Domenico De Gennaro: il patriota molisano del 1799 che morì per il suo popolo

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A Domenico De Gennaro, Benedetto Croce, in Storia del Regno di Napoli , dedicò poche, ma ben mirate parole, allorché trattò dei tanti martiri della rivoluzione partenopea del 1799:

“Similmente a Casacalenda il protettore di quel popolo era un dottore in legge, don Domenico de Gennaro, nobile giovane e colto e di liberi spiriti, che sostenne e vinse dal 1780 in poi una serie di liti contro i feudatari di Sangro, i quali tentarono di ridurlo in silenzio, e in ultimo, nella reazione sanfedistica del 1799, riuscirono a farlo ammazzare”.

Domenico De Gennaro nacque a Casacalenda, grazioso centro collinare in provincia di Campobasso, il 9 maggio 1760 da Giovannantonio e da Angelina Giannesi di Gambatesa.

Fu istruito dai maestri locali, prima di conseguire a Napoli per conseguire la laurea in legge. La permanenza nella capitale e il contatto con gli ambienti liberali più progressisti temperarono il suo giovane spirito, che era portato all’amore del prossimo, della gente umile del suo paese natale.

Quando rientrò a Casacalenda, fu inevitabile per lui proteggere la sua gente dai soprusi dei feudatari del posto, in particolare dal duca Scipione di Sangro. Costui avversava Domenico De Gennaro, in quanto aveva concepito l’idea di rivendicare diversi beni usurpati al popolo dalla casa ducale di Sangro.

Per tale impegno liberali e per l’essere schierato totalmente a favore della gente umile del suo paese, la sua gente lo ribattezzò affettuosamente “Tatone”, ossia padre di tutti i cittadini.

Frequentava, intanto, il circolo della baronessa di Castelbottaccio, un cenacolo filosofico-letterario, dove il De Gennaro ebbe l’occasione di conoscere Vincenzo Cuoco.

Nel 1785, i Di Sangro denunciarono al re borbone tale circolo, per vendetta contro Domenico, che dovette fuggire a Napoli, mentre i suoi compagni venivano tuti arrestati e deferiti alla corte criminale di Lucera, competente per territorio.

Tradito dal marchese Lemaitré, Don Domenico De Gennaro fu arrestato, ma, nel processo, che si prolungò fino al 1798, con un’abile autodifesa, riuscì a salvarsi dalla forca.

Poteva, quindi, rientrare a Casacalenda, accolto dalla popolazione con una clamorosa e spontanea dimostrazione d’affetto. I cittadini chiesero perfino di cantare il Te Deum; cosa che non avvenne per l’intromissione degli agenti del duca Scipione di Sangro.
La lotta tra Domenico De Gennaro e i feudatari del territorio di Casacalenda si sarebbe protratta per anni, in cui Don Domenico dovette ancora una volta il carcere, quello della Vicaria di Napoli, fino a quando, con l’instaurazione della Repubblica nel 1799, i prigionieri politici venivano tutti liberati.

De Gennaro avrebbe potuto avere un incarico importante nel nuovo governo repubblicano, anche per le sue amicizie con i migliori esponenti della Repubblica Partenopea, Francesco Lomonaco, lo scienziato Domenico Cirillo, il giurista Francesco Conforti, Pasquale Baffi, che sarà ministro delle Finanze e con lo stesso Francesco Mario Pagano, ma, privo di qualsiasi ambizione, preferì rientrare nel suo Molise.

A Casacalenda, dove era atteso dalla popolazione, organizzò un’Amministrazione Provvisoria, elevando in piazza l’albero della libertà.

Fu, inoltre, in contatto attivo con Nicola Neri, un vecchio amico, divenuto commissario della Repubblica, con cui condivise l’elaborazione del proclama alle popolazioni del Molise, che, tra l’altro, riportava: “Quel muro che separava il ricco dal popolo, l’ignobile dal nobile, il privato dal togato, muro innalzato dall’ambizione e dalla tirannia, è finalmente rovesciato. Voi avete ripreso i vostri diritti, non siamo diventati tutti sovrani, ma tutti uguali.”

Intanto, come è noto la reazione sanfedista, con l’apporto delle armate inglesi, turche, svizzere, portoghesi, russe, si preparava a ristabilire l’antico regime. Nel Molise la controrivoluzione venne capeggiata proprio dalla casata di Sangro, che, nell’appartenere all’alto baronaggio del Regno di Napoli, non poteva dimenticare i tanti smacchi ad essa inflitta da De Gennaro.

