Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Il mito dei veneti

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EneaUna ricostruzione storica piuttosto diffusa oggigiorno presso certi ambienti politici è quello della presunta origine dal Vicino Oriente (dall’Anatolia) dei paleoveneti o veneti antichi.

Questa ipotesi è funzionale a sostenere una supposta separatezza etnica dei veneti  attuali  dagli  altri italiani. In realtà, quella dell’origine anatolica dei paleoveneti è un vero e proprio mito in senso stretto, privo di storicità.

Numerosi autori antichi attribuiscono ai veneti antichi delle origini orientali. Essi si rifanno tutti, direttamente od indirettamente, a due fonti, che sono le prime a formulare tale teoria: Erodoto e Catone.

Le tradizioni leggendarie sulle origini troiane, greche o propriamente orientali di dati popoli italici  sono essen­zialmente disposte secondo due filoni.

Il primo è dato dalla leggenda di Ulisse ,quindi greca, che raggiunge le coste italiane a cavallo fra secondo e primo millennio. Questa tradizione si riferisce alle coste pugliesi come le più prossime per un viaggiatore che proveniva dall'Egeo.

Ma già Esiodo conosce un «Latino», fratello di Agrio e figlio di Ulisse (personaggio mitologico altrimenti sconosciuto), e quindi la leggenda è ormai anch'essa pervenuta alle coste tirreniche dell'Italia.

Il secondo filone, ancora più importante, è dato dalla leggenda di Enea, che poggia su tre elementi:

1) l'eco dei nostoi e cioè dei « Ri­torni » degli eroi della guerra di Troia, anche se si tratta di un eroe troiano e non di uno greco;

2) l'eco genealogica generica di città, che connettono le loro origini con Enea per ragioni etimologiche, tale la città di Aineiain Macedonia;

3) la cristallizzazione dell'epos succes­sivo alla guerra di Troia secondo il poema di Stesicoro (VII-VI sec.) in cui non si ha solo un focolaio di partenza ma anche una de­stinazione verso il paese occidentale, l'Esperia.

I primi contatti con l’occidente furono stabiliti in Africa con l'invenzione dell’episodio di Didone, in Sarde­gna con la popolazione degli Iliensi, etimologicamente affini al nome di Ilio-Troia, anche se assolutamente estranea alla città frigia.

Come mostra, fra gli altri, Pierre Grimal nella sua opera “Virgilio”, i miti sulle origini di Roma erano moltissimi, si contraddicevano fra loro, eppure si intrecciavano. Talvolta si raccontava che la fondazione di Roma era opera di Ulisse ed Enea, talvolta dal solo Enea, in altri casi interveniva pure con qualche ruolo Diomede

La prima evocazione della leggenda avviene con Stesicoro (VI secolo), nativo di Imera (Sicilia), poi di Ellenico di Mitilene (V secolo), nativo di Lesbo, secondo il quale Roma è stata fondata da Ulisse ed Enea. Soltanto in epoca molto tarda si perviene al collegamento finale col Lazio o Roma,  durante il V secolo, soprattutto attraverso lo storico siciliano di lingua greca Timeo (IV­-III sec.).

A questo nucleo narrativo s’aggiunge infine la guerra con Latino, che salda il racconto del  matrimonio con la figlia di questo sovrano la tradizione tirrenica di Enea con quella adriatica risalente al mito di  Ulisse.

È soltanto con Catone il Censore e le sue “Origines” che si perviene ad una forma praticamente definitiva della leggenda. È inoltre Catone a coniare per primo il mito dell’origine troiana dei Veneti (cosa distinta dall’origine dai Paflagoni), modellato chiaramente su esempio di quello della provenienza troiana di Roma ed apologetico dell’alleanza fra questi due popoli.

[Su quanto sopra, cfr. M. Pallottino, “Relazioni del X Congresso internazionale di studi storici”, Roma 1955, pp. 34-33; Wikén, “Die Kunde der Hellenen von dem Land und den Völkern der Apenninenhalbinsel bis 300 v Chistus”, Lund 1937; Pierre Grimal, “Virgilio”, Milano 1986].

