Benevento 1566. La rivolta della città “viziosa” e “peccatrice”

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Pio VIl primo aprile del 1566 Papa Pio V emanava una bolla rivolta alla città di Benevento per denunciare la mancata osservanza dei culti e delle festività e la condanna dei peccati di bestemmia, simonia, sodomia e concubinato. Tale bolla è conosciuta con varie denominazioni: Cum primum apostolatus, Bolla de la Inquisitione o semplicemente Bolla de Vitii.

Più che la semplice moralizzazione dei costumi, in effetti vi erano implicazioni di carattere politico ed economico per cui i Beneventani subirono pesantemente la Bolla che li accusava di aver violato “ordinationes circa observantia divini cultus in ecclesiis, et venerationem festivitatem”. Essa rimarcava, inoltre, un necessario provvedimento “contra simoniacos, blasphematores, sodomitas et concubinarios”.

Se lo status di énclave d’appartenenza allo Stato della Chiesa procurava, nella metà del Cinquecento, determinati privilegi alla città di Benevento, nel contempo essa era di fatto esclusa dal contesto territoriale circostante, specificamente con il territorio, la cultura e le istituzioni del limitrofo Regno di Napoli. Con la bolla De Vitii, la Chiesa intendeva a livello politico  ribadire anche l'assolutismo della sua monarchia su un territorio confinante con il Regno di Napoli.

I cittadini di Benevento si mostrarono subito preoccupati della determinazione con cui Pio V intendeva punirli. Vi era, inoltre, da parte dei Beneventani, il timore fondato dell’introduzione dell'inquisizione  “al modo di Spagna” nel proprio territorio. Infatti la Bolla di Pio V del primo aprile del 1566 stabiliva che "non solum per accusationem et inquisitionem, sed etiam ad simplicem et secretuam denunciationem procedatur" . Quindi anche una semplice denuncia segreta avrebbe condotto qualsiasi persona davanti ad un tribunale.

Proprio nel ricorso alla denuncia segreta era paventato dai Beneventani un enorme danno all’economica cittadina, a causa del clima di sospetto che avrebbe scoraggiato i forestieri ad investire nel proprio territorio. Infatti, a pochi giorni dall’emanazione della Bolla papale si registrarono sensibili cali nelle vendite da parte delle botteghe cittadine.

Se lo zelo moralizzatore di Pio V, già emerso nell’operato svolto a capo della Congregazione del Sant’Uffizio, trovò la sua massima espressione con la sua ascesa al soglio pontificio con l’intenzione di punire peccati “ nefandi ed ignominiosi”, nei Beneventani emerse sempre di più l’indignazione per la pubblicazione di un documento che, mettendo in dubbio la moralità dei fedeli, macchiava l’onore della città, additando un’intera comunità che non riteneva di meritare l’applicazione di un provvedimento giudicato adatto “ai giudei, ai turchi, ai mori, piuttosto che ai boni christiani”.
I Beneventani riuscirono a ritardar di alcuni mesi la Bolla papale tramite numerose lettere inviate alla curia romana, ma, allorché l’affissione del provvedimento fu eseguita il 3 luglio del 1566, il documento fu subito strappato dalla porta della cattedrale.

Scoppiarono gravi disordini e tumulti nella notte stessa e la ribellione si evolse rapidamente, essendo la popolazione chiamata alle armi dal martellante suono della campana, dall’affissione di cartelli che incitavano alla rivolta in punti nevralgici della città e in “pasquinate” che ridicolizzavano l’atteggiamento della curia romana.
La rabbia degli insorti si scagliò dapprima contro il rappresentante dell’autorità arcivescovile, considerato l’artefice dell’odiata affissione. Il secondo bersaglio della rivolta fu il rappresentante provinciale del governo pontificio, che era tenuto a concordare con il vicario arcivescovile le modalità dell’affissione della Bolla papale.

Le maggiori ostilità dei tumultuanti proseguirono progressivamente contro gli amministratori locali, accusati di essere arrendevoli e proni alla volontà dei vertici romani e soprattutto di non aver coinvolto tutti i cittadini mediante l’indizione di un Consiglio Generale.
La situazione precipitò quando i Consoli, il luogotenente del Governatore ed il Vicario arcivescovile dovettero barricarsi in casa, mentre i drappelli di Beneventani armati si moltiplicavano.

In effetti, dopo il primo tumulto della notte tra il 3 e il 4 luglio 1566, indirizzato soprattutto a colpire il rappresentante dell’Arcivescovo cui era spettata l’affissione della Bolla, la protesta si estese alle massime autorità dell’amministrazione civile, i Consoli, affinché si adoperassero in maniera fattiva per ottenere da Roma una revoca della Bolla papale, ma i Consoli si mostrarono succubi della volontà della curia romana. Così la domenica del 14 luglio 1566 si scatenò un secondo e più violento tumulto.

Mentre i Consoli si preparavano all’adunanza di un Consiglio civico “ordinario”, ove avrebbero comunicato la propria adesione al volere delle autorità romane, la città insorse per la seconda volta nel primo pomeriggio del 14 luglio e la furia della rivolta fu indirizzata ai rappresentanti cittadini in quanto  il vicario vescovile e i luogotenente del governatore rappresentavano l’emanazione di un bieco ed autoritario potere centrale, mentre i Consoli si confermavano quali pavidi complici della politica romana, quali ignavi servitori del governo centrale.

I rivoltosi riuscirono ad ottenere la convocazione di un Consiglio generale, ma la reazione del Governo centrale non si fece attendere.

Il giorno successivo alla prima convocazione del Consiglio generale, il Nunzio, al comando di una compagnia di “lanzi tedeschi, spagