Il fallibilismo è inevitabile
E’ possibile tracciare una linea di demarcazione netta tra ontologia ed epistemologia? Per quanto attraente tale prospettiva possa sembrare di primo acchito, essa si rivela assai difficile da perseguire per chiunque intenda esplicitare la distinzione tra la dimensione ontologica e quella epistemologica senza partire da dogmi precostituiti. E a questa constatazione si deve inoltre aggiungere che, almeno per quanto ci riguarda, il mondo appare caratterizzato da una “opacità ontologica” che rende davvero ardua la costruzione di una ontologia assoluta come quella ricercata dai sistemi metafisici del passato. Tutto ciò ha ovviamente conseguenze rilevanti sulla questione del realismo scientifico e sul dibattito realismo/antirealismo, oggi fiorente tanto in filosofia della scienza quanto nel pensiero analitico e post-analitico. Si può per esempio ammettere che vi sia una distinzione tra il mondo naturale da un lato e quello linguistico-sociale dall’altro. Tuttavia, non dovrebbe risultare difficile comprendere che storicamente abbiamo cominciato ad identificare noi stessi e gli oggetti che ci circondano solo quando il mondo linguistico-sociale è emerso da quello naturale, il che significa che gli stessi nostri criteri di identificazione sono, in larga misura, socio-linguistici. Si noti che una simile constatazione non implica affatto - come alcuni autori contemporanei sostengono - l’identità totale tra i due mondi. Più semplicemente, essa ci porta a concludere che del mondo naturale in se stesso, pur accettandone l’esistenza indipendente dalla mente, possiamo dire ben poco. Siamo insomma autorizzati a supporre che una linea di confine tra ontologia ed epistemologia davvero esista, ma al contempo si deve notare che, per quanto riguarda noi esseri umani, una tale distinzione è meno importante di quanto si riteneva in passato. La ragione fondamentale di questo stato di cose è data da un duplice fatto. Da un lato la concettualizzazione è la nostra via d’accesso al mondo, e dall’altro essa costituisce pure la caratteristica più importante della nostra evoluzione culturale (in quanto distinta dalla - anche se non estranea alla - evoluzione biologica). Ciò non significa sminuire l’importanza di quest’ultima, che è connessa al mondo naturale e senza dubbio precede l’evoluzione culturale dal punto di vista cronologico. Ma è pur sempre l’evoluzione culturale che ci differenzia in modo primario da tutti gli altri esseri viventi che con noi condividono l’ambiente fisico. Se sembra piuttosto assurdo ipotizzare che la mente produca la realtà naturale, assai meno azzardata appare la tesi secondo cui questa stessa realtà è da noi percepita mediante il filtro di un apparato concettuale, il quale è a sua volta cresciuto in sintonia con lo sviluppo del linguaggio e dell’organizzazione sociale. E’ proprio questo il motivo che impedisce la distinzione netta tra ontologia ed epistemologia di cui dicevo dianzi. Si può per esempio sostenere che il compito dell’ontologia sia quello di scoprire quali tipi di enti formano il mondo (“ciò che vi è,” per usare un’espressione di Quine), mentre quello dell’epistemologia è accertare quali siano i principi mediante cui giungiamo a conoscere la realtà. Tuttavia risulta ovvio che, se il nostro apparato concettuale è al lavoro anche quando cerchiamo di aprirci la strada verso una realtà non concettualizzata, il nostro accesso a questa stessa realtà presuppone comunque il coinvolgimento della mente. Per esprimerci in termini leggermente paradossali, si può anche affermare che una realtà non concettualizzata altro non può essere che un’immagine della mente (anche se questo, lo ripetiamo ancora, non significa affatto negarne l’esistenza). Ciò che si cela dietro questo (apparentemente banale) interrogativo è, in realtà, la questione del pluralismo ontologico, il quale a sua volta è diretta conseguenza dell’ammettere o meno l’esistenza di modi più o meno alternativi di concettualizzare il mondo. La questione venne compresa in tutta la sua portata già agli inizi del secolo scorso da William James il quale, nel corso di una conferenza tenuta nel 1907 alla Columbia University di New York, affermò che è possibile (e lecito) immaginare universi alternativi a quello che conosciamo: ad esempio, un universo in cui l’interazione causale potrebbe non esistere. Nella medesima occasione il pensatore pragmatista definì il “vero assoluto” (vale a dire ciò che nessuna esperienza successiva potrà modificare) come il “punto di fuga” ideale verso cui immaginiamo che debbano convergere un giorno tutte le nostre verità provvisorie. E’ tuttavia ovvio che tale giorno non è specificabile, ragion per cui altro non possiamo fare che vivere nel presente, con ciò che di vero abbiamo a disposizione oggi. La conclusione è che le grandi teorie scientifiche (e metafisiche) del passato furono certamente strumenti adeguati per secoli, ma ciò non ci impedisce (o, almeno, non “dovrebbe” impedirci) di vedere che quei limiti sono stati oltrepassati dalla nostra esperienza. Le cose che in passato si ritenevano assolutamente vere si sono poi dimostrate vere soltanto in riferimento ai limiti di cui sopra, lasciandoci quindi in balia dell’inquietante sensazione che verità e relativismo, lungi dall’essere incompatibili, costituiscano in realtà due facce della stessa medaglia. Ma i limiti stessi sono, in fondo, casuali e contingenti, e nessun elemento aprioristico impediva ai nostri antenati di superarli. Se accettiamo sino in fondo queste premesse, dobbiamo anche ammettere che chiunque abbia un’esperienza della realtà sostanzialmente differente dalla nostra è, per forza di cose, portato a “concepire” la realtà in modo diverso. Possiamo quindi immaginare esseri intelligenti la cui cornice concettuale e categoriale conduce a una visione del mondo che ha ben poco a che fare con la nostra. Gli oggetti e gli eventi presenti nel loro modo di esperire il mondo circostante potrebbero differire da quelli per noi usuali in misura tale che i loro predicati avrebbero domini non paragonabili ai nostri. Qualcuno potrebbe obiettare che in questo contesto ci stiamo muovendo a livello di esperimenti mentali, la cui importanza non dovrebbe essere sopravvalutata. Tuttavia, è un dato di fatto che gli esperimenti mentali giocano un ruolo fondamentale tanto in filosofia quanto nella scienza. Senza dubbio essi si situano su un piano puramente ipotetico, ma sono anche in grado di proiettarci nella dimensione della possibilità (consentendoci di gettare lo sguardo su come il mondo potrebbe essere stato, potrebbe essere, o potrà essere in futuro). Ed è questa una delle caratteristiche più specifiche del nostro rapporto con il mondo, la quale è strettamente associata all’evoluzione che in precedenza ho definito “culturale”.
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