Un’analoga mescolanza si ritrova nel caso del mito delle origini anatoliche dei paleoveneti, poiché  esiste una contraddizione fra i dati forniti da  Erodoto (ispiratosi ad una breve descrizione di Omero) da una parte, e quelli di Catone e Livio dall’altra,  poiché Paflagoni e Troiani erano due popoli  distinti.

Si dà contrasto anche sulle direttrici migratorie, poiché secondo Erodoto gli Heneti giungono in Veneto attraverso i Balcani (passando con navigazione fluviale sul Danubio per poi sboccare, sempre navigando, in Dalmazia: cosa assolutamente impossibile, il che attesta oltretutto quale conoscenza avesse Erodoto anche solo della geografia dei luoghi descritti, non che delle lontane origini delle popolazioni residenti), mentre secondo Catone i troiani giungono passando per l’Egeo e l’Adriatico. 

La tipologia offerta dai racconti di Erodoto e di Catone (ma anche  degli altri, ad imitazione dei primi)  rientra nei cosiddetti “miti delle origini”, ben noti agli antropologi ed agli storici delle religioni (in primis il grande storico romeno M. Eliade), i quali conoscono una diffusione praticamente universale.

Fra le loro funzioni, esiste quella di giustificare e legittimare determinate istituzioni, riti od anche possesso di territori. Su questo argomento, esiste una bibliografia enorme di dimensioni. Come inquadramento generale della tipologia in  questo specifico mito si pone, è naturalmente utile consultare Mircea Eliade e la sua definizione di “mito” (come “Mito e realtà”, “Il mito dell’eterno ritorno”).

Sulla questione peculiare del “mito delle origini del popolo”, si possono ritrovare studi che possono comprendere, teoricamente, ogni civiltà ed epoca, poiché l’elaborazione mitologica delle  proprie origini etniche è un fenomeno universale, che si rintraccia, seppure secondo modalità differenti, nello stesso mondo contemporaneo.

Simili racconti presentano caratteri analoghi: un personaggio, anzi una successione di personaggi, straordinari ed in contatto col divino, talora dèi o semi-dèi essi stessi; essi si muovono in periodo anteriore a quello storico propriamente detto, e “fondano” con la loro autorevolezza leggi, istituzioni, norme sociali, riti religiosi ecc.

La Bibbia presenta diversi racconti mitologici siffatti, come è ben noto agli studiosi.  Basti qui ricordare la grande opera di Edward Thompson, “The historicity of Patriarchal Narratives”, Berlin 1974, la cui conclusione è incontestata nell’ambito degli specialisti  dell’Israele antico: i vari patriarchi (Abramo, Isacco, Giacobbe ecc.), con le rispettive genealogie, sono privi di realtà storica.

Ad esempio, forme di simile pensiero si rintracciano certo nell’Occidente medievale, coi vari Beda, Gregorio di Tours, Paolo Diacono e le loro Historiae dedicate al popolo d’appartenenza (Angli, Franchi, Longobardi): ma gli esempi si potrebbero facilmente moltiplicare. L’opera di Nicolò Zeno il giovane è soltanto una fra le tante, e rientra appieno nella tipologia suddetta, ponendosi quale tardo esempio d’una antica tradizione.

[Due brevi ma utilissimi articoli sulla ricostruzione “mitologica” dell’etnogenesi nel Medioevo, in speciale riferimento ai popoli germanici, sono quelli di H. Wolfram, “Origio et religio. Ethnic Tradition and Literature in Early Medieval Texts”, in “Early Medieval Europe”, 3, 1 1994, pp. 19-38, e soprattutto  K.  Jhauck, “Carmina antique”, in “Zetischrift für bayerische Landesgeschichte”, 27, 1964, pp. 1-33. Cfr. anche W. Goffart, “The Narrators of Barbarians History. A.D. 550-800”, Princeton 1988.]

Un esempio d’un celebre mito, somigliantissimo a quelle delle origini troiane dei veneti ed assai più celebre,  può  aiutare a comprendere le intenzioni di Catone.

Il mito dell’origine  di Roma dai discendenti di Enea, oggigiorno rifiutato da tutti gli storici, è certamente molto posteriore alle più antiche leggende su questa città (il duello degli Orazi e dei Curiazi, Muzio Scevola ecc.), le quali, come ha mostrato magistralmente Georges Dumèzil nella sua amplissima analisi comparativa, rientrano nell’ambito della mitologia religiosa indoeuropea.

