Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

La repressione borbonica nel Cilento, in un murales di José Garcia Ortega

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José Garcia Ortega fu amico e allievo di Pablo Picasso. La sua vicinanza al popolo e la continua rivendicazione della libertà per i suoi concittadini lo costrinsero all’esilio durante il franchismo.

Il suo peregrinare per l’Europa si concluse a Bosco (Salerno). Nel piccolo borgo cilentano Ortega ritrovò molto di quello che era stato costretto ad abbandonare in Spagna. Per rendersi conto di ciò basta ripercorrere la storia del paese: la piccola frazione di San Giovanni a Piro, durante i moti cilentani del 1828, fu protagonista di una rivolta antiborbonica repressa duramente nel sangue.

Uno dei doni più belli che “El pintor de la mancha“ ha lasciato al suo popolo adottivo è proprio un murales in maioliche (nella foto) che racconta di questa tragica pagina di storia intrisa di dignità e voglia di libertà, raffigurante i soldati borbonici in marcia verso la repressione della libertà.

Seppur relegati dalla storiografia quale evento minore, i moti del Cilento dell’estate 1828 ci offrono l’ulteriore dimostrazione di come il percorso del Risorgimento sia stato lungo nel Sud e di quanto esso abbia inciso nella progressiva conquista delle libertà costituzionali.

Infatti esso fu promosso dalla setta carbonara dei Filadelfi, attiva in Irpinia e nel Cilento, e avente per obiettivo il ripristino della costituzione del 1820.

Se Carlo Pisacane la considerava “sommossa non secondata, e quasi preveduta e voluta dal governo[…]soffocata nel sangue di numerosi cittadini e sotto le ruine di Bosco”, creata ad arte dai Borbone per liberarsi della setta dei Filadelfi, bisogna opporre a tale giudizio quello del conte austriaco Von Metternich, il quale aveva già sprezzantemente commentato i moti del 1820, affermando:

“Il sangue colerà a torrenti. Un popolo per metà barbaro, di un’ignoranza assoluta, di una superstizione senza limiti, ardente e passionale come sono gli africani, un popolo che non sa né leggere né scrivere, e di cui l’ultima parola è pugnale, offre bel soggetto per l’applicazione dei principi costituzionali.”

Da come si evince, il conte austriaco, da Vienna, era molto attento agli avvenimenti nel Regno di Napoli, e anche quando venne a conoscenza dei moti nel Cilento del 1828, si scagliò contro “le rassemblement de bandits e de sectaires qui menaçaient de troubles le Royaume de Naples” (il rassemblemamento di banditi e di settari che minacciavano di portare scompiglio nel Regno di Napoli) .

Capo della sommossa fu un ecclesiastico, il canonico Antonio Maria De Luca. Ad essa parteciparono tanti rivoltosi di diversi borghi del Cilento, se pensiamo che la Commissione militare borbonica, in seguito alla repressione, giudicò ben 187 rei.

La sera del 27 giugno gli insorti, disarmati i gendarmi e le guardie urbane di Centola, mossero alla volta di Palinuro, nel cui forte speravano di trovare armi e munizioni.

Il 28 mattina la fortezza fu occupata senza colpo ferire, ma in essa furono rinvenuti solo pochi fucili. Proseguirono allora  per Camerota, dove li attendeva il padre Carlo Guida dei Cappuccini di Maratea; il 29 raggiunsero Licusati e il 30 San Giovanni a Piro.

Nello stesso giorno arrivarono a Bosco, ove furono ben accolti dalla popolazione locale. Nei primi giorni di luglio i rivoltosi, che andavano crescendo di numero, attraversarono gli abitati di Acquavena, Roccagloriosa, Torre Arsaia, Castel Ruggero, Cuccaro e Montano. L’intento era quello di scendere a Vallo, dove sarebbero confluiti anche gli insorti del Vallo di Diano.

La reazione borbonica, intanto, si apprestava a reprimere la rivolta. L’intendente Giuseppe Spinelli era già stato informato dell’assalto al fortino di Palinuro e aveva ordinato alla Gendarmeria di Salerno di prepararsi.

Tuttavia Francesco I volle che fosse il maresciallo Francesco Saverio Del Carretto, un ex carbonaro, a dirigere le operazioni di rivolta con due navi da guerra, forti di ben otto compagnie ai suoi ordini.

