Garibaldi romanziere

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Categoria: Storia del Risorgimento
Creato Domenica, 20 Settembre 2015 17:25
Ultima modifica il Domenica, 20 Settembre 2015 17:26
Pubblicato Domenica, 20 Settembre 2015 17:25
Scritto da Angelo Martino
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Giuseppe Garibaldi fu anche autore di romanzi, la cui valenza estetica non desta particolare interesse, ma rappresentano  una forte  testimonianza dell’epoca risorgimentale.

Cantoni il Volontario  fu ispirato ad un personaggio storicamente esistito, Achille Cantoni, che combatté nella II e  III guerra di indipendenza e trovando la morte nel 1867 in battaglia a Mentana. Nell’opera emerge la figura di un giovane eroe puro, generoso e di grandi ideali.

Nel corso delle battaglie romane, Cantoni in un’occasione difese Garibaldi col  proprio corpo e di ciò l’eroe dei Due Mondi gli fu sempre riconoscente . Nella prefazione al romanzo l’autore esprimeva con estrema chiarezza le motivazioni che lo spingevano alla scrittura durante il ritiro a Caprera.
Le motivazioni enunciate erano tre: il dovere sacro di rendere onore ai valorosi caduti sui campi di battaglia nel tentativo di fare l’Italia; riflettere con le giovani generazioni sui tentativi fatti, sulle imprese ancora da portare a termine e sulle colpe di clero e regnanti; infine trarre un «onesto lucro» dal proprio lavoro.

Dai  romanzi di cui  Garibaldi fu autore  emergeva  un’altra idea di unità nazionale,  l’onestà di ammettere anche errori purtroppo inevitabili in un percorso lungo verso l’Unità,  non riducibili agli ultimi due anni decisivi.

Il 29 agosto 1862 nello scontro a fuoco sull’Aspromonte con le truppe italiane del generale Cialdini, Giuseppe Garibaldi fu ferito al malleolo interno del piede destro.
«La tragedia di Aspromonte», sostiene lo storico Denis Mack Smith, «fu dovuta alla deliberata ambiguità del governo. Il Ministero incitò Garibaldi all’azione (tanto il re stesso ebbe a confessare ad alcuni diplomatici stranieri), deciso ad appropriarsi del suo successo o a sconfessarlo e punirlo nel caso che fosse fallito nell’intento».

«Quando Garibaldi, nel luglio 1862, giunse nuovamente in Sicilia con molti volontari fu accolto dovunque da folle acclamanti, feste, bande, tricolori e da perplessi prefetti e questori che non sapevano se fermarlo o lasciarlo fare. Il Governo ambiguamente li invitava soltanto alla discrezione.

Da una delle piazze siciliane fu lanciato il grido “Roma o morte!”, e con questa parola d’ordine, e senza che nessun’autorità li ostacolasse, i nuovi Mille (ora erano duemila) sbarcarono, come due anni prima, a Melito Porto Salvo e si diressero verso Roma.

Scattò a questo punto l’allarme della Francia, protettrice del papa, e il governo dovette allora dare l’ordine di fermare l’avanzata. Sull’Aspromonte, non lontano da Reggio, il 29 agosto reparti di soldati si scontrarono con i garibaldini.

Garibaldi diede l’ordine di non sparare, ma un’ inattesa sparatoria coinvolse anche lui. La pallottola di un soldato, bene indirizzata, lo colpì al malleolo del piede destro. Il colonnello Pallavicini, che comandava il reparto, pur dimostrandogli rispetto, lo dichiarò in arresto. Su una improvvisata barella Garibaldi fu portato a Scilla e poi in carrozza a Paola e imbarcato sulla nave militare Duca di Genova diretta a Savona».

Nelle sue  Memorie, Garibaldi ricostruì l’episodio, ribadendo che egli aveva ordinato ai suoi di non sparare, dando atto al colonnello Pallavicini di essersi condotto «da capo valoroso ed intelligente in tutte le sue mosse militari» e di aver manifestato il suo dolore di dover versare sangue italiano; «ma aveva ricevuto ordini perentori e dovette ubbidire».

Il 12 settembre fu rinchiuso nella fortezza di Varignano, presso La Spezia. «Solo una opportuna amnistia - ricorda Lucio Villari - impedì che Garibaldi in carcere mettesse in crisi l’Italia appena unificata». Gli fu consentito di tornare a Caprera, il suo rifugio, il suo esilio.

