I 'Saggi politici' di Francesco Mario Pagano

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Creato Giovedì, 13 Agosto 2015 17:12
Ultima modifica il Venerdì, 21 Agosto 2015 22:40
Pubblicato Giovedì, 13 Agosto 2015 17:12
Scritto da Giovanni Cardone
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Il pensiero di Pagano, giurista, filosofo, letterato,  uno dei maggiori esponenti  dell’Illuminismo meridionale, merita di essere preso in esame per la sua visione  che ci viene consegnata attraverso i suoi Saggi politici, un’opera di carattere filosofico, politico, storico e di filosofia della storia, che può definirsi di filosofia civile per sua profonda ispirazione grazie al  suo disegno di fondo in cui i diversi elementi della sua multiforme natura sono orientati verso un unico obiettivo.

E anche per la filosofia politica che emerge in tutta la sua peculiarità da un lavoro pur dai caratteri tecnici obbligati quale il Progetto della Costituzione della Repubblica napoletana da lui personalmente redatto.

Pagano ha lasciato al mondo intellettuale un’eredità complessa, che cercheremo di mostrare nelle sue diverse sfaccettature. Ma il motivo prevalente per il quale è ricordato nella storia è la sua partecipazione attiva ai moti che determinarono la nascita della Repubblica napoletana del 1799 e l’opera teorica e politica svolta come membro del governo della Repubblica.

Quest’attività direttamente pratica – che lo impegnò per pochi mesi soltanto della sua vita terminata sul patibolo, a suggello della reazione sanfedista e borbonica che concluse la brevissima esperienza repubblicana – non fu però frutto di un entusiasmo improvviso e inatteso, né manifestazione di un habitus rivoluzionario.

 

Fu invece la naturale prosecuzione di idee e pensieri nutriti e coltivati da tempo; fu la traduzione nella pratica di una visione del mondo basata sui valori della legalità e della libertà, avvertiti come i più impegnativi fattori di contrasto nei confronti dell’organizzazione sociale feudale e premoderna che ancora caratterizzava il Regno di Napoli nel XVIII sec.

Soprattutto alla scuola di Genovesi e Filangieri, Pagano aveva appreso la lezione di un mondo economico, sociale e politico che può mutare grazie a un impulso riformatore e può essere perfezionato nelle sue strutture, e prima ancora negli uomini che le compongono e in esse lavorano con perizia ed esperienza.

Da costoro aveva imparato a valutare i danni di una società fondata sul potere baronale, sulla miseria e l’abiezione di plebi incolte, sul latifondo e sul monopolio, e ad apprezzare i pregi della fisiocrazia, della codificazione, di una legge valida universalmente, dell’educazione, della cultura, dei lumi.

Da notare è che il Genovesi, docente del giovane Pagano, stava proprio in quel periodo imprimendo una diversa direzione alla ricerca filosofica, fin lì sostanzialmente rivolta a temi metafisici e ora invece sempre più orientata verso interessi di tipo ‘civile’: prima con il Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze (1754) e poi con le Lezioni di commercio o sia di economia civile (1765-67) e con la Diceosina, o sia della filosofia del giusto e dell’onesto (1766).

Quanto a Filangieri, è vero che dei cinque libri che compongono la Scienza della legislazione – la sua opera più eminente, nella quale è raccolto il complesso delle sue ricerche – i primi due apparvero soltanto nel 1780 (e gli altri successivamente, fino all’ultima parte, uscita postuma nel 1791), ma anche in questo caso Pagano aveva potuto attingere fin da giovane al suo sapere (consegnato, per es., alle precoci Riflessioni politiche su l’ultima legge del sovrano che riguarda la riforma dell’amministrazione della giustizia, 1774), essendo stato accolto nel circolo intellettuale che si era formato attorno al colto aristocratico Francescantonio Grimaldi, di cui anche Filangieri faceva parte.

E aveva continuato a nutrirsi del suo magistero, riconoscendosi nelle finalità teoriche e pratiche da questi proposte e perseguite. Già il suo lavoro di avvocato ne offre preziosa testimonianza: il rifiuto della tortura, argomento della prima delle sopraccitate allegazioni (in una causa per omicidio in cui gli accusati erano stati condannati alla «tortura acre»), è un tema classico dell’Illuminismo italiano, affrontato prima da Cesare Beccaria e da ultimo proprio da Filangieri.