Del Carretto raggiunse il Cilento meridionale, con le truppe che erano sbarcate in parte a Paestum, in parte a Policastro, e il resto in direzione di Sala, accerchiando di fatto gli insorti.

La repressione borbonica, anche in tal caso, fu durissima. Il borgo di Bosco, reo di aver accolto i rivoltosi con maggior entusiasmo degli altri paesi, fu dato alle fiamme, per ordine di Del Carretto.

I gendarmi entrarono nelle case, le saccheggiarono, le incendiarono, fucilando immediatamente venti patrioti, e deportandone circa 50.

Tra le vittime dell’illusione costituzionalista-carbonara dall’estate 1828 al 1829, oltre al canonico Giovanni De Luca, grazie alle ricerche dello storico locale Emilio Fusco, si ricordano Michele Bortone da Celle, amico del canonico, Domenico De Siervo, Davide Riccio e Nicola Carrello, che furono i primi a essere fucilati 19 luglio, Nicola Cobucci, Antonio La Gatta, Vito Giuseppe Tabasco, Filippo Rocco, il curato Giovanni De Luca, nipote del canonico, Giuseppe Bufano, il cappuccino Carlo Guido da Celle , nipote del canonico, Teodosio De Dominicis, Emilio De Mattia, il “campagnuolo”Pasquale Rossi, “Angelo Lerro, esattore dell’imposta fondiaria; Domenico Antonio De Luca, bottegaio, il medico Alessandro Riccio, Gennaro Greco, Felice De Martino, Carmine Cirillo. Alcuni morirono mentre, in catene, erano tradotti da Vallo a Salerno: Donato De Mattia, Michele De Luca, Gerardo Corrado, Angelo Maria Mozzarella, Bonifacio Oricchio.

La carneficina era ancora in atto il 2 ottobre allorché furono fucilati Angelo Raffaele Pandolfi e Giuseppe Guida.
Il 4 aprile del 1829- aggiunge lo storico Fusco- fu la volta di “Emidio De Mattia da Vallo e altri ancora”.

Furono condannati “ai ferri”:

Antonio Galotti; Antonio Trucillo, scrivano ventenne, 19 anni di ferri; Antonio Bianco, architetto ed ex colonnello, ergastolo; Diego De Mattia, fratello del condannato a morte Emilio, pena di morte commutata nell’ergastolo; Michelangelo Mainenti, proprietario, 28 anni di ferri; Giuseppe Ferrara, liberale, condanna a morte commutata nell’ergastolo; graziato nel 1830,partecipò ai moti del 1848 e fu nuovamente condannato; Saverio Malfitani, tenente, 24 anni di ferri; Gregorio Costa, maestro di matematica, trent’anni di ferri; il ragazzo Pietro Bianchi di 10 anni; Biagio Saturno, servo , condannato a morte con commutazione della pena capitale a 19 anni di ferri; Domenico Antonio Caterina, tornato dalla Corsica con i Capozzoli, relegato a Ponza; suo fratello Giuseppe Caterina, condanna a morte commutata nell’ergastolo; Vincenzo Riola, avvocato, Nicola Gammarano, condanna a morte commutata nell’ergastolo e graziato nel 1841;Giuseppe Gammarano, sacerdote venticinquenne ; Giuseppe Alario, sacerdote di 19 anni.

Non mancano nel lungo elenco le donne: Nicolina Tambasco, sorella del condannato a morte Giuseppe Vito e moglie di Pietro Bianchi , a cui furono inflitti 10 anni come al marito, Rosina Bentivenga, madre di Nicolina Tambasco, condannata a sei anni. E infine, Serafina Apicella, che torturata subito dopo l’arresto, fu condannata a 25 anni.
La partecipazione delle donne a tale rivolta scrive lo studioso ed editore Giuseppe Galzerano può essere considerato di forma di “ femminismo ante litteram”.

 

 

Bibliografia:
Felice Fusco- Carlo Pisacane e la rivolta di Sapri- Lotte risorgimentali nel Cilento meridionale e nel Vallo di Diana dalla Repubblica Napoletana all’Unità d’Italia- Galzerano Editore- 2007

 

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