Lucy Riall ed il mito di Garibaldi

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Lucy Riall, storica irlandese, ha dedicato un saggio completo e documentatissimo alla figura di Giuseppe Garibaldi. Si tratta di una  biografia innovativa e nel contempo magistrale.

Seguendo le orme dello studioso italiano Alberto Banti, la Riall ha sviluppato un modo fresco e molto più interessante di raccontare la storia del Risorgimento.

Nell’agiografia tradizionale, Garibaldi era l’uomo istintivo di azione, il soldato valoroso che si gettava nella lotta ovunque lo chiamava la libertà , ma le cui idee e la carriera politica politica erano di importanza trascurabile.

Rappresentava il “braccio” dell’ unificazione, mentre le parti del corpo più nobili venivano assegnate ad altri: Giuseppe Mazzini, l’instancabile promotore del nazionalismo, era l’anima, re Vittorio Emanuele II era il cuore, e il suo primo ministro, il conte Camillo Cavour,  il cervello. (Questa metafora corporea è stato creata dopo l’unificazione per creare l’illusione di unità organica.)

La Riall dimostra  che ‘l’eroe dei due mondi’, oltre ad essere un soldato, era anche un leader politico importante, innovativo ed estremamente moderno.Garibaldi incarnò il personaggio del moderno combattente per la libertà. Dopo aver partecipato a guerre di liberazione nazionale in America Latina, adottò il look del gaucho, con il poncho, la barba trasandata, una semplice camicia rossa ed un fazzoletto intorno al collo per apparire un cavaliere libero e selvaggio, contento di usare la sella a mo’ di  cuscino.

Garibaldi sapeva come mettersi in posa. Quando voleva conquistare un pubblico borghese, appariva con la barba tagliata, in uniforme da generale piemontese, e il giorno dopo tornava ad indossare il suo poncho e camicia rossa, rientrando nel ruolo di sobillatore anti-establishment.

La fama di Garibaldi fu parzialmente una creazione dei media, resa possibile grazie all’espansione della stampa e l’aumento di alfabetizzazione di massa, e parzialmente tra i generi della narrativa popolare romantica e la diffusione di idee radicali. Tuttavia principalmente fu il risultato di una strategia politica progettata dal Mazzini, e da lui attuata con un gruppo di pubblicisti di talento.

La Riall non estremizza sostenendo che Garibaldi sia un eroe del tutto “inventato”. Egli aveva avuto un ruolo significativo nell’aiutare la giovane nazione dell’Uruguay che combatteva la dominazione argentina, dedicando dodici anni di vita e di lotta all’America latin, apprendendo la prassi dell’azione politica democratica che costituirà la sua fortuna tramite l’arte del comandare gruppi di volontari non necessariamente animati dagli stessi suoi nobili ideali.

Coerentemente, nel corso di quegli anni, mostrò notevole coraggio in tantissime battaglie adottando tattiche audaci e innovative nella lotta contro gli eserciti e le truppe regolari.

Dopo il fallimento delle rivoluzioni in Italia del 1848-1849, Garibaldi, gravemente ferito e in lutto per la morte di Anita, si allontanò progressivamente da Mazzini, strenuo repubblicano e implacabile nemico della monarchia piemontese. Decise che l’unione con le forze con il Piemonte, unico Stato indipendente italiano, avrebbe rappresentato la migliore opportunità per l’unificazione italiana. I suoi rapporti con i piemontesi – in particolare con il loro scaltro primo ministro Cavour e il re Vittorio Emanuele II – è uno dei capitoli più complessi e controversi della biografia di Garibaldi.

La Riall ravvisa decisamente meriti nel governo provvisorio che Garibaldi fondò in Sicilia, anche se etichettato come dittatura. Garibaldi chiese aiuto ai suoi sostenitori siciliani per dare al governo un buon grado di partecipazione locale, realizzando un regime con elementi democratici e populisti.

Le politiche sociali e amministrative del regime facevano parte di un ambizioso programma di origine mazziniana, che mirava a rigenerare l’Italia e che, favorendo l’identificazione popolare con l’idea di nazione, si proponeva di unire il governo e il popolo in una nuova religione politica.

Nel 1860, la fama e lo status di Garibaldi raggiunse il suo apice. Come capo di un grande esercito e sovrano di quasi mezza Italia, avrebbe potuto scegliere di dettare, da una posizione di parità con Vittorio Emanuele e Cavour, i termini dell’unificazione italiana, ma si accontentò invece di un semplice referendum sull’unificazione e poi scomparve nel suo rifugio sull’isola di Caprera.

Almeno nella fase iniziale Garibaldi non si rese conto delle dimensioni della sua sconfitta . Ciò significava che il nuovo Stato italiano sarebbe stato una monarchia conservatrice con la sovranità popolare estremamente limitata, una struttura fortemente centralizzata.

