Voltaire, Trattato sulla tolleranza

Categoria principale: Storia
Categoria: Storia XVIII sec.
Creato Lunedì, 10 Novembre 2014 18:54
Ultima modifica il Lunedì, 10 Novembre 2014 18:55
Pubblicato Lunedì, 10 Novembre 2014 18:54
Scritto da Giovanni Cardone
Visite: 6722

Voltaire"Il diritto dell'intolleranza è assurdo e barbaro: è il diritto delle tigri; anzi è ben più orrido, perché le tigri non si fanno a pezzi che per mangiare, e noi ci siamo sterminati per dei paragrafi." 

Lo scritto di Voltaire sulla tolleranza - un gioiello di spirito e di saggezza - è senza dubbio tra le opere più singolari del grande scrittore francese, ed è anche tra quelle che più contribuirono, in Francia e in Europa, a procurargli quella fama di combattente contro le ingiustizie e le infamie del fanatismo clericale, che superò anche quella di filosofo e letterato.

Ci saranno sempre dei barbari e dei bricconi che fomenteranno l'intolleranza . Noi siamo stati contagiati a tal punto da tale furia che, nel corso dei nostri lunghi viaggi, l'abbiamo portata in Cina, nel Tonchino, in Giappone.

Abbiamo impestato quei bei climi. I più indulgenti fra gli uomini hanno imparato da noi a essere i più inflessibili. Noi abbiamo detto loro innanzitutto, come premio per la loro buona accoglienza: Sappiate che noi siamo, sulla terra, gli unici ad aver ragione e che dappertutto dobbiamo essere i padroni.

Allora siamo stati scacciati per sempre; sono scorsi fiumi di sangue; questa lezione avrebbe dovuto correggerci.  A leggere il primo capitolo di questo fulmineo libretto, ci si trova subito immersi in un'atmosfera da fiction criminale. Al centro della trama, uno "strano affare di religione, di omicidio, di parricidio".

Dove si tratta di scoprire se i genitori avevano strangolato il proprio figlio. Se un fratello aveva assassinato suo fratello. Se un amico aveva ucciso l'amico. Se i giudici erano responsabili di aver fatto morire sulla ruota un padre innocente. O viceversa di aver risparmiato una madre, un fratello e un amico colpevoli. Si dà il caso, però, che gli eventi narrati non siano frutto di finzione ma realmente accaduti.

Come realissimo è lo scenario del loro svolgimento: la Tolosa cattolica dell'anno 1762. Dove lo stesso fanatismo popolare che due secoli prima aveva sortito il massacro di quattromila eretici si scagliava adesso contro il negoziante protestante Jean Calas, spingendo i giudici a condannarlo a morte per l'assassinio di un figlio che aveva manifestato l'intenzione di convertirsi al cattolicesimo.

Ma quando, poco tempo dopo l'esecuzione, si provò che il presunto omicidio era stato in realtà un suicidio, apparve in tutta la sua gravità la violenza del pregiudizio di cui era rimasto vittima il vecchio commerciante calvinista.

Il merito della riabilitazione di Calas - ottenuta attraverso una dura e tenace lotta - va ascritto per l'appunto al narratore dei fatti in questione: FrançoisMarie Arouet, già celebre a quel tempo in tutta Europa con il nome di Voltaire (anagramma di Arouet le Jeune).  Fu così che, appena conclusasi la campagna per la riabilitazione con la vittoria del partito philosophique, il più famoso dei philosophes decise di assumere quell'episodio come caso esemplare dello "spirito di intolleranza". 

Singolare ventura, quella dei classici: divenire universalmente noti, restando tuttavia sconosciuti. Neppure un testo rapido, teso e lampeggiante come il Traité sur la tolérance (1763) di Voltaire sembra essere sfuggito a tale destino: almeno a giudicare dai malintesi incresciosi e dalle paurose semplificazioni a cui l'idea di tolleranza è ormai soggetta, non solo ad opera dei suoi detrattori ma dei suoi stessi apologeti.