Circa dodicimila persone, per lo più di origine albanese, reclutati nelle patrie galere dal Cardinale Ruffo, e mossi dalle prospettive di un copioso bottino, armati di schioppi e di cannoni, marciarono alla volta Casacalenda, comandati da Michelangelo Fiocco, caporale dell’esercito regio. L’assedio durò dal 19 al 21 febbraio 1799.

In quei giorni di Quaresima si trovava a Casacalenda, nel vicino convento di S. Onofrio, un predicatore, fra Giuseppe da Macchia, che cercò di negoziare la pace con i gli assedianti. Dopo trattative, la pace venne solennemente giurata da entrambe le parti sul Sacro Crocifisso. “ Ma alla fine - si legge nel manoscritto del frate  “ostinatamente si protestarono che volevano il C. Domenico de Gennaro in arresto”.

La sera stessa dell’accordo di pace e del giuramento solenne davanti al Crocifisso Michelangelo Fiocco aveva cenato nella casa dell’Arcidiacono De Gennaro, dove era ritirata la moglie di Domenico De Gennaro.

Tuttavia gli Albanesi volevano a ogni costo De Gennaro, giurando che non avrebbero attentato alla sua vita e “di trattarlo con tutta la pulizia fino a tanto che dal Re si esaminava la sua innocenza”.

I cittadini di Casacalenda, miti e onesti, opposero un’eroica resistenza, ma Domenico De Gennaro decise di consegnarsi al comandante Fiocco per amore del suo popolo.

Nel manoscritto di Padre Giuseppe La Macchia, pubblicato dalla storica Antonella Orefice, è riportato dettagliatamente la cronaca dell’omicidio del De Gennaro e tutto quanto avvenne a Casacalenda durante quei drammatici giorni.

ll nobile sacrificio di quest’uomo  rivive nelle pagine del libro della studiosa napoletana, Termoli e Casacalenda nel 1799. Stragi dimenticate. Nel testo, che attinge a documentazione inedita del fondo Mariano D’Ayala, emerge e si staglia la personalità di un grande patriota che da anni lottava contro le sopraffazioni, invocando l’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge, spendendosi per gli umili di Casacalenda, paese del Molise, ed era pertanto amato da tutta la popolazione.

Racconta il francescano: “Calato dal monte, portai il foglio al C. Domenico, che mi attendeva davanti alla Chiesa: non fu sì pronto a scorrerlo con l’occhio, quando il profferire con magnanimo coraggio: Eccomi pronto, voglio andare, sono pronto a morire per il mio popolo”.

Con l’arresto di Domenico De Gennaro, il massacro sembrava scongiurato. Giunta, invece, la sera, gli albanesi, come indiavolati, calarono in paese “ per dare il saccheggio universale, ed insieme fare la cattura di molte persone non risparmiando neppure i Sacerdoti.

Nel manoscritto di Padre Giuseppe La Macchia si evidenzia tutta la rabbia, lo sdegno, il furore per tale esecrabile spergiuro compiuto, dopo aver giurato sul Crocifisso: “Scelerati!…Empi Assassini…Cristiani scristianiti!…Perfidi felloni! Obstupescite Coeli super hoc et porlae ejus desolumini-Isaij. Ben si è voluto l’iniquo disegno che si covava nel vostro rio cuore…”

Dopo aver saccheggiato, ucciso a caso persino i sacerdoti e fucilati dodici innocenti, il giorno seguente, tali briganti assassini albanesi ripiegarono verso Campomarino, trascinando in quel luogo, legato alla coda d’un cavallo, come tramanda una leggenda popolare, il povero  De Gennaro. Qui, il 25 febbraio 1799, condotto sulla spiaggia, venne fucilato senza pietà. Aveva 39 anni.

Del suo martirio, Francesco Lomonaco, nel suo “ Rapporto al cittadino Carnot”, scrisse: “ Che dirò di Casacalenda? I tuoi talenti, le tue virtù, senza esempio, il tuo disinteresse incomparabile non poterono disarmare gli animi della fazione del delitto! Il tuo patrimonio non esiste più; ed i tuoi figlioli non hanno altro legittima che la risonanza delle tue azioni e l’esempio di quelle grandi qualità che caratterizzarono gli eroi”.

 

 

Bibliografia:


Benedetto Croce, Storia del Regno di Napoli, Milano, 1992.
Antonella Orefice, Termoli e Casacalenda nel 1799. Stragi dimenticate,  Napoli,  2013.
Francesco Lomonaco, Rapporto al cittadino Carnot, Google e-book
Il manoscritto originale di Padre Giuseppe La Macchia è presente nel citato testo di Antonella Orefice.

 

 

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