La sua formazione non rientra pertanto nella fase più antica della storia cittadina, ma è posteriore al contatto con la grecità,  presentandosi quale strumento d’esaltazione nazionalistica, paragonabile al tentativo di un parvenu di nobilitarsi, inventandosi l’ascendenza da un antenato nobile.

Nel caso dei racconti sulle origini anatoliche dei paleoveneti non solo ci si trova in presenza di miti, i quali non trovano altrimenti conferma, ma oltretutto essi conoscono un lungo e travagliato percorso di formazione, combinandosi nelle loro varie tradizioni e modificandosi nel tempo, secondo quanto accade normalmente in simili casi.

Inoltre, queste fonti hanno un carattere indiretto, poiché non appartengono ad autori di stirpe veneta, ma d’altre civiltà. È questo anche il caso di Tito Livio, il quale è pur sempre un romano, e d’altronde riprende sullo specifico punto qui esaminato l’insegnamento di Catone.

Si pone quindi il problema d’una testimonianza che non è quella del popolo interessato, ma mediata da un’altra cultura, anche molto diversa. In realtà, Erodoto e Catone non informano sulle tradizioni realmente venete riguardo al passato di questa stirpe, ma su quelle formatesi in ambito greco e romano. Non è dato sapere se i veneti le condividessero.

L’argomento è tutt’altro che capzioso o secondario. L’antropologia assegna un’importanza cruciale, specie nella ricostruzione della mentalità, alla distinzione fra aspetto “emico” ed “etico”, tra la visuale che ha l’osservatore estraneo alla cultura e quella del membro della civiltà stessa esaminata. In quanto alla storiografia propriamente detta, l’immenso campo delle ricerche sulla “cultura popolare”, folk-lore ecc.  attesta la centralità del problema posto dalla distorsione o rielaborazione compiuta dalla “cultura dotta” nei confronti di quella “popolare” od “orale”, nel riferirne i contenuti e significati.

Più in generale, è erroneo metodologicamente attribuire sic et simpliciter ad una data civiltà le credenze ed idee che si sono formate su di essa all’interno di un’altra cultura.

Per fare due esempi molto semplici, adatti alla problematica qui affrontata, si può  ricordare come i romani (ad esempio Tacito, negli Annales) avessero sulle origini etniche degli ebrei credenze che non corrispondevano affatto a quelle che gli ebrei avevano su di sé. Parimenti, gli storici medievali avevano  elaborato una fantasiosa teoria sulle origini dei mongoli, che non aveva nulla in comune con le opinioni dei mongoli stessi al riguardo.

In questi casi, e nei moltissimi altri analoghi, può essere agevole (anche se non sempre tale operazione è possibile, perlomeno con facilità) discernere fra ciò che elaborazione d’una cultura e di un’altra.

Ad esempio, le credenze sviluppatesi  nel Medioevo sui mongoli avevano tratto ispirazione dall’Apocalisse di Giovanni ed in generale da dottrine e testi cristiani, i quali erano naturalmente del tutto estranei alla cultura mongola.

Perciò, anche se non si sapesse nulla dei miti mongolici, si potrebbe sostenere con certezza che  le leggende medievali sui Mongoli come popoli di  Gog e Magog erano appunto semplici leggende, non rispondenti al vero e neppure credute da questo popolo nomade.

In altri termini, se  è possibile provare che una data opinione o complesso di convinzioni espresso dai membri di una cultura su di un’altra risale a modelli culturali certamente peculiari anzi esclusivo della prima, non si può che escludere che essi siano condivisi dalla seconda, nonché da essa originari.

Per ciò che qui interessa, il racconto della migrazione degli Heneti per Erodoto, dei troiani per Catone, è stato certamente elaborato sulla base delle rispettive culture, greca e latina. Erodoto ha tratto ispirazione dal testo base della grecità, i poemi omerici, mentre Catone ha modellato il mito a partire da quello della migrazione d’Enea.