Chiunque lo rilegga o vi si accosti per la prima volta oggi - a tre secoli dalla nascita dell'autore e a duecentotrentun anni dalla sua prima pubblicazione - s'imbatterà con stupore in motivi del tutto diversi da quelli immaginati o coniati ad arte da certi attualissimi portaparola di un antilluminismo di maniera. Nulla del suprematismo filooccidentale oggi in voga. Nulla dell'orgogliosa contrapposizione di "noi" agli "altri".

Nulla della presuntuosa rivendicazione dei principî della "civile" Europa contro gli "incivili" extraeuropei. L'atto d'accusa del philosophe è tale da non lasciar margine ad equivoci: siamo piuttosto noi, gli europei, ad aver seminato tempeste trapiantando il seme dell'intolleranza nelle altre culture. Colpisce in Voltaire la latitudine come la longitudine dello sguardo, la vasta veduta comparativa come l'ampio arco diacronico in cui inserisce il suo discorso: mai astrattamente moralistico o pedagogicamente tedioso, ma sempre prodigo di esempi e affollato di casistiche ("alla maniera degli inglesi", di cui egli era all'epoca uno dei più sviscerati estimatori).

Capiamo, leggendolo, quanto abbiamo perduto, nel corso degli ultimi due secoli, con la nostra idea, enfaticamente eurocentrica, d'Europa: con il nostro narcisistico "riflettere" su apogeo e tramonto, zenit e nadir del Vecchio Continente.

Dalla miriade di argomenti e di spunti che fa da contrappunto alla polemica volterriana spiccano - quali centri gravitazionali - due motivi dominanti. Il richiamo costante agli "altri", innanzitutto: sublime tecnica del distanziamento, dove il rimando a culture lontane (nello spazio o nel tempo) funge da specchio ustorio da rivolgere contro noi stessi, per marcare a fuoco le miserie della Civiltà, per denunciare guasti e corruzioni della nostra condizione presente. E, in secondo luogo, l'insistenza sulla "debolezza della nostra ragione": isola in un oceano di conflitti, di tribolazioni e di mali che nessuna teodicea, nessun provvidenzialismo storico, è in grado di "spiegare".

Motivi tipici, com'è noto, di quella riflessione matura di Voltaire che ha inizio immediatamente dopo la rottura con Federico di Prussia e, prendendo le mosse dalla "crisi dell'ottimismo" innescata dal terremoto di Lisbona (il Poème sur le désastre de Lisbonne appare nel 1756, seguito nello stesso anno dal monumentale Essai sur les moeurs et l'esprit des nations e tre anni dopo dal "guizzante" Candide), finirà per situarsi in precario equilibrio sul crinale dell'epoca: tra le illusioni riformatrici del periodo precedente e gli esiti rivoluzionari della temperie successiva. Vediamo, allora, di fissarne i tratti salienti, così come balenano in rapporto al tema della tolleranza.

La tolleranza si pone per Voltaire - non altrimenti che per i suoi due grandi predecessori in materia, Locke e Bayle - in primo luogo come problema religioso: poiché religiose sono le radici ultime dell'intolleranza. Sarebbe fatale, ancor prima che ingenuo, sorvolare su questo aspetto riconducendolo "storicisticamente" alle particolari condizioni di un'epoca ormai lontana, ignara delle conquiste evolutive dei nostri civilissimi sistemi democratici. È appena sufficiente dare uno sguardo all'attuale scena mondiale, per accorgersi di quanto ingiustificato e fuori luogo sia l'edificante ottimismo radicato in tale credenza.

All'esigenza di ripensare le origini del fenomeno dell'intolleranza, non malgrado ma proprio in ragione del crollo dei Muri e dei Blocchi Ideologici che hanno fino a ieri diviso il mondo, ci richiamano oggi aspramente sia i conflitti etnici che dilaniano le regioni dell'Esteuropa, sia le sempre meno latenti tensioni interculturali che attraversano le democrazie nordamericane. Di tutte le forme di intolleranza - ha affermato qualche tempo fa un filosofo poco incline alle seduzioni dell'ideologia come Alfred Ayer - l'intolleranza religiosa è quella che ha causato il maggior danno.

Ma è anche - ha aggiunto - quella più difficile da spiegare. E inspiegabile puntualmente risulta agli occhi dello stesso Voltaire. O, almeno, del Voltaire in questione: non il Voltaire - per intenderci - ancora ottimistico e in fondo provvidenzialistico di Zadig (1748), ma il Voltaire di Candide (1759), il Voltaire del dopoterremoto, dentro la cui curva pessimistica va oggi inquadrato e riletto questo Trattato sulla tolleranza.

Logicamente inspiegabili, irriconducibili a qualsivoglia "ragion sufficiente", le scaturigini dell'intolleranza possono tuttavia - anzi debbono - divenire oggetto di racconto, di ricostruzione storica: benché quest'ultima non possieda più, agli occhi del philosophe, le prerogative di "legge" o di chiave privilegiata di conoscenza, quanto piuttosto la funzione, eminentemente pratica, di rappresentazione catartica volta a suscitare un sentimento di orrore e di repulsione nei confronti del male radicale che sembra avvolgere, in un involucro spesso e straniante, le umane vicende e il mondo. In quale altro senso, del resto, potrebbe leggersi la magistrale chiusa del Candide: "il faut cultiver notre jardin"?

Non il finale consolatorio suggeritogli dal maestro può concedersi l'ormai disincantato allievo di Pangloss: "Leibniz non può aver torto, e d'altra parte l'armonia prestabilita è la cosa più bella del mondo: tanto quanto il pieno e la materia sottile".

Ma solo un'ironica ritirata ai margini dell'abisso, dopo le tante peripezie e visioni di sciagure occorsegli in rapida serie come - per dirla con Italo Calvino - in un "gran cinematografo dell'attualità mondiale": dai "villaggi massacrati nella guerra dei Sette Anni tra prussiani e francesi (i "bulgari" e gli "àvari")" al terremoto di Lisbona, dagli autodafé della Santa Inquisizione all'esperimento dei gesuiti del Paraguay, da Costantinopoli alle mitiche ricchezze degli Incas, per tacere dei flash "sul protestantesimo in Olanda, sull'espandersi della sifilide, sulla pirateria mediterranea e atlantica, sulle guerre intestine del Marocco, sullo sfruttamento degli schiavi negri nella Guiana, lasciando un certo margine per le cronache letterarie e mondane parigine e per le interviste ai molti re spodestati del momento, convenuti al carnevale di Venezia".

Questa visione di un "mondo che va a catafascio" - sono sempre parole di Calvino - "in cui nessuno si salva in nessun posto, se si eccettua l'unico paese saggio e felice, El Dorado", sembra relegata sullo sfondo del testo sulla tolleranza: specialmente là dove si affidano le sorti "al regime della ragione, che lentamente ma infallibilmente illumina gli uomini". E tuttavia sarebbe fuorviante assolutizzare questo aspetto, che in Voltaire appare controbilanciato e in costante tensione con il polo precedente: il lume razionale, lungi dal costituire uno stabile faro, non è che una conquista precaria, una flebile scintilla nelle tenebre.

Anche nel Trattato, l'ossessiva serialità del male ritorna - come l'inquietante affiorare di ciò che era prima latente o "rimosso" - nella scena influente che sta alle spalle degli ordinamenti civili faticosamente conseguiti: il lungo e tormentato periodo delle guerre civili di religione. È a quella scena che Voltaire allude quando afferma che gli uomini d'Europa "hanno già avuto da molto tempo il loro inferno in questa vita".

