Napoli 1799. Cap. VI - L’entrata dei francesi a Napoli (1)

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Alla fine dell’anno 1798, il generale Championnet, dopo aver messo ordine nella Repubblica Romana, delibera di muovere le truppe alla volta del Regno di Napoli. Subito, circa venticinquemila soldati, attraverso l’Abruzzo e la fortezza del Liri, danno, dunque, inizio all’impresa.

Le prime città a cadere nelle mani francesi sono Pescara e Civitella del Tronto, che si arrendono senza opporre alcuna resistenza agli uomini del generale Duhesme. Il generale Rey con i suoi uomini, intanto, sul fronte del Liri, conquista facilmente la città di Gaeta.

L’offensiva borbonica, assente il re fellone scappato nelle sicure stanze reali, si sviluppa attraverso il senso d'indipendenza di ogni individuo e l’attaccamento ai valori monarchici delle popolazioni meridionali. Bande di cittadini – spesso aizzati da monaci e preti - insieme a volontari raccolti man mano e nelle strade e frange in fuga dell’esercito borbonico combattono una guerriglia quotidiana contro l’avanzamento delle insegne francesi. E, pur nella loro disorganizzazione militare, i difensori della monarchia di Ferdinando IV riescono a strappare all’esercito francese Teramo ed il ponte sul fiume Tronto.

In Terra di Lavoro, invece,”torme volontarie adunate a Sessa, correndo il Garigliano, bruciato il ponte di legno, si impadronirono di quasi tutte le artiglierie di riserva dell’esercito francese,poste a parco su la sponda; e poi, trasportando il facile, distruggendo il resto, uccidendo le guardie, desertavano quel paese… E poiché lo stupore de’presenti diviene incredulità negli avvenire quando ignorino le cagioni de’mirabili avvenimenti, egli è debito della storia investigare come i Napoletani, poco innanzi codardi e fuggitivi, ricomparissero negli stessi campi, contro lo stesso nemico, valorosi ed arditi”.

L’accesso  a Napoli si gioca ora sul tentativo di conquista, da parte dei Francesi, della città di Capua. Sulla sponda sinistra del fiume Volturno, infatti, proprio sotto i bastioni dell’antica città romana, si accampano gli eserciti napoletani; postazioni di artiglieria vanno a difendere anche i passi di Cancello e Castelvolturno. A Caiazzo, invece, si accampa la cavalleria borbonica comandata da Girolamo Pignatelli, principe di Moliterno, e da Lucio Caracciolo, duca di Roccaromana. Altre schiere, inoltre, si pongono a difesa della reggia di Caserta.

Sul fronte opposto le divisioni della Repubblica francese attendono le decisioni di Championnet, frattanto accampato a Venafro. E la decisione è una: combattere!

Lo scontro tra i due eserciti avviene proprio sotto le mura di Capua. Inizialmente i Francesi sono respinti per due volte, registrano gravi perdite in uomini, armi e vettovaglie. Ma nel campo borbonico avviene qualcosa che ne determina la sconfitta.

Tra i soldati napoletani, infatti, comincia a serpeggiare la convinzione che l’accanita difesa della monarchia è un bisogno solo del popolo, visto che i sovrani  e la corte stanno per lasciare Napoli e ritirarsi in Sicilia. E così la decisione assunta dalla corona contribuisce a stravolgere la situazione e ad alterare le motivazioni che ciascuno ha addotto nel prendere le armi. La plebe, quindi, sentendosi tradita dal re, rivolge accuse di slealtà e di giacobinismo nei confronti  dei nobili e dei borghesi.

Questi ultimi, poi, abbandonati dal re e schiacciati dal sospetto serpeggiante tra la plebe, decidono di cospirare davvero e di aprire trattative con Championnet, al fine di facilitare l’ingresso dei Francesi nella città di Napoli.

Questa confusa situazione non fa che accrescere le certezze di Ferdinando IV, che vede nella fuga in Sicilia l’unica strada percorribile per mettere in salvo se stesso,la sua famiglia e la sua corte.

Solo un miracolo, a questo punto,potrebbe salvare Napoli. Ma il miracolo non avviene e le strade della capitale del regno diventano un ribollente e confuso campo di battaglia.

In città, intanto, è successo che, dopo la fuga della famiglia reale, i lazzari abbiano disarmato la guardia urbana e si siano impadroniti del presidio. Poi è accaduto che le truppe del generale Naselli – ricche di circa seimila soldati e accampate inoperose a Livorno, in attesa che che il generale Mack desse istruzioni per assalire i Francesi - abbiano aggredito e razziato le navi inglesi che erano state utilizzate per raggiungere Napoli.

Quindi, è accaduto che i giacobini, approfittando dell’anarchia esistente, con l’aiuto dei lazzari, abbiano assaltato le prigioni e tirato fuori i reclusi, tra i quali ci sono – sì - patrioti, vittime della tirannia monarchica, ma anche oltre seimila delinquenti comuni, che immediatamente invadono minacciosi le strade e si rendono protagonisti di crimini e razzie. Infine è successo che anche i galeotti, aiutati dagli agenti segreti di Maria Carolina, abbiano tagliato le catene e si siano armati.

Fra tanti avvenimenti concomitanti, allora, il principe di Piedimonte,in rappresentanza dei magistrati del municipio, si rivolge al vicario del re:  “La città vi dice per nostro mezzo, rinunziare ai poteri del vicariato, cederli ai magistrati del popolo, rendere il denaro dello Stato che è presso di voi, prescrivere, per editto, obbedienza piena e sola alla città”.