Non esiste alcuna prova, di nessun genere, che i paleoveneti condividessero tali leggende, che, per il loro contenuto, si palesano con chiarezza come originari di culture “altre” rispetto a quella venetica.

Ancora, la lontananza cronologica fra queste fonti ed il presunto evento riportato è davvero notevole. La cosiddetta “Troia omerica” (poiché questa città conobbe una storia di oltre 3000 anni, con la stratificazione di diverse città l’una sull’altra) fu distrutta attorno al 1200 a.C.

I poemi omerici conoscono una redazione definitiva attorno al X-IX secolo, Erodoto al V secolo,  le Origines di Catone al II secolo,  Livio al I a.C. Considerando la certa assenza di fonti scritte capaci di tramandare tale supposto accadimento nei secoli frapposti fra Catone (il primo sostenitore della discendenza troiana dei veneti) e la distruzione micenea di Troia, si hanno ben mille anni che sarebbero stati affidati unicamente a tradizioni orali. 

In tale lungo periodo il ricordo degli eventi avrebbe ben potuto deformarsi in misura a dir poco decisiva. Gli studi sul “folklore”, ad esempio, attestano come per il sorgere d’una leggenda, anche assai complessa, sia sufficiente un lasso di tempo non di generazioni, e neppure di anni, ma talora anche solo di giorni.

È altamente probabile, che queste fonti cadano in errori interpretativi (Erodoto) od in intenzionali mistificazioni (Catone, Livio).

Erodoto parla di Henetoi in riferimento appunto ai “Veneti” dell’Adriatico, con ciò sostenendo essere i discendenti degli Henetoi della Paflagonia di cui parla Omero (II, 852).

Però,  il  greco antico, come è noto, non conosceva l’uso del suono corrispondente all’italiano “V”, per cui il termine “veneti” poteva ben conoscere da parte di un Greco un fenomeno di elisione della consonante iniziale, divenendo “eneti”, da cui l’identificazione, arbitraria, con gli Henetoi omerici.

Questa supposizione appare rafforzata da un esame etimologico dei termini henetos (greco) e della radice –wenet, da cui “Veneti”. Henetos in greco può significare sia “fermaglio, fibbia”, sia “suddito, sottoposto, indotto, subornato”.

Il passo in cui Omero parla degli Henetoi potrebbe intendersi pertanto non come riferito ad un popolo così chiamato (“Eneti Paflagoni”, giunti a Troia sotto il comando di Pilemene), bensì come “i sudditi Paflagoni” di Pilemene. Però, Erodoto lo avrebbe interpretato, erroneamente, come proprio di una specifica popolazione.

In ogni caso, comunque, henetos e –wenet  sono due termini distinti, con significati e radice differenti. Infatti, -wenet designa “colui che viene da oriente”, “invasore dell’est”, il normale luogo geografico di provenienza degli Indoeuropei occidentali.

Ciò spiega perché esistessero anche altri popoli indoeuropei, distinti dai “veneti” dell’Adriatico,  che avessero un nome simile od anche identico, come i celti dell’Armorica, vinti da Cesare, che si chiamavano anch’essi veneti.

Questa analisi linguistica obsta ad un’identificazione fra gli Henetoi ed i veneti.  Come osserva, fra gli altri, Prosdocimi, i diversi popoli indoeuropei che avevano come proprio nome la radice –wened non erano affatto imparentati fra loro (Dal venetico, cit., p. 231-232). Si trattava semplicemente d’un nome comune a stirpi distinte per lingua, origine, territori di popolamento, costumi ecc.

La somiglianza onomastica si spiega con le similitudini fra le lingue indo-europee e la presenza di motivi analoghi che ne indussero la formazione. Per fare un paragone semplicissimo, i cognomi come “Fabbro”, “Campo” ecc. non indicano affatto di per sé parentale fra coloro che li portano, poiché designano in origine la professione esercitata.

In quanto a Catone, egli costituì il personaggio che più di tutti s’oppose all’ellenizzazione di Roma, incarnando il più schietto orgoglio nazionalista romano. Le Origines costituivano certamente una parte della sua battaglia politica e culturale contro l’influenza greca sull’Urbe, venendo scritte con consapevole intento polemico contro la storiografia greca e nella finalità d’esaltare la storia romana, anzi quella di tutti i popoli italici.

È difficile dubitare  che il racconto d’Antenore ed alcuni superstiti Troiani quali antenati dei veneti, che risulta speculare a quello della fondazione dell’Urbe da parte degli Eneadi, risponda alle medesime esigenze ed anzi sia stata elaborata prendendo a modello proprio il celeberrimo aneddoto d’Enea riparatosi nel Lazio.

Questo d’altronde avrebbe consentito a Catone di presentare i romani ed i veneti loro fedeli alleati, quali erano all’epoca (il Veneto rimase a lungo indipendente e semplicemente socius di Roma) quali popoli con un’origine comune e quindi fratelli.

Esiste d’altronde una gran mole di prove che dimostrano come i paleoveneti fossero strettamente imparentati etnicamente e culturalmente alle altre popolazioni dell’Italia antica, di cui la più importante è basata sulla lingua venetica.

Il venetico  è noto attraverso un elevato numero di iscrizioni, poste su oggetti votivi o steli funerarie, provenienti anzitutto dal centro paleoveneto di Este, nonché da altri quali Padova, Vicenza, l’importante territorio della valle del Piave, ed ancora altre località, fra cui preme ricordare la città di Trieste e persino la Carinzia.

Tale ampia area di diffusione ha creato varietà regionali, tra cui sono riconoscibili il venetico di Este, quello padovano e quello alpino, a quanto è dato capire utilizzato proprio nell’area giulio-veneta.

È appena il caso di ricordare come la “famiglia” delle lingue indo-europee si ramifichi progressivamente in ulteriori ceppi linguistici, secondo un procedimento filetico di ripartizione comunemente adoperato in campo linguistico e che consente altresì d’individuare e studiare la parentela etnica, oltre a quella appunto della lingua.

Esiste un dibattito sulla esatta relazione del venetico con le altre lingue indo-europee, causa la relativa scarsità d’informazioni possedute su questo linguaggio, pure sia maggior parte degli studiosi, sia i più autorevoli fra di essi, concordano sulla sua appartenenza al “Gruppo Romanzo” (esistono molti altri “Gruppi”, come il “Gruppo germanico”, il “Gruppo celtico”, il “Gruppo slavo”, il  “Gruppo greco” ecc.), il quale comprende sia le moltissime lingue neo-latine ovvero derivate dal latino, sia il  raggruppamento originario in  cui rientrava il latino stesso, ovvero le lingue romanze originarie.

Questo gruppo romanzo originario, da alcuni definito italico (altri preferiscono restringere il sottogruppo linguistico detto “Italico” alle lingue umbro-sannite, od osco-umbre, escludendo il latino ed il venetico, che invece rientrerebbero ambedue nello stesso medesimo sotto-gruppo; ma è ammesso comunemente l’appartenenza di tutte queste lingue al gruppo romanzo), comprendeva il latino-falisco (ulteriormente suddiviso in falisco e latino), l’umbro, l’osco ed appunto il venetico.

Insomma, la lingua degli antichi veneti era, secondo la maggioranza dei linguisti che l’hanno esaminato, una lingua romanza, strettamente apparentata alle altre popolazioni indo-europee della penisola.

Giacomo Devoto, forse il  maggiore linguista italiano mai esistito, e certamente il più autorevole studioso della storia linguistica preistorica italiana, non solo classifica il venetico quale una lingua romanza, ma anche  come la lingua maggiormente vicina a quella latina fra tutte quelle esistenti nell’Italia pre-romana, individuando oltretutto in ciò una conseguenza d’una comune migrazione di paleo-veneti e latini, nel loro spostamento all’incirca dall’odierna Ungheria in direzione dell’Italia, con movimento verso  sud-ovest.

Nella sua opera “Il linguaggio d’Italia. Storia e strutture linguistiche dalla Preistoria ai nostri giorni”,  [Rizzoli, Firenze 1969] presenta tre fondamentali  gruppi linguistici  indo-europei in Italia, rispettivamente quello che comprende il venetico ed il proto-latino (cap. V), gli umbro-sanniti (cap. VI),  ed infine i leponzi, i messapi, i galli (cap. VII).

I primi due gruppi sono accomunati dalla medesima appartenenza al Gruppo Romanzo, fermo restando che la parentale più stretta del venetico è con il latino, mentre il terzo è dato semplicemente dai ceppi indo-europei in terra italiana i quali non sono appunto “romanzi”.

Secondo Devoto, la parentela fra proto-latino e venetico è dovuta  naturalmente alla loro vicinanza etnica originaria, conseguente ad un percorso migratorio comune.

Ad esempio,  in proposito è utile la cartina riportata da Devoto che mostra gli spostamenti delle popolazioni indoeuropee nel II millennio a.C., ed in cui veneti e latini sono mostrati all’interno del medesimo “insieme”; Ibidem, p. 51.

Questi concetti sono ribaditi in un’altra importante opera del medesimo autore, “Gli antichi italici” [Firenze 1969]. Devoto osserva come il venetico mostri caratteri simili  alle lingue italiche e protolatine. (Ibidem, pp. 49 sgg.)

I tre principali  studiosi di lingua venetica sono Michel Lejeune, G. B.  Pellegrini ed Aldo Prosdocimi. Lejeune, in assoluto uno dei maggiori linguisti mai esistiti, è stato un pioniere sia nell’asserire l’appartenenza del venetico al Gruppo Romanzo, ovvero la sua stretta parentela con le lingue degli italici e dei latini, sia nel formulare una categoria che è  stata definita del “pan-italianesimo”, ovvero della comunanza culturale e linguistica fra i diversi popoli  d’Italia prima dell’unificazione romanza, conseguente alla mescolanza etnica fra indo-europei e mediterranei ed alla diffusione culturale.

G. B.  Pellegrini ed Aldo Prosdocimi riconoscono anch’essi la stretta parentela linguistica del venetico con gli altri ceppi indo-europei stanziati in Italia.

D’altronde, Prosdocimi è ancora oggi attivo nel campo degli studi sulla lingua e cultura dei  paleoveneti o veneti antichi ed è convinto sostenitore della stretta parentela linguistica fra latino e venetico, all’interno della comune appartenenza al Gruppo romanzo.

È esistita in passato un’altra teoria sul venetico, che lo faceva rientrare nel “Gruppo illirico”. Questa ipotesi è la più antica, avendo conosciuto una notevole approvazione specialmente nella prima metà del Novecento, ma  appare da tempo piuttosto superata, in seguito all’acquisizione di nuove iscrizioni ed all’ampliamento delle conoscenze su questa lingua.

UlisseNel campo della linguistica italica, infatti,  le acquisizioni  degli ultimi decenni, ottenute grazie alla scoperta ed al reperimento di una gran quantità di epigrafi, hanno comportato per numerose lingue dell’Italia antica profondi e talora radicali ripensamenti, oltre che ad una trasformazione, inevitabile, del quadro linguistico complessivo.

Come osserva sempre Aldo Prosdocimi,  la lingua  dei paleoveneti è nel novero delle lingue che hanno ricevuto, grazie al notevolissimo incremento di conoscenze, una risistemazione, non solo sul piano glottologico in senso stretto, ma persino del proprio alfabeto, di probabile ispirazione etrusca, ma in  seguito condizionato anche da quello latino.

Le posizioni di Aldo Prosdocimi sono sostenute, fra gli altri, anche da Anna Marinetti, forse il maggiore esperto vivente di venetico subito dopo Prosdocimi stesso. 

In  quanto agli  illiri, essi vengono fatti rientrare in un altro “Gruppo”, chiamato “Gruppo Illirico”, che comprendeva la lingua degli illiri, residenti in Dalmazia, e quella dei messapi, popolazione che viveva in Puglia. Nonostante appartengano a due “Gruppi” differenti, pure gli studiosi hanno riconosciuto la notevole vicinanza linguistica e quindi etnica fra veneti da una parte, messapi ed illiri dall’altra.

Si deve ancora aggiungere come certamente il venetico appartenesse al gruppo linguistico romanzo sin da prima dell’insediamento dei veneti in Italia.   Anzitutto,  non esiste alcuna prova che i veneti abbiano  mai parlato una lingua d’un altro “Gruppo”, ciò che sarebbe di per sé sufficiente a scartare un’ipotesi non confermata, mentre l’appartenenza del venetico all’italico è dimostrata.