La seconda allegazione vede Pagano impegnato nella lotta contro il giuramento, considerato una tortura dello spirito (in una causa per il reato di furto); già qui e poi nella terza, specificatamente dedicata ad approfondire il tema del valore delle prove, si può leggere una trattazione delle prove giudiziarie che negli anni a venire costituiranno per lui materia di ricerca di centrale importanza (quest’ultima allegazione è stata pubblicata in Palombi 1979).

Infine, la presenza di Filangieri si conferma nelle proposte di riforma del sistema processuale avanzate nelle Considerazioni sul processo criminale, che condensano l’attività scientifica del decennio successivo.

A esse si affianca una serie di altri scritti, pubblicati postumi nei primi anni del XIX sec. (Principii del codice penale, 1803, e Logica de’ probabili applicata a’ giudizi criminali, 1806, entrambi in F.M. Pagano, Giustizia criminale e libertà civile, a cura di R. Racinaro, 2000; la Logica de’ probabili uscì poi anche in edizione milanese con il titolo Teoria delle prove; la si legge in Appendice nel volume di E. Palombi, Mario Pagano e la scienza penalistica del secolo XIX, 1992).

Le vicende editoriali immediatamente successive alla pubblicazione delle Considerazioni illustrano al meglio la viva presenza e influenza della cultura meridionale nel contesto della cultura europea: subito dopo la pubblicazione in Italia, una sintesi dell’opera apparve sulla rivista francese «L’esprit des journaux» e nel 1789 l’opera fu pubblicata integralmente in traduzione francese.

Pagano aveva coltivato anche la letteratura e in particolare la drammaturgia, pubblicando, a partire dal 1782, Gli esuli tebani, Gerbino, Agamennone, Corradino, Emilia (cfr. Quondam 1975). Anche in questo campo l’ostilità del fronte conservatore ebbe modo di manifestarsi con violenza.

Per parte sua, Pagano aveva fin da allora chiaro il secolare ruolo del teatro nella formazione della coscienza civile, ruolo che invocherà di nuovo nel fervore del periodo repubblicano come essenziale strumento per la creazione della nazione.

Lo studio della filosofia praticato accanto a quello della giurisprudenza lo aveva condotto, giovanissimo (nel 1770) a essere designato lettore alla cattedra di etica dell’Università di Napoli, precedentemente occupata da Genovesi, il maestro da cui aveva appreso l’importanza dello studio dei classici, in particolare Aristotele e Platone, nonché il valore derivante dalla capacità di associare legislazione e formazione di un popolo.

I Saggi politici, apparsi in prima edizione negli anni 1783-85, sono il frutto più alto della ricerca condotta in questo ambito. Pagano era convinto del parallelismo esistente fra storia dell’umanità e storia della vita individuale dell’uomo; su questa materia aveva esercitato la propria riflessione cercando di portare la filosofia e la storia al più alto grado di integrazione possibile.

Aveva così ricostruito in prospettiva filosofica le fasi storicamente percorse dall’umanità, in evidente sintonia con lo spirito dell’epoca, ma senza rinunciare alla propria autonomia. Dalla contemporanea filosofia della storia accettava l’idea di una progressiva evoluzione del genere umano e anzi, con gesto anticipatore rispetto ai risultati che verranno raggiunti dalla cultura francese nel primo trentennio dell’Ottocento, insisteva fortemente sull’importanza dell’opera di civilizzazione che, come tale, è capace di condurre l’umanità fino alle vette più alte della cultura e della politesse.

D’altra parte, dalla tradizione vichiana aveva recepito la dottrina della circolarità della storia: all’acme della civilizzazione seguiva la fase della decadenza, innescata da «catastrofi» fisiche – fenomeni naturali come i terremoti, le inondazioni, gli incendi (il terremoto delle Calabrie del 1783 parve offrire alla teoria una spaventosa conferma) – o morali, come le guerre.

I due diversi assunti si combinavano insieme con originalità, dando luogo certo a difficoltà teoriche, ma le soluzioni trovate o almeno cercate per smussare le asperità della teoria rivelavano al contempo le grandi potenzialità di una concezione dinamica e piena di vigore, tesa nella ricerca del significato reale di una condotta proba della collettività ed entro la collettività.

La constatazione della decadenza presente avrebbe dovuto fungere da pungolo per far riprendere quota a un sistema strutturalmente capace di ripartire e raggiungere nuovi livelli di civiltà. Lo stesso scopo avevano l’evocazione delle antiche glorie italiche e la fiducia che i «cicli» riportassero l’Italia all’altezza dei tempi di Cicerone o di Parmenide (sulla stessa scia, il Platone in Italia di Vincenzo Cuoco, pubblicato fra 1804 e 1806).

