Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Napoli 1799. Cap. II - Come si vive a Napoli nel XVIII secolo

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Alla vigilia della rivoluzione, nel 1798, la città di Napoli (compresi gli immediati dintorni) conta circa 550.000 abitanti; dal 1766 al 1797, infatti, secondo i dati degli stati d’anime delle parrocchie, la popolazione napoletana è aumentata di circa 101.000 unità, passando dalle 337.095 unità del 1760 alle oltre 438.269 unità del 1796.

Moltissime sono le famiglie indigenti, contrapposte al lusso e all’sostentazione dei privilegi di quelle nobili e alla bella vita del clero, che si avvale dei proventi accumulati con i testamenti delle anime e con quelli derivanti dall’amministrazione delle cappelle, degli ospizi o delle congregazioni e dalla gestione degli istituti ecclesiastici. In tutto il Regno di Napoli, nella seconda metà del 1700, si contano oltre 100.000 religiosi, con una proporzione di uno ogni 48 abitanti! Questa evidente asimmetria tra i ceti determina un fitto intreccio di abitudini clientelari e servili a tutto vantaggio dei nobili e del clero, causando nel popolo una vocazione all’assistenzialismo e una accettazione della precaria esistenza di vita, addebitata alla mala sorte e, quasi mai, sfiorata dal desiderio e dalla sfida di un possibile riscatto.

L’aumento della popolazione comporta una richiesta di abitazioni e, quindi, una valorizzazione della proprietà privata. Il costo delle abitazioni sudicie, piccole, esposte al continuo pericolo di crolli ed epidemie, lievita in continuazione.

Il fitto di una camera e cucina in vico Tofa –l’attuale via Roma- passa dai 12 ducati annui del 1732 ai 15 ducati del 1749 e ai 20 di fine secolo. In via San Sebastiano, nel cuore di Napoli, un’abitazione richiede un fitto di 33 ducati nel 1749 e di 38 ducati nel 1798; nella stessa strada una bottega è fittata per 10 ducati nel 1701 e per 17 ducati nel 1792.

L’aspetto più grave, derivante dall’aumento demografico e dalla conseguente richiesta di abitazioni, è che, oltre a veri tuguri oscuri e maleodoranti, si fittano posti letto. Nel 1783 i cittadini più poveri alloggiano “in alcune grotte, stalle, abitazioni dirute o altro poco da queste dissimili, che si tengono espressamente da taluni che dal sol capitale di una lucerna, e poca paglia, danno loro ricovero col pagamento di un grano, o poco più, in ogni notte e ivi si vedono gittati come immondi animali e mescolati senza distinzione di età, né di sesso”.

Anche i guadagni sono sintomatici del divario esistente tra le classi sociali. Un servo del monastero di Sant’Andrea delle Dame riceve come compenso annuo, nel XVIII secolo, 24 ducati, 12 in salario e 12 in vitto. Nel 1743 i frati del convento di San Domenico Maggiore corrispondono al loro giardiniere 2 carlini al giorno più il vitto; gli stessi frati corrispondono al portiere la somma mensile di 20 carlini, cifra rimasta invariata fino agli inizi del 1800.

Uno zappatore dello stesso convento, fino al 1789, guadagna 20 grani al giorno; uno spaccatore di legna ne guadagna, invece, 25,30 nel 1741 e 60 nel 1798. Un tessitore di lenzuola percepisce 10 grani al giorno: per la sola lavatura si percepiscono, invece,  3 grani.

Al contrario, le magistrature più importanti dello Stato percepiscono 1.000 ducati annui; 400 i semplici giudici e gli avvocati fiscali e dei poveri, mentre sono remunerati con 240 ducati annui le funzioni di segretario e con 120 quelle di scrivano.

Il medico del convento di San Domenico Maggiore, solo per questa prestazione professionale, è ricompensato con 20 ducati annui. 

Il profitto in ducati annui ammonta, invece, a migliaia per i nobili, che possono avvalersi delle rendite terriere, dei proventi di fitti di abitazioni, di masserie e lasciti familiari. Francesco Caracciolo, per esempio, possiede un appartamento a Santa Lucia, con arredo ed oggetti d’oro di grande valore.  Possiede, ancora, 3 appartamenti a Mergellina, un casino a Torre del Greco, un palazzo a Sala, 3 masserie con una rendita annua di 472 ducati, altre piccole entrate e 20.000 ducati annui provenienti dai guadagni di 2 bastimenti mercantili!

 Il ducato d’oro è la moneta di base circolante nel Regno di Napoli. 1 ducato corrisponde a 10 carlini;1carlino è uguale a 10 grani. Il grano si può dividere in 2 tornesi ed ogni tornese in 6 cavalli.

 Le unità di misura (per solidi) del Regno di Napoli sono il cantaro o cantajo, corrispondente a Kg. 89,099 e divisibile in 100 rotoli (Kg.0,89).

 L’olio si misura a salme.1 salma si divide in 16 staia; ogni staio corrisponde a Kg.9,383.

