Come l' “eroe” Giuseppe Villella tornò ad essere un ladruncolo di caciotte

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Cranio di G. Villella al museo Lombroso di TorinoLa manomissione storiografica può trovare fortuna e sedimentazione solo e soltanto in mancanza del contributo documentale; al contario, la sua esperienza sarà di breve durata e imposta, essenzialmente, da fasi congiunturali favorevoli ma transitorie.

Questo perché la storiografia si pone quale scienza (pur “leggera”), e non come disciplina umanistica “pura”, espellendo, quindi, la componente non deduttiva dal suo sistema normativo e dal suo “modus operandi”.

Il disinnesco della mitologia che voleva il piccolo criminale calabrese Giuseppe Villella eroe legittimista antisabaudo, ne è la prova; osannato come partigiano nella lotta all'”invasione” piemontese, prima arrestato e poi, una volta deceduto, sottratto alla degna sepoltura per fungere da cavia agli esperimenti del “razzista” e dell' “antimeridionale” Cesare Lombroso (in realtà, l'Antropologia Criminale lombrosiana trovava pieno accoglimento nel contesto scientifico poligenista dell'epoca e Lombroso collocò i meridionali nelle postazioni più elevate della sua piramide genetica), un'attenta ricognizione archivistica lo ha invece riconsegnato alla sua dimensione umana e storica, squarciando il Velo di Maya intrecciato di retorica che ne occultava i contorni autentici e reali.

Ecco cosa riportano su di lui i faldoni conservati nell'archivio di Lamezia Terme: “Antonio Bevilacqua di Motta Santa Lucia avendo sofferto un furto la notte del sette ottobre 1843 di vari oggetti, il cui valore non sorpassava i ducati cento, fè cadere i suoi sospetti contro l'accusato Giuseppe Villella.

Fu invero la dichiarazione di un certo Felice Notarianni che sapeva essere stato egli invitato a quel furto dal Vilella, in pubblica discussione ritrattò egli la testimonianza. Fu anche Giuseppe Vilella accusato di furto a danno di Nicola Gigliotti di Motta Santa Lucia avvenuto la notte del 29 luglio 1843 in contrada Tomasello.

E le prove nettamente compilate chiarirono che Giuseppe Villella unito a Carmine Ajello che era armato di fucile, e giberna, si recarono in detta notte alla casa del Gigliotti e minacciati i mandriani si presero cinque ricotte, una forma di cacio, due pani e nell'ovile gli tolsero due capretti di quali ne scorticarono uno e ne avvolsero la carne in un fazzoletto che anche avevano rubato. Tutti gli oggetti non superavano i trenta carlini.

Il Gigliotti e il mandriano Roberto presero a seguire le orme loro e presero diversa direzione.

Il Roberto giunto in Motta Santa Lucia alla casa del Vilella che già rientrava il vide col fazzoletto in mano ove aveva la carne del capretto e il Vilella accortosi di lui si dava alla fuga. Nel seco costituito l'accusato Vilella si dive innocente di ambedue i reati del quale è stato accusato”.

Non l'eroe dipinto dalla pubblicistica agiografica filoborbonica, quindi, ma un ladruncolo di ricotte, di cacio e di fazzoletti, condannato e mandato in carcere per la prima volta dai giudici del Regno delle Due Sicilie, e non da quelli di Vittorio Emanuele II.

Un pover'uomo ben lontano dall'immagine che il registro comunicativo di un certo revanscismo meridionalista ci ha recapitato, ma il cui ridimensionamento è stato possibile e realizzabile, appunto, solo in virtù della testimonianza documentale, principio e snodo dell'analisi storica su base razionale.

 

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