Pignatelli si riserva un po’ di tempo per prendere una decisione. Poi, come il re che rappresenta, decide di scappare in Sicilia, non preoccupandosi di abbandonare Napoli ed il suo popolo in preda all’anarchia, minacciati da un esercito straniero, divorati da una guerra intestina.

A questo punto una plebe, forte di oltre quarantamila unità, ha il controllo della città. Non esistono leggi, non esistono freni. Il delirio dell’invincibilità e dell’onnipotenza si impossessa di un intero popolo!

I lazzari eleggono, quindi, la fortezza di sant’Elmo quale quartier generale. Il castello è presidiato  da un centinaio di agguerritissimi “soldati”, comandati da Luigi Brandi, che controllano le mosse di Niccolò Caracciolo, comandante della fortezza, fratello del duca di Roccaromana ed intimamente  di simpatie repubblicane.

Intanto i colonnelli Moliterno e Roccaromana assumono il comando dell’esercito e cercano di calmare il furore della massa. Il generale Mack, invece, deriso ed umiliato anche dai suoi soldati, non trova di meglio che chiedere – ed ottenere - asilo nel campo francese.

Mentre i nuovi vertici militari riescono a placare l’indignazione dei lazzari e della plebe, il senato municipale decide di inviare al generale Championnet degli ambasciatori col compito di trattare una  “pace gloriosa e giovevole per la Francia ma non misera ed abietta per il popolo napoletano”.

La delegazione napoletana è guidata dal Moliterno, che per tutti prende la parola:  “Generale, dopo la fuga del re e del suo vicario, il reggimento del regno è nelle mani del senato della città; cosicchè trattando a suo nome, faremo atto legittimo e durevole; questo (diede un foglio) racchiude i poteri dei presenti legati. Voi generale, che debellando numeroso esercito, veniste vincitore da’campi di Fermo a queste rive de’Lagni, crederete breve lo spazio, dieci miglia, quello che vi separa dalla città; ma lo direte lunghissimo e forse interminabile, se penserete che vi stanno intorno popoli armati  e feroci, che sessantamila cittadini con armi, castelli e navi, animati di zelo di religione e da passione di indipendenza difendono città sollevata di cinquecentomila abitatori; che le genti delle provincie sono contro di voi in maggior numero e moto; che quando il vincere fosse possibile sarebbe impossibile il mantenere; che dunque ogni cosa vi consiglia pace con noi. Noi vi offriamo il danaro pattuito nell’armistizio e quanto altro (purché moderata la richiesta) dimanderete; e poi vittovaglie, carri, cavalli, tutti i mezzi necessari al ritorno, e strade sgombere di nemici. Aveste nella guerra battaglie avventurose, armi, bandiere, prigioni; espugnaste, se non con l’armi col grido, quattro fortezze: ora vi offriamo danaro e pace da vincitore.Voi dunque fornirete tutte le parti della gloria e della fortuna. Pensate generale che siamo assai ed anche troppi per il vostro esercito; e che se voi per pace concessa vorrete non entrare in città,il mondo vi dirà magnanimo; se per popolana resistenza non entrerete, vi terrà inglorioso”.

Il generale Championnet risentito risponde:  “Voi parlate all’esercito francese, come vincitore parlerebbe ai vinti. La tregua è rotta perché voi mancaste ai patti. Noi dimani procederemo contro la città”.

La risposta del generale francese non è gradita alla plebe. Questa pericolosa massa, ancora una volta aizzata da religiosi che, artatamente vanno predicando il pensiero di Maria Carolina “Solamente il popolo esser fedele, tutt’i gentiluomini del regno giacobini”, disconosce immediatamente l’autorità del Moliterno e del Roccaromana, invade le strade e le piazze della città con sanguinose azioni, si affida alla guida, nominandoli generali del popolo, di Michele Marino detto ‘o Pazzo (“prorio perché aveva l’abitudine di parlare da solo gesticolando”), di Giuseppe Paggio, mercante di farina, e  di Antonio Avella detto Pagliuchella (per l’abitudine della gente del popolo di dare un soprannome ispirato al fisico o al carattere”), tre fra i lazzari più fieri e sdegnati di tutta la schiera. Lunga è la scia di sangue,di eccidi e di morte. I lazzari inferociti corrono da una parte all’altra della città, si mischiano al popolo che teme l’imminente attacco francese, si pongono alla caccia dei giacobini, si fidano di delatori e di uomini di chiesa che invitano il popolo alla rivolta.” “Se stato vi fosse un mezzo d’intendersi tra di loro i patrioti coi lazzaroni, che in buon senso combattevano per la stessa cosa, cioè per l’indipendenza (e ciò è chiaro e lo prova il fatto istesso, dappoiché, in tutto il tempo della feroce anarchia, i lazzaroni neppure una volta profferirono il nome del re, il quale era generalmente abborrito ed esecrato, ma gridarono soltanto Viva san Gennaro,Viva Napoli, che nel loro linguaggio vale l’istesso che dire Viva la Libertà,Viva l’Indipendenza); in tal caso, ambo i partiti sarebbero concorsi all’innalzamento dell’augusto edificio della libertà, incontro al quale sarebbonsi armati indarno i tiranni dell’Europa per abbatterlo”.

 

 

 

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