 Il vino si misura, invece, a botti. Ogni botte è divisibile in 12 barili; il barile corrisponde a 45,66 litri. Il tomolo è l’unità di misura del grano; ogni tomolo è composto di 2 mezzette, corrispondenti a 4 quarti, a loro volta, corrispondenti a 24 misure. Il multiplo del tomolo è il carro. Ogni carro è uguale a 36 tomoli.

1 tomolo di grano costa      grani 116  nel 1745

                                                   “     286  nel  1764

                                                   “     405  nel 1802

1 tomolo di fagioli  costa     grani 115-145  nel 1734-1775

                                                     “     170-320  nel 1792-1806

L’olio crudo varia da 101 grani  a 170 grani a salma fino al 1776, mentre l’olio da cucina oscilla da 95 a 155 grani a salma.

I legumi e le carni sono in continuo aumento.

 

Nel periodo repubblicano, con precisione dal 13 al 23 marzo 1799, sono coniate  monete in rame ed in argento. Si immettono, perciò, sul mercato la piastra d’argento, la mezza piastra, il sei tornese e il quattro tornesi.

La piastra d’argento corrisponde a 12 carlini, la mezza piastra a sei carlini. Il sei tornese di rame corrisponde a tre grani,  il quattro tornesi a due grani.

La piastra presenta sul dritto la figura femminile della libertà, che, con la mano destra regge un’asta sormontata dal berretto frigio, e con la sinistra si poggia su un fascio littori; si legge, quindi, l’iscrizione “Repubblica Napoletana”. Sul retro, invece, fra due rami di quercia, si  legge la scritta “Carlini Dodici. Anno VII della Libertà”.

Il popolo napoletano è gravato da innumerevoli tasse o arrendamenti. I gensali sono i diritti di riscossione che si esigono su tutto quello che entra in città. Queste tasse sono pagate alle Sbarre, i diversi luoghi distribuiti sul territorio cittadino e che si trovano a Fuorigrotta, a Chiaia, alla Marina del vino, alla Sanità, ad Antignano, ad Orsolone, al Cavone a Miano, alla Cassa del Mandrone (luogo destinato alla monta dei cavalli e dei tori) al Mercato, a Capodichino, a Casanova, al Ponte della Maddalena, a Porta Nolana e a Capodimonte.

La corretura è il pedaggio che devono pagare i carri e gli animali che entrano nella capitale del Regno; l’arrendamento di Piazza Maggiore è il dazio sugli animali venduti nel mercato grande.

Sulle carni fresche e su quelle salate, sugli insaccati ed i formaggi si esige una tassa di un grano e mezzo al rotolo. Sulle carni, in particolare, si esige lo scannaggio o gabella della scannatura, che deve essere pagata da tutti coloro che fanno macellare animali nei pubblici macelli.

Sul pesce, tanto di mare quanto d’acqua dolce, si esige, invece, un dazio pari al 12% del peso. La tassa sul pesce va pagata al momento della vendita e deve essere corrisposta sia per la pesca fatta nelle acque territoriali che fuori. Non sono esclusi dalla tassazione i pesci salati o conservati. 

Gabelle si riscuotono anche per la vendita del pane, dell’olio, del vino, la cosiddetta terziaria, corrispondente, cioè alla terza parte del valore del vino.

Il  falangaggio è la tassa che tutte le barche devono pagare per entrare nel golfo; altre tasse gravano sull’occupazione di suolo, sui lavori edilizi e sin’anche sulla fetta d’anguria!

Ci sono, poi, i tributi straordinari, i cosiddetti donativi, che gravano su tutti i cittadini e che servono a recuperare gli esborsi necessari per occasioni eccezionali, come il milione di ducati serviti per la venuta a Napoli di re Carlo nel 1736 o il milione occorso per il matrimonio dello stesso re nel 1738. Per non parlare dei 525.000 ducati richiesti per la nascita della principessa Maria Elisabetta, nel 1741, quelli occorsi -1.400.000 ducati- per la guerra di successione austriaca e quelli stanziati -1.000.000 di ducati- nel 1785, per il viaggio dei reali in Italia e Germania.

Le imposte, però, non gravano su tutta la popolazione. Le categorie esentate sono numerosissime.

Per lo stato di appartenenza sono esentati dal pagare le tasse gli ecclesiastici, i loro familiari ed i loro servi; gli ordini cavallereschi, gli alti magistrati, i  funzionari civili e militari, i soldati.

Sono esentati anche i padri onusti, coloro che hanno più di 12 figli.

Sono esclusi, infine, per privilegio perpetuo o temporaneo, alcuni luoghi pii della città come l’Annunziata o l’Ospedale degli Incurabili, i commercianti napoletani ed altri favoriti, indigeni o forestieri, sia per uso proprio che per i bisogni annonari della città, sia per privilegio generale che per licenza speciale.

 

 

Napoli 1799. Cap. I - Il vento rivoluzionario (1)

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