Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Napoli 1656: peste e condanne capitali

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Il medico della pesteIl 1656 fu per Napoli un anno terribile, sulla città iniziò a gravare l’ombra minacciosa della peste. Secondo alcuni testimoni di quei giorni, furono dei soldati spagnoli provenienti dalla Sardegna a portare il morbo nella città ai primi giorni di gennaio.

Uno di essi fu ricoverato nell’ospedale dell’Annunziata, dove gli venne diagnosticata la peste dal medico Giuseppe Bozzuto, ma quando costui diede l’allarme, fu imprigionato e messo a tacere perché, a parere del vicerè García de Avellaneda y Haro, Conte di Castrillo, il medico aveva diffuso notizie false.

Bozzuto morì di peste in carcere, ma i suoi colleghi, onde evitare di finire anch'essi imprigionati, non denunciarono la malattia, tantomeno provvidero a distruggere tutto ciò che era appartenuto ai deceduti.

E così il morbo si diffuse rapidamente  e con esso le credenze sulla sua origine: secondo alcuni erano stati gli spagnoli a portare la peste in città per punire i napoletani per la sommossa del ’47 capeggiata da Masaniello. Secondo altri la punizione era divina, ed a questa si aggiungeva la profezia di un nuovo diluvio universale e della fine del mondo con il passaggio della cometa del 1653.

Grave colpa delle autorità vicereali fu quella di permettere un massiccio esodo da Napoli verso le province. Almeno una terza parte della popolazione era fuggita, contribuendo al diffondersi dell’epidemia in ogni terra del Regno.

Solo negli ultimi dieci giorni di maggio l’epidemia fu ufficialmente riconosciuta e fu costituita una Deputazione della Salute.

Tra i primi provvedimenti  fu istituito un cordone sanitario con la proibizione per chiunque di entrare o uscire da Napoli senza i “bollettini di sanità” firmati dai Deputati della salute. Poi fu utilizzato come lazzaretto l’ospedale di S. Gennaro ubicato vicino alla chiesa della Sanità,  facilmente raggiungibile da ogni quartiere e più vicino alle grandi caverne dove venivano seppelliti i morti.

Somme considerevoli vennero spese per comprare medicinali, quali aceto e verderame per disinfettare tutto ciò che veniva toccato, sedie per trasportare gli ammalati e tela per fabbricare cappucci e lenzuola.

Misure drastiche furono istituite per i trasgressori. Misure drastiche, ossia la pena di morte.

Non fu certo in quell’occasione che la pena di morte fu risparmiata ad una popolazione già decimata dalla letale epidemia. Centinaia di persone finirono al patibolo per reati quasi sempre presunti e disperatamente confessati sotto tortura.

Valeva molto poco la vita umana. Durante i secoli del vicereame il Regno di Napoli fu flagellato dalle condanne capitali. Se ne contano a migliaia. Bastava aver proferito una calunnia o una falsa dichiarazione per finire afforcati o ancora peggio alla “ruota”.

Quest’ultima era una delle pene più dolorose: il condannato veniva  legato per i polsi e le caviglie ad una grande ruota e con una mazza gli venivano rotti gli arti. Poi gli veniva dato un colpo di grazia sullo sterno, provocandone la morte. In altri casi invece veniva lasciato vivo per ore esposto al pubblico prima di essere ucciso. In alcuni casi sotto la ruota del supplizio venivano messe delle punte su cui gli arti del condannato, durante la rotazione, venivano lacerati, inducendo così la morte per dissanguamento.

Non fu, dunque, la peste del 1656 a rendere più indulgenti i vicerè di Napoli che, soprattutto dopo i moti del 1647, mandarono al patibolo centinaia e centinaia di presunti ribelli.

Fu quello un periodo storico di grandi fermenti rivoluzionari da parte di un popolo colonizzato dalla Spagna e pertanto schiacciato dal peso delle tasse e dalla politica di autorità sanguinarie: carestie, miserie, sopraffazione e la sordida falce dell’inquisizione. Inquisizione e superstizione raggiunsero l’apice.

Dai registri dei monaci della Compagnia Napoletana dei Bianchi della Giustizia emerge un panorama sociale cupo ed avvilente. Durante la peste del 1656 si racconta di una povera mendicante che, creduta untrice dal popolo superstizioso,  fu trascinata per le strade, dilaniata e poi bruciata viva, e così chiunque fosse sospettato di aver sparso “polvere velenosa” per infettare la città. Non si cercava la causa della peste, bensì il colpevole.

Quattrocentosessantamila furono le vittime della epidemia, secondo la stima dei Bianchi, e tutti seppelliti nelle cave sotterranee: la più famosa Cupa Lautrec, nella zona in seguito indicata con il nome del cimitero del Pianto e della Pietà, e l’altra sottostante il “Rione Mater Dei”, detta Grotta delle Fontanelle.

Terribile  la scritta posta sulla lapide che faceva da sigillo Tempore pestis 1656 - Non aperietur .

 

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