Nella seconda edizione dei Saggi politici questo sforzo di conferire un senso forte alla vita civile di un popolo, di spingerlo al perfezionamento, di agevolarne il possibile progresso, invocando anche una decisa riforma delle istituzioni politiche, si profila con maggiore evidenza.

E con esso si delinea una più approfondita ricerca su un tema che sarà al centro dell’ultima fase della biografia intellettuale di Pagano: il tema dei diritti. Suddivisa in due volumi, al loro interno articolati in ‘saggi’, l’opera reca il sottotitolo Del civile corso delle nazioni o sia De’ principii, progressi e decadenza delle società ed espone quella che Pagano stesso qualifica come una storia «filosofica», e dunque universale, dell’umanità.

In essa l’interesse principale è volto allo sviluppo interno di popoli e nazioni nelle diverse età della storia, posto in parallelo con lo sviluppo fisico dell’essere umano nelle varie fasi della vita.

L’idea ispiratrice è che esista una «legge» che presiede al corso della storia e tale corso sia pertanto immutabile. Come gli individui, prima di raggiungere la maturità e l’equivalente grado di cultura, devono percorrere una serie di stadi successivi, a partire da una condizione iniziale che li vede deboli e indifesi, così le società esordiscono in un iniziale stato selvaggio per passare poi a uno barbarico, e finalmente accedere alla civiltà.

E come gli individui, una volta giunti alla maturità, iniziano inevitabilmente a decadere, così anche la civiltà, che è giunta a toccare il culmine, sperimenterà un processo di decadenza. La legge dell’analogia regola i rapporti tra macro e microstoria.

L’impronta vichiana – tramandata da un’illustre tradizione della cultura meridionale, ma in primo luogo mediata dall’insegnamento di Genovesi, che aveva fatto in tempo ad ascoltare di persona le lezioni dettate da Giambattista Vico nell’ultimo periodo del suo magistero (e rivelata dalla scelta stessa del tema) – si combina con altre suggestioni intellettuali, fra le quali è già stata menzionata quella proveniente dall’insegnamento degli antichi, che avevano indicato nell’indagine sulla natura dell’uomo il punto di partenza privilegiato di ogni ricerca.

Ma poi, accanto a queste, altre ascendenze vanno ricordate, per prima quella di Isaac Newton, nell’ambito della riflessione sulla nascita della scienza moderna, e poi quella di John Locke, e di alcuni fra i maggiori philosophes, nel campo della ricerca epistemologica, impegnata a evidenziare il ruolo svolto dall’esperienza; ascendenze delle quali occorrerà tenere debito conto, dovendo indicare l’orizzonte sensistico-empiristico in cui la trattazione paganiana della natura umana anche si inscrive, nonché l’eco degli studi newtoniani sulle leggi fisiche, ben avvertibile nell’esposizione delle «forze» che animano tale natura.

Pagano descrive una natura umana composta di elementi invarianti e insieme dotata di caratteri contingenti; i primi si riducono sostanzialmente all’istinto di conservazione della vita e ai bisogni fisici primari e individuano l’essere umano nella sua specificità; i secondi sono innanzitutto rappresentati da volontà e ragione; tali caratteri permettono l’evoluzione della specie e il suo perfezionamento tanto fisico quanto «morale» – aggettivo preferibilmente usato per designare la dimensione spirituale, intellettuale e culturale di tale processo.

La natura umana, nella sua duplice composizione, materiale e spirituale, è sorretta e percorsa da una pluralità di «forze», ciascuna con un proprio ruolo, essenziale e determinante. Si può istituire una gerarchia in base alla quale segnalare la preminenza e priorità delle forze spirituali (morali) su quelle fisiche, ma di queste ultime va non di meno riconosciuta l’attività ed efficacia.

Tutte queste forze agiscono in senso centripeto, ma anche nella direzione contraria; il primo movimento è quello che consente compattezza e coesione al proprio interno, da cui conseguono accordo e armonia con l’esterno; è a questo stadio che si raggiunge la condizione di «perfezione», un equilibrio subito messo in pericolo da quelle forze centrifughe o disaggreganti che inaugurano la fase di decadenza.

È opportuno precisare – anche a causa della complessa storia del concetto di perfezione e della molteplicità dei significati che esso ha di volta in volta rivestito nella storia del pensiero – che in Pagano lo stato di perfezione è lo stato naturale dell’uomo, la sua condizione ‘normale’, e questo rappresenta una sorta di criterio, di unità di misura per ponderare il grado di progresso raggiunto.

Ovviamente, alla base di questa nozione c’è l’idea di una perfettibilità che è al contempo segno della capacità dell’uomo di trasformarsi: il mutamento come risultato del movimento è una delle costanti della natura umana.

Una conservazione «lieta e felice» è lo scopo ultimo dell’uomo e la felicità è l’oggetto e il fine della comunità politica. Il denominatore comune per le finalità del singolo, della specie e anche della storia, è dato dal fatto che, secondo Pagano, la natura intesa nel senso più comprensivo del termine ha come propria finalità l’associazione fra gli esseri.

Così, già a partire dalle forze naturali, dai bisogni che caratterizzano l’uomo a livello fisico, si sprigionano sentimenti di apertura verso il mondo esterno, perché all’opera è quella forza di attrazione per antonomasia che è la socievolezza. Armonia e bellezza sono invece i bisogni dello spirito.

Il passaggio da una pluralità disgregata di volontà e forze private alla società si ha quando la volontà comincia a farsi una e comune, il che è storicamente accaduto con la nascita della «concione» (pubblica adunanza).

Una nazione raggiunge il suo più alto grado di sviluppo quando governo, costumi e ragione sono ‘perfezionati’ nel senso suddetto. È questo il momento in cui le istituzioni si pongono a tutela dei diritti individuali, oltre che della sicurezza e della proprietà (da Pagano chiamata «nostreità», ciò che è nostro). Il che diventa possibile solo quando vi sia una legislazione scritta e universale, fatta di poche leggi, brevi e chiare. Allora alla guerra subentra la pace, frutto di buoni costumi oltre che di una sana economia.

La decadenza ha inizio non appena si instauri qualche elemento di dispotismo; di lì allo strapotere delle oligarchie il passo è breve. Che la monarchia ne costituisca l’unico argine egli l’aveva imparato da Aristotele.

E tanto altro aveva condiviso del suo insegnamento: dalla predilezione per il governo moderato, supportato da una «costituzione temperata», all’obiettivo della formazione di una classe media; dall’idea che l’uguaglianza non debba essere aritmetica ma «di proporzione», alla concezione dell’aristocrazia come governo dei migliori (gli ottimi per virtù), fino all’idea della naturalità delle formazioni politiche.

Nell’ultimo periodo, quello di più forte impegno sul fronte politico e in campo legislativo, l’aspirazione a costruire una ‘scienza nuova’ (giuridica) trovò pratica realizzazione.

L’espressione ‘radicalismo giuridico’ sembra idonea a connotare l’atteggiamento intellettuale di Pagano, se solo si pensa, da un lato, alle posizioni radicali cui egli infine approdò e, dall’altro, alla priorità rispetto a ogni altra assegnata dalla sua visione del mondo alla prospettiva giuridica.

Per spiegare il primo aspetto occorre tornare agli elementi biografici che caratterizzano l’ultimo decennio del secolo.

Il 1794 era stato, per Napoli, l’anno della svolta: in molti, compreso Pagano, stava definitivamente scemando la fiducia nelle potenzialità riformatrici della monarchia, mentre da parte monarchica continuava a crescere l’inquietudine per l’effervescenza che sprigionava da settori per quanto ristretti della società, per il nuovo impulso nell’attività di proselitismo delle logge massoniche, per le agitazioni che percorrevano anche gli strati sociali inferiori.

Quanto alla congiura sopra ricordata, non è storicamente accertato se essa sia stata ordita davvero o non sia stata piuttosto una macchinazione della monarchia.

La questione si inserisce in un più ampio contesto cui appartiene anche il dibattito, ancora aperto, sulla reale linea di continuità tra logge massoniche di antica tradizione e club giacobini di recentissima fondazione, e sull’effettiva natura politica di questi ultimi, non sempre coincidente con quella di vere e proprie società segrete rivoluzionarie; alcuni studiosi dubitano che il collegamento sia stato così diretto e immediato (cfr. T. Pedìo, La congiura giacobina del 1794 nel Regno di Napoli, 1976, 19862 e M. Rossi, Nuova luce risultante dai veri fatti avvenuti in Napoli pochi anni prima del 1799, 1890, in partic. pp. 154-68, in cui è illustrata l’arringa difensiva pronunciata da Pagano al processo).

Sin dai primissimi anni Novanta si era registrato un improvviso mutamento nella politica di Ferdinando IV; dopo oltre trent’anni di ‘buon governo’, lo spirito di reazione innescato dagli avvenimenti francesi andava imponendosi anche a Napoli. L’arrivo, nel dicembre del 1792, della flotta francese nel golfo di Napoli e la sua permanenza in rada per più di un mese aveva rappresentato un ulteriore campanello di allarme.

In questo clima di crescente apprensione, a corte si instaurò quell’atteggiamento di forte sospetto che, come ricorda anche Cuoco, porterà infine ai processi di opinione dell’anno 1795.

Quanto a Pagano, sono questi gli anni in cui teoria e pratica vengono, quasi costrette dagli eventi, a congiungersi. Prima, nel periodo della Repubblica romana, il memorabile Discorso tenuto presso la Società di agricoltura, tutto incentrato sugli effetti nefasti prodotti dal latifondo e sulla necessità di trasformazioni radicali; poi, dopo la fuga del re da Napoli, l’attività legislativa nel Governo provvisorio (la legge sui feudi, le proposte sui fedecommessi, sull’abolizione della tortura e delle «pene straordinarie»), infine il lavoro di stesura del Progetto di Costituzione, compiuto in prima persona, e anche in solitudine, testimoniano della capacità, da parte di un’elaborazione filosofica inizialmente molto legata alla tradizione, alla lezione degli antichi, gravata dalla filologia e da attitudine antiquaria, di trasformarsi in una filosofia che può porsi al servizio della nuova società, perché ha compreso la centralità della legge per il vivere civile.

Il gusto antiquario sopravvive innanzitutto nella celebrazione dell’antica virtù repubblicana, che diventa ora fondamento della Costituzione scritta, garante dei diritti, e poi nella proposta di istituti dal nome antico – eforato, censura – ma di senso nuovo e anzi letteralmente rivoluzionario.

Già da parte degli immediati successori venne condotto un serrato dibattito sui possibili modelli di costituzione che ispirarono Pagano, con risposte diverse. Nel nostro secolo la storiografia è stata unanime: Napoleone I Bonaparte aveva imposto alle repubbliche già instaurate in Italia il modello della Costituzione francese del 1795 e anche Pagano ne fece praticamente un calco. Decise tuttavia di introdurvi poche ma rilevanti modifiche e di riscrivere la Dichiarazione de’ diritti e doveri dell’uomo, del cittadino, del popolo e de’ suoi rappresentanti (ove sottotraccia si riconosce l’identico schema delle facoltà umane esposto nei Saggi politici).

Le fonti di ispirazione vanno dalla Costituzione della Pennsylvania, che a suo tempo Benjamin Franklin aveva personalmente inviato a Filangieri, a quella francese del 1793, al Progetto di Costituzione della Repubblica ligure.

Il complesso di tali innovazioni rispetto al modello napoleonico segnala i difficili rapporti con i francesi (che non riconobbero mai ufficialmente la Repubblica, esercitarono forti resistenze prima di autorizzare la stesura della Costituzione, si opposero fino all’ultimo al passaggio del denaro appartenuto alla corona ai banchi della città; lo stesso esercito francese arrivò a Castel Sant’Elmo dopo che questo era stato occupato dai patrioti: una sorta di conferma dell’assunto consegnato al «Monitore napoletano» di Eleonora de Fonseca Pimentel, ossia che la libertà e la democrazia sono a Napoli «pianta per dir così indigena», cit. in M. Battaglini, La Repubblica napoletana. Origini, nascita, struttura, 1992, p. 266).

E segnala altresì la presa di distanza da ogni ‘bonapartismo’ – piuttosto che la soggezione ai vincoli del localismo. Il tema, in generale, dei doveri indica l’intento di costruzione di un’etica sociale, in base alla quale doveri e diritti si corrispondono vicendevolmente.

L’innovativa parte dedicata al popolo ha il significato di affermare la realtà di un potere costituente, oltre a quello costituito (il popolo ha il diritto fondamentale di darsi una libera Costituzione, di mutare forma di governo e anche di insorgere, qualora si instaurino «autorità tiranniche»); molto significativa anche l’accentuazione dei doveri dei pubblici funzionari.

Agli efori, che sono rappresentanti non di un singolo dipartimento ma dell’intera nazione e detengono un potere di genere diverso dagli altri poteri, compete la custodia della Costituzione. Infine, la forte vocazione pedagogica del tempo si riflette nel Titolo sulla istruzione e educazione pubblica, notevolmente ampliato, e nel nuovo istituto della censura dei costumi.