«A 56 anni», scrisse Jessie White Mario, amica e biografa di Garibaldi, «fu ben duro per lui il dover stendere la mano affinché altri lo sorreggessero, duro l’esser portato dove ei non voleva. Ma gli fu forza piegare il capo al suo destino». Per un anno fu praticamente immobilizzato.

Il governo Rattazzi fu costretto alle dimissioni, la tensione con la Francia salì alle stelle, ma il guaio era ormai consumato.

Giuseppe Mazzini trasse le conclusioni politiche dell’incidente: «La pallottola del moschetto che ha ferito Garibaldi ha cancellato l’ultima riga del patto firmato due anni fra tra i repubblicani e la monarchia. Oggi ci dividiamo per sempre da una monarchia che ha combattuto sull’Aspromonte per il papa”.

Giuseppe Garibaldi, in esilio, rese omaggio ad Achille Cantoni, facendone un eroe romantico, in cui il personaggio veniva posto al centro di una trama d’amore tutta d’invenzione, che pure contribuiva alla “romanticizzazione” della figura, proponendo tra Amore e Patria una connessione profonda.

Ai caratteri di bellezza e vigoria fisica si sommavano le virtù morali: l’estrema lealtà, il coraggio, l’amore per la patria. L’autore scriveva: “Egli serviva l’Italia, e solo l’Italia o la causa de’ popoli oppressi; egli serviva l’Italia Nazione non i suoi reggitori, più o meno tiranni, più o meno prostituiti allo straniero…”
Prestanza, fierezza, coraggio di Cantoni all’entrata in Bologna fecero  innamorare a prima vista la bella Ida, che appena quattordicenne si arruolò tra i Volontari travestita da ragazzo per seguire il suo amato.

Nella costruzione della storia d’amore tra i due, l’autore si avvalse di tutti i più noti espedienti: la scoperta che Ida era una bellissima fanciulla, di cui Cantoni si innamorò durante il tumulto a Ravenna; il coronamento dell’amore contrastato dal malvagio prete Gaudenzio, col rapimento di Ida da parte di quest’ultimo; la cattività della fanciulla nella rocca di San Leo e la sua liberazione ad opera di Cantoni.

Ida fu presente al fianco di Cantoni nelle battaglie in difesa della Repubblica romana e, come ogni buona eroina risorgimentale, fu pronta a farsi uccidere piuttosto che farsi disonorare. Un prete che contrastava l’amore degli eroi rappresentava simbolicamente la Chiesa che si opponeva alla causa nazionale, tradendo le aspettative di una Chiesa pronta a liberarsi del potere temporale.

Come scrive Bonghi “gli ingredienti ci sono tutti: dall’amore puro e appassionato (Ida e Cantoni), la lotta tra il buono (il volontario) e il cattivo (l’infame chericuto papalino), la stoccata contro i regnanti (dal re di Piemonte all’imperatore austriaco a Napoleone III) alla vittoria del male per tradimento, e infine alla morte sacrificale di Ida e Cantoni sull’altare di quella Patria che sta lentamente nascendo”.

La stoccata era , quindi , contro i regnanti , qualunque essi fossero, antecedentemente borbonici ed in quel  presente storico sabaudi, austriaci o francesi.

Va ricordato che  Garibaldi era un convinto repubblicano e di simpatie socialiste , anche se i percorsi storici lo costrinsero a compromessi. Nel romanzo l’autore respingeva anche le critiche dei mazziniani duri e puri, facendo appello ai grandi iniziatori della prima stagione della letteratura italiana per rivendicare la bontà di quanto gli era stato possibile ottenere:

“Quanto si è fatto per l’unificazione patria nell’alta Italia, nel centro, nella meridionale, non solamente fu nullo, ma nocivo, — dicono essi. Dante, Macchiavelli, Petrarca, che volevano un’Italia anche col diavolo, erano poveri visionari per loro”.

E’ l’orgoglio di Giuseppe Garibaldi che emergeva, non per difendere se stesso, ma  tutti i giovani che con lui avevano voluto a costo della vita,  realizzare l’Unità nazionale  e tra loro c’era stato“Cantoni il Volontario”, di sinceri sentimenti repubblicani,  ma che aveva presente quel concetto di “far l’Italia anche col diavolo”. 

Era questo il loro motto favorito, e sino all’ultimo respiro gli furono fedeli.

 

 

Bibliografia:

Giuseppe Garibaldi, Cantoni il volontario, Enrico Politti Editore, Milano, 1870, Tip. Guglielmini.
Denis Mack Smith, Cavour contro Garibaldi,  Rizzoli 1999
Lucio Villari, Bella e perduta, Laterza- 2009