Molti dei suoi sostenitori erano repubblicani, democratici e socialisti che volevano qualcosa di molto diverso dalla soggezione a una monarchia aristocratica. Il 18 ottobre 1860 Garibaldi scrisse a Mazzini: “dovendo cedere è meglio cedere di buona grazia” , frase su cui tanti storici seri si sono interrogati.

In effetti Garibaldi, come i protagonisti del Risorgimento, da Silvio Pellico a Pisacane, da Mazzini a Cavour, arrivarono a convincersi che una nazione Italiana esisteva, e che bisognava lottare per essa, ma, inspiegabilmente, Garibaldi, secondo la storica irlandese, a questo punto commise un errore facendo prevalere il realismo nel momento decisivo. Ma forse il suo pensiero era  rivolto alle tante sconfitte che dal 1849 il sogno repubblicano aveva dovuto subire, soprattutto in termini di vite umane.

In tal senso va collocata, secondo la Riall, la Spedizione dei Mille, di  tradizione mazziniana, che era cominciata con i Fratelli Bandiera nei primi anni quaranta e proseguita nel corso degli anni cinquanta, e che Paul Ginsborg ha indicato come uno degli elementi centrali della concezione romantica della nazione italiana.”

In effetti la politica culturale di quello che sarà il governo garibaldino si differenzia da altre forme di nazionalismo, un termine che si associa per lo più ad avvenimenti del periodo successivo. Garibaldi si rivolgeva non solo agli intellettuali e agli uomini istruiti della classe borghese, ma anche a donne e contadini . Vi era un chiaro intento di arrivare a quella che Lucy Riall definisce “coscienza popolare”.

Tuttavia l’intento fu fallimentare, e l’aspetto romantico-nazionalistico del risorgimento in tale fase prevalse su quello di carattere sociale . La rivoluzione democratica – sostiene la Riall , ebbe un proprio e vero “affievolimento”  nel momento in cui prevalse lo spirito nazionalista rispetto a quello che si mostrava l’ intento rivoluzionario, sconfitto dal realismo del conte di Cavour.

La scrittrice irlandese sottolinea più volte che, rinunciando al sogno repubblicano democratico, Garibaldi commise forse l’errore più grande della sua carriera buttando via un enorme vantaggio politico quando accettò di cedere il potere al Piemonte e si ritirò dietro le quinte di Caprera, nel novembre 1860.

Nel momento decisivo fece una scelta realistica che lo poneva in condizioni di contrasto con le sue convinzioni personali e con molti amici e compagni di lotta. Lui, democratico e repubblicano, decise di arrendersi ad una monarchia liberale e monarchica.

Dopo l’unificazione, Garibaldi diventò uno dei critici più accesi del governo che aveva contribuito a mettere in atto. Si mosse decisamente verso sinistra, sposando una forma di socialismo, spingendo, senza successo, per il suffragio universale.

Sebbene la maggior parte degli storici ha visto negli ultimi anni di Garibaldi il momento di impotenza e di crescente marginalità, la Riall sostiene che ci fu “importanza duratura per l’opposizione che rappresentava”. Ironia della sorte, fu lui, uno dei padri fondatori d’Italia, che offrì in breve tempo una delle prime e più importanti critiche all’unificazione italiana, dipingendola come una promessa tradita, concetto che rimase nella coscienza della successiva opposizione democratica parlamentare.

Cavour fu in grado di intrappolare i democratici e spingerli politicamente fuori dal governo e non solo, scrive la Riall., perché non poca rilevanza ebbero le divisioni nello stesso gruppo che si proponeva rivoluzionario.

“La confusione che regnava nel campo democratico dette a Cavour un vantaggio importante, che permise allo statista di allontanare i garibaldini dalle posizioni che occupavano nel Parlamento e nelle amministrazioni”-  ma la storica sottolinea quanto poi disastrosa si sarebbe rivelata la scelta di Cavour, riconosciuta anche dal sovrano, che intuì, dopo il ritiro di Garibaldi  a Caprera, il ritorno in Parlamento per un duro scontro parlamentare. E fu ciò che avvenne a Torino il 18 aprile 1861.

Se il 1860 fu il momento di Giuseppe Garibaldi , ben diversi si mostrarono gli anni successivi in cui -  scrive Lucy Riall - “l’azione contro i democratici nel Sud si rivelò un errore disastroso, in quanto cancellò una solida base di consenso politico e di concreto sostegno all’opera di governo, e generò un senso di disaffezione e di esclusione in un vasto gruppo di giovani, il cui malcontento andò ad aggiungersi ai problemi provocati dalla criminalità e dal brigantaggio e ad una serie di minacce di natura politica (da parte dei reazionari e dei repubblicani) che già interessavano il Meridione”.

Da questo momento ebbe inizio un altro percorso storico che passò per la battaglia dell’Aspromonte, l’arresto di Garibaldi e la “questione romana” a cui la storica irlandese dedica le ultime cento pagine del suo voluminoso lavoro.

 

 

Bibliografia:
Lucy Riall- Garibaldi l’invenzione di un eroe- Laterza-2007

 

 

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