Ed è dal timore che quella condizione di assoluta precarietà e incertezza possa ripresentarsi che egli trae il suo decisivo argomento a favore della tolleranza.  Argomento storico, prima ancora che logico. Va ravvisata qui la distanza di Voltaire dai maestri di disincanto che lo precedono: dal "saggio Locke" allo stesso Pierre Bayle, da cui pure egli mutua le principali ideeforza della sua opera demitizzatrice.  

Anche Voltaire, come Locke, motiva la propria opzione per la tolleranza con il ricorso al cosiddetto argomento "latitudinario", già prefigurato da Ockham e propagato durante i conflitti religiosi dagli anabattisti e, in particolare, dai sociniani (gruppo di riformati italiani fortemente avversati dallo stesso Calvino).

Come nella celebre novella dei tre anelli di Boccaccio (Decameron, 28) si attribuivano uguali chances di salvezza a cristiani, ebrei e maomettani, così il "latitudinarismo" fondava (ad onta di ogni controversia teologica) la necessità di una pacifica coesistenza delle fedi sul nucleo di religione naturale ad esse comune. Proprio con un analogo richiamo alla religione naturale, del resto, Jean Bodin (nel Colloquium heptaplomeres del 1593) e Ugo Grozio (nel De jure belli ac pacis del 1625) avevano fondato l'esigenza di una "pace religiosa", approfondendo e radicalizzando gli argomenti a favore della tolleranza in precedenza avanzati da autori come Marsilio da Padova, Giacomo Aconcio e Michel de Montaigne.

Mentre tuttavia in Locke (Epistola sulla tolleranza, 1689) l'argomento latitudinario veniva piegato - in stile prettamente puritano - al rigoroso principio logico della distinzione tra politica e morale religiosa (tra sfera pubblica del "corpo politico" e sfera "privata" e "metapolitica" della coscienza interiore, nella quale "il magistrato non deve ingerirsi"), con la conseguente limitazione del diritto di tolleranza, da cui venivano esclusi sia gli atei che i "papisti", bollati come sudditi di un sovrano straniero (con effetti storici - Irlanda docet - tutt'altro che trascurabili), in Voltaire invece quello stesso argomento viene opportunamente trasvalutato alla luce dell'esperienza storica concreta.

È grazie a una contestualizzazione storicopragmatica, e non ad un astratto criterio logico, che Voltaire può ravvisare la sola possibile soluzione al problema della tolleranza nella promozione e nel mantenimento di un ampio assetto "pluralistico" delle credenze:

"Quante più sono le sètte, tanto meno ciascuna setta è pericolosa. La molteplicità le indebolisce". Appare così in tutta la sua vuotezza il pregiudizio che vorrebbe l'illuminismo pervicacemente ostile alla storia. Ma qui è bene ancora specificare.  La "storicizzazione" operata da Voltaire ha poco da spartire con le visioni unitarie (lineari o cicliche, evolutive o dialettiche) della Storia universale a cui l'Ottocento ci ha assuefatti.

Lungi dall'assolutizzare la Ragione dell'Occidente con le sue sorti magnifiche e progressive, la volterriana philosophie de l'histoire è disposta come un tabulato a entrature multiple aperto alla comparazione tra le culture: non per caso essa, nel costituirsi in antitesi al piano provvidenzialistico del Discours sur l'histoire universelle di Bossuet, include come prima tappa della trattazione la Cina, proprio allo scopo di "screditare la tradizione biblica della creazione" (K. Löwith).

