Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Napoli 1799. Come un impostore diventò generale della controrivoluzione e barone

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E’ noto come il cardinale Fabrizio Ruffo fece leva su uomini di ogni risma per convincerli a seguirlo allo scopo di stroncare, con le potenze inglesi, turche, svizzere e russe, la Repubblica Napoletana del 1799. Promise, infatti, a tutti coloro che avrebbero combattuto al suo fianco “ i beni dei patrioti, il saccheggio delle città e delle terre che facessero loro resistenza”.

Accorsero numerosi avidi di sangue e di danaro, ma la circostanza di come un impostore “di pessima reputazione” diventò “generale” dell’esercito di Ruffo e barone è proprio un caso esemplare di quando la farsa si fa storia.

Con sei emigranti corsi, della sua stessa reputazione, fuggiti da Barletta, Giovan Battista De Cesare, si diresse verso Taranto e da qui l’8 febbraio 1799 verso Brindisi, ove giunse insieme ai suoi compagni sei giorni dopo.

Speravano i sette d’imbarcarsi per Corfù o per Trieste. Identificati dai soldati repubblicani, quali Giovan Battista De Cesare, Francesco Boccheciampe, Casimiro Raimondo Corbara, Ugo Colonna, Lorenzo Durazzo, Stefano Pittaluca e Antonio Guidone, dovettero rinunciare all’imbarco e così decisero di proseguire il viaggio a piedi.

Si fermarono nel villaggio di Monteasi, ove dissero che tra di essi, persone di nobile lignaggio, vi era il principe ereditario. Trovarono così alloggio “da una vecchia donna”, la quale corse a riferire il tutto ad un suo parente, Gerunda detto Buonafede, uomo il cui cognome contraddiceva il suo modo di essere. Infatti costui pensò subito di spargere la notizia nel territorio di Monteasi, senza accertarsi dell’identità dei sette impostori.

In breve tempo l’arcivescovo di Taranto fu informato, ma l’impostura fu smascherata , la qual cosa fece sì che i sette abbandonassero la diocesi di Taranto.

Tuttavia il Gerunda, detto Buonafede, pensò di sfruttare la falsità, diffondendo la notizia che il principe ereditario era stato inviato da suo padre per raccogliere fondi ed organizzare la ribellione della popolazione a lui fedele. Cosi giunti nei pressi di Brindisi, il falso principe e la falsa compagnia di nobili furono accolti dai reazionari sanfedisti che si stavano organizzando contro la Repubblica Napoletana.

Quando a Brindisi s’incontrarono con le due principesse di Francia, zie di Luigi XVI, dissero che tale farsa era “a favore della causa regia”. Le principesse non furono entusiaste, ma non si opposero all’impostura. Così il finto principe Casimiro Raimondo Corbara, insieme ai suoi due compagni “vicario Boccheciampe” e Giovan Battista De Cesare, nominato comandante della truppa, tenne un consiglio con la reazione regia da cui si decise di raggiungere Corfù, ove un esercito Turco- Russo li attendeva per la riconquista del Trono di Napoli, abbattendo così la Repubblica.

L’improvvisato esercito diventò sempre più numeroso anche a seguito dell’appoggio dell’arcivescovo Capocelatro che avallò la farsa, scrivendo una lettera alla regina Maria Carolina con la quale chiedeva di “informare il sovrano che la sola premura di rimettere il Regno sotto la Regia obbedienza era lo scopo della rappresentazione”.

Oltre ad avallare la farsa, l’arcivescovo sostenne l’impresa , offrendo “un soccorso di mille e più ducati”.

La farsa era andata a buon fine e non si aveva più bisogno del finto principe ereditario. La truppa di Giovan Battista De Cesare era diventato un vero e proprio esercito, aiutato dall’armata Turco- Russo. Riuscì, pertanto, a conquistare Martina e poi Acquaviva, lasciando quest’ultima città repubblicana in cenere. Quindi si mise in marcia verso Bari, mentre Boccheciampe si diresse verso Brindisi ove trovò la morte in battaglia.

La buona sorte arrise al “comandante- principe ereditario” Giovan Battista De Cesare e al Buonafede che faceva parte del suo esercito. Quando raggiunsero l’armata reazionaria del cardinale Fabrizio Ruffo, l’impostore “di pessima reputazione” Giovan Battista De Cesare ebbe il grado di “Generale” e successivamente il titolo di Barone. Buonafede, invece, dovette accontentarsi solo dei galloni. Tipici esempi di nobiltà borbonica.


Bibliografia:

Camillo Albanese- Cronache di una rivoluzione- Franco Angeli - 1998

 

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