Inoltre,  è impossibile anche solo supporre una loro progressiva assimilazione al linguaggio Italico una volta pervenuta nella Penisola, poiché né le popolazioni con cui si fusero, né  quelle vicine erano di ceppo Italico. I veneti giungendo nell’Italia  nord-orientale si fusero coi in preesistenti liguri, o meglio i reti, di stirpe mediterranea ovvero pre-indoeuropea.

I territori a nord (odierna Austria) rimasero a lungo di lingua retica, mentre quelli ad ovest (odierna Lombardia) conservarono l’impronta linguistica  ligure, poi furono in parte assimilati  agli etruschi (anch’essi pre-indoeuropei ed affini ai liguri), per poi ricevere l’invasione celtica. A sud, in direzione dell’odierna Emilia, vissero etruschi in pratica sino all’irruzione dei galli (nel V secolo).

Ad est i veneti confinavano con gli illiri, anch’essi non italici per gruppo linguistico.

Sino al momento dell’espansione di Roma verso l’Italia settentrionale, iniziata soltanto nel III secolo a.C., poco prima della seconda guerra punica e secoli dopo l’adozione da parte dei veneti dell’alfabeto, le popolazioni di stirpe venetica erano interamente circondate da popoli di lingua non-italica, ed avevano al loro interno oasi linguistiche pre-indoeuropee, tanto che il retico fu parlato in Veneto sino al I secolo a.C..

Pertanto, le caratteristiche italiche del venetico, attestate da iscrizione risalenti già al VI secolo a.C.,  non possono spiegarsi come esito d’un processo d’assimilazione a stirpi italiche, che rimasero sino all’espansione romana nel Settentrione (intrapresa solo nella seconda metà del III secolo a.C.) confinate al centro-sud, e prive oltretutto di rilevanza economica e culturale (ambedue spettavano piuttosto a greci ed etruschi: si noti come i veneti abbiano costituito il loro alfabeto proprio su imitazione di quello etrusco).

Si deve quindi concludere che, non potendosi spiegare l’appartenenza del venetico al gruppo romanzo-italico come esito d’un influsso culturale da popoli italici confinanti o presenti in loco (erano anzi tutti addirittura pre-indoeuropei, tranne gli illiri sulla frontiera orientale), essa necessariamente deve essere anteriore all’ingresso dei veneti nella Penisola, ovvero costituitasi durante la fase migratoria, compiuta assieme alle  altre stirpi di lingua italica.

In altri termini, poiché tale parentela linguistica non trova  spiegazione in legami e rapporti diretti fra i veneti e gli altri italici (da cui  rimasero totalmente separati in pratica per 1700 anni, dal momento dell’arrivo in Veneto sino alla conquista romana delle attuali Emilia-Romagna e Lombardia!) durante la loro permanenza in Italia, non può che avere avuto origine in precedenza.

Si può  a questo punto notare che i popoli  indoeuropei abitanti nel Vicino Oriente antico nel II e I millennio a.C. appartenevano a “Gruppi” linguistici  diversi da quello “Romanzo” ed “Illirico”, nonché naturalmente da quello “Germanico”, qualora s’accogliesse la teoria del venetico quale lingua germanica.

Il territorio anatolico avevano conosciuto il popolamento, beninteso per quanto concerne le stirpi indo-europee, dapprima degli Hittiti e dei Lidi, poi anche dei Frigi.  Hittiti e Lidi appartenevano al “Gruppo Anatolico”, mentre i Frigi a quello detto “Traco-Frigio”.

La notevole somiglianza e talora coincidenza dei tratti linguistici (fonetici, morfologici e lessicali) tra il latino ed il venetico, dovuta alla loro similitudine strutturale più che ai contatti, è stata supposta fra le cause dell’agevole latinizzazione delle popolazioni venetiche da uno dei maggiori studiosi dell’Italia antica, Aldo Prosdocimi.

[G. Fogolari - A.L. Prosdocimi, I Veneti antichi. Lingua e cultura, Padova 1988; Sulla relativa continuità linguistica nel Veneto, che si è innestata comunque su di una romanizzazione e latinizzazione piuttosto precoci, già dal III secolo avanti Cristo: Varietà e continuità nella storia linguistica del Veneto. Atti del Convegno della Società Italiana di Glottologia, Padova-Venezia 3-5 ottobre 1996, Roma 1998].

 L’ipotesi d’una origine orientale dei paleoveneti è attualmente rifiutata in ambito accademico: «Alla provenienza orientale che appare insistentemente nelle saghe degli storici antichi – tipica è quella antenorea – [per spiegare l’origine dei Veneti] è comunque preferibile pensare a una migrazione dall’Europa centrale […] secondo vari indici fornitici dagli studiosi di preistoria e dai linguisti» [G. B. Pellegrini, “Dal venetico al veneto. Studi linguistici preromani e romanzi”, Padova, 1991, p. 6.] Tale opinione è condivisa in modo praticamente unanime dagli storici contemporanei, come, fra gli altri, Giacomo Devoto, Agnes Rouveret, Michel Lejeune.

Il mito della separatezza etnica e culturale dei veneti antichi, legata ad una presunta origine dal Vicino Oriente, è quindi una vera e propria costruzione mitologica. Anche nel caso dei paleoveneti si ritrova pertanto quella appartenenza ad un insieme di culture fra loro apparentate ed affini che era l’Italia preromana.

 

 

 

Bibliografia di approfondimento:

Oltre alle opere ed agli autori sopra citati, sugli argomenti suddetti si possono consultare:

 A. L. Prosdocimi, Alfabetari e insegnamento della scrittura in Etruria e nell'Italia antica (con M.Pandolfini);Firenze Olschki 1990.

Prosdocimi A.L. [e.a.], Popoli e civiltà dell'Italia antica. VI. Lingue e dialetti, Roma, 1978, soprattutto pp. 9-62, il capitolo VI e la sintesi di p. 585.

L.Del Tutto Palma-A.L.Prosdocimi-G-Rocca, Lingue e culture intorno al 295 a.Cr.: tra Roma e gli Italici del Nord, in La battaglia del Sentino (Atti del Convegno, Camerino-Sassoferrato, 10-13 giugno 1998), Roma 2002, pp.407-663.

A. Marinetti, Venetico 1976-1996. Acquisizioni e prospettive, in Protostoria e storia del “Venetorum angulus”, Atti del Convegno di Studi Etruschi ed italici (Portogruaro-Altino-Este-Adria, 16-19 ottobre 1996), Firenze 1999, pp.391-436.

 A. Marinetti,Venetico: rassegna di nuove iscrizioni (Este, Altino, Auronzo, S.Vito, Asolo) , in “REI” XXX, “Studi Etruschi” LXX, 2004.

Giacomo Devoto, Il linguaggio d'Italia, Rizzoli, Milano, 1974, pp. 56-58.

Sulla figura e le opere di Michel Lejeune, si è svolto addirittura un convegno di studi.

Cfr. A. Prosdocimi Michel Lejeune. L’Italie antique et autre chose encore, in Hommage rendu a Michel Lejeune, Academie des Inscriptions et Belles Lettres (Parigi, 19 gennaio 2001), Parigi 2001, pp.33-41.

In generale, per chi desideri confrontarsi con gli insegnamenti di Lejeune, grande sostenitore dell’unità culturale dell’Italia pre-romana.

Sul venetico, cfr. di M. Lejune:  “Les inscriptions vénètes”, Trieste 1965; “Les urnes cinéraires inscrites d’Este”, in “Revue des Etudes Latines”, 31 (1953), pp. 117-174.

G. B.  Pellegrini ed Aldo Prosdocimi sono, fra l’altro,  autori dell’opera  La lingua  venetica, Padova-Firenze 1967.

L’opera  è in verità un poco data, poiché, per le ragioni suddette, 40 anni non  sono pochi, per uno  studio condotto sulla base di dati archeologici, nel frattempo  accresciutisi, ma rimane comunque il  testo più importante mai scritto sulla lingua degli antichi veneti. riconoscono anch’essi la stretta parentela linguistica del venetico con gli altri ceppi indo-europei stanziati in Italia.

 

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