Invertendo lo schema teologicostorico imperniato sull’"asse" giudaicocristiano, Voltaire giunge ad affermare la superiorità della storia cinese su quella ebraica e a contrapporre alle "favole" del profetismo la sobria saggezza confuciana: non per nulla teneva appesa nella sua camera da letto un'effigie di Confucio recante la scritta (ironica, ma non troppo)  Sancte Confuci ora pro nobis. non è certo difficile - alla luce della documentazione prodotta da numerosi studi - mettere a nudo lacune e limiti del "comparativismo" di Voltaire, già rispetto alle conoscenze del suo tempo: dal pregiudizio antiebraico al mito libertino del "cinese saggio", trasmessogli da La Mothe le Vayer (che aveva accostato Confucio a Socrate) e dallo stesso Bayle.

E tuttavia non è adottando la chiave filologicostorica che si rende piena giustizia all'operazione volterriana. Ma piuttosto comprendendone la funzione critica - ad un tempo polemica e relativizzatrice - nei confronti della cultura occidentale: non era stato forse Montaigne il primo ad invocare la saggezza cinese per criticare la società del suo tempo?

Solo tenendo presente questo sfondo è possibile afferrare - aldilà di ogni evidente forzatura - i dispositivi di comparazione, opposizione e distanziamento che vediamo puntualmente all'opera in questo Trattato: dove l'elogio della presunta tolleranza di altre culture (come Cina e Giappone) o di passate civiltà (come Grecia e Roma) funge da paragone ellittico per rimarcare le radici irrimediabilmente autoctone della nostra propria intolleranza. Radici che Voltaire scorge - ed è qui forse il tratto di maggiore novità e intensità della sua tesi - nella logica (tendenzialmente assolutistica) dei monoteismi:

"Lo dico con orrore, ma la cosa è vera: noi, cristiani, noi siamo stati persecutori, carnefici, assassini!". Ragion per cui la sola cura possibile di questo male - mai sradicabile una volta per tutte, in quanto insito nella naturale inclinazione umana alla credulità e al "fanatismo" - è rappresentata, come si è in precedenza visto, da una frammentazione delle fedi e da una pluralizzazione delle confessioni religiose. 

Malgrado l'affiorare qua e là di accenti più ingenuamente ottimistici (la fiducia - ad esempio - che la Borsa e la generalizzazione degli scambi favoriscano una graduale attenuazione dei conflitti), i destini della tolleranza restano per Voltaire appesi a un esile, e tuttavia irrinunciabile, filo. Affidati, cioè, al sentimento di debolezza - non certo alla presunzione di forza - della nostra ragione: "Che cos'è la tolleranza? L'appannaggio dell'umanità", si legge nell'articolo "Tolérance" del Dizionario filosofico.

"Noi siamo tutti impastati di debolezze e di errori.  Perdoniamoci reciprocamente le nostre sciocchezze: è la prima legge di natura". È il caso di riflettere - avviandoci alla conclusione - sul rigore e sull'eleganza di questa formula: La tolleranza è una conseguenza necessaria della nostra condizione umana. Siamo tutti figli della fragilità: fallibili e inclini all'errore. Non resta, dunque, che perdonarci vicendevolmente le nostre follie. È questa la prima legge naturale: il principio a fondamento di tutti i diritti umani.

Il fatto che un filosofo come Karl Popper abbia, in anni recenti, avvertito il bisogno di ritrascriverla più o meno in questi termini, assimilandola al suo "fallibilismo", testimonia della straordinaria vitalità della definizione volterriana di tolleranza. Vitalità straordinaria, ma al tempo stesso dal sapore paradossale, in quanto pienamente comprensibile solo oggi: dopo la crisi delle idee di Progresso e di Storia orientata, maturate in una fase successiva a quella in cui Voltaire visse e operò.

E tuttavia Popper è consapevole che la ripresa di quella formula deve fare i conti con uno scenario radicalmente mutato: nelle odierne società democratiche, al problema della tolleranza religiosa si affianca il problema della tolleranza politica e ideologica. Voltaire, inoltre, non poteva prevedere che in tali società "sarebbero sorte delle minoranze che accettano il principio di intolleranza". Muovendo da queste premesse Popper (e, sulla sua scia, tutta una nutrita schiera di autori) pone una questione cruciale per il funzionamento dei sistemi democratici: la questione dei limiti della tolleranza.

