui abbisognava la nazione intera e che potea sperarsi solamente dallo sviluppo delle nostre facoltà. Alcuni erano divenuti francesi, altri Inglesi, e coloro che erano rimasti Napolitani e che componevano il massimo numero, erano ancora incolti. Così la coltura di pochi non avea giovato alla nazione intera, e questa, a vicenda, quasi disprezzava una coltura che non intendeva”.

Ma il giudizio del Cuoco si allontana dalla realtà storica. La rivoluzione del 1799 non ha l’etichetta dell’importazione. Essa nasce, sì, con l’appoggio francese, ma per precisa volontà dei giacobini napoletani, già distintisi nelle battaglie combattute nella legione cisalpina e nella legione romana. Non a caso, infatti, lo stesso governo francese, affidato ai cinque membri del Direttorio, è ostile alla nascita di qualsiasi repubblica in Italia,perché in contrasto con i dettati di pace sottoscritti con l’Austria nel 1797.

E perché in contrasto anche con una linea politica che non accetta l’idea che le rivoluzioni possano continuare altrove, specie se fomentate da “terroristi”, proprio mentre nella madre patria sembra conclusa la fase cruenta.

La Repubblica Napoletana nasce,quindi,grazie alle armi del suo popolo, alle nobili idee dei suoi pensatori, al sangue versato dai suoi cittadini. E questo Championnet ben lo sa,tanto che agli inizi del 1799, assicura il suo intervento a condizione che già sia organizzata la repubblica.

E nel 1799, per la prima volta, il popolo napoletano non combatte contro o favore di una potenza straniera, ma – pur nella confusione dei ruoli - sostiene una precisa linea politica.Una linea politica che mira all’abbattimento di un sistema monarchico e clericale  o al suo mantenimento!

 
 


 

[1] I sei comitati sono: comitato centrale esecutivo, comitato di legislazione, di polizia generale, militare, di finanze, di amministrazione interna.

[2] Si tratta dei ministeri della guerra, delle finanze, dell’interno, della giustizia e polizia; sono afidati rispettivamente ai francesi Arcambal e Bassal, a Francesco Conforti e ad Emanuele Mastelloni.

[3] Disposizione testamentaria per la quale chi è istituito erede ha l’obbligo di conservare l’eredità e di trasmetterla, in tutto o in parte, ad altra persona.

[4] La delegazione è composta da Girolamo Pignatelli Principe di Moliterno, da Marcantonio Doria Principe di Angri, dal letterato Leonardo Panzini e da Francescantonio Ciaia (fratello di Ignazio).

 

 

 

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