Problema cruciale, ma per nulla nuovo: se lo ponevano già con chiarezza Locke e Rousseau. E cos'altro adombrava, se non la questione dei limiti, il finale dell'articolo "Tolleranza" dell'Encyclopédie, con il monito a non confondere tolleranza politicoreligiosa e tolleranza speculativa: ossia la "perniciosa indifferenza" di cui parlava Bayle (e che Popper chiamerebbe invece "relativismo")? Ma a questo punto occorre porsi un ulteriore, e più radicale, interrogativo: se è vero che lo scenario è mutato nei termini sopra indicati, ha ancora un senso mantenere il termine "tolleranza"? Abbiamo tutti presente il dibattito suscitato sul finire degli anni Sessanta dalla tesi della "tolleranza repressiva" prospettata da Herbert Marcuse.

Si tratta di un tema solo in apparenza datato: il suo nucleo argomentativo, in realtà, riaffiora periodicamente sotto mutate (o mentite) spoglie. Pochi si sono accorti, però, che il nucleo centrale di quella tesi era stato già compiutamente enunciato nel 1789 da Mirabeau all'Assemblea Nazionale francese:

"La parola tolleranza mi sembra essa stessa tirannica,  poiché l'esistenza dell'autorità, che ha il potere di tollerare, attenta alla libertà di pensiero per il fatto stesso che essa tollera, e che dunque potrebbe non tollerare più". Un passo avanti verso un ulteriore approfondimento del tema ci porterebbe ad affermare che la tolleranza presuppone sempre un'autorità fuori discussione: se io ti tollero, ti "sopporto", ciò significa che vi è da parte mia un atteggiamento di tacita condiscendenza, dietro il quale si cela una radicale svalutazione della portata di "verità" della tua posizione.

Lungo questa via, i gruppi sociali che operano all'interno delle società democratiche dell'Occidente sono venuti gradualmente spostando l'asse delle proprie rivendicazioni dal piano "verticale" della lotta per la tolleranza al piano "orizzontale" della politica del riconoscimento. Ma, nel frattempo, è radicalmente mutata la natura dei "soggetti": non più soltanto gruppi religiosi o aggregazioni sociali e politiche di interessi, ma identità collettive (etniche, culturali, di genere), il cui agire sottopone a tensione le tradizionali sfere liberaldemocratiche della "cittadinanza".

Esse non si limitano a rivendicare maggiore partecipazione e inclusione procedurale negli istituti dell'universalismo democratico, ma chiedono di essere riconosciute nella loro irriducibile autonomia e differenza specifica. Percorrendo questo asse - si diceva - il baricentro del conflitto si è sempre più decisamente spostato (in specie negli Stati Uniti e nel Canada del politically correct) dal tema della tolleranza a quello del rispetto.

Sarebbe un'acquisizione rilevante, se dietro la preoccupazione per il riconoscimento non si annidassero i rischi di una nuova intolleranza: indotta, questa volta, non da un potere assoluto, paternalistico o illiberale, ma dalla latente ostilità tra differenze "blindate", che si rapportano le une alle altre come monadi senza porte né finestre, intenzionate soltanto a rigorizzare i codici della "correttezza" demarcando nettamente i confini delle rispettive sfere di appartenenza.

Per questa via paradossale il problema della tolleranza, apparentemente superato sotto il profilo di una logica verticale dell'autorità, ritorna in primo piano nei termini inediti di un'orizzontalità del conflitto culturale, che minaccia di assumere gli accenti fondamentalistici delle vecchie guerre di religione.

E, in questa temperie, rileggere il vecchio Voltaire, riacclimatarsi con la suprema ironia che alimenta la sua rilevazione impietosa del potere, delle ingiustizie e dei mali del mondo equivale forse a una salutare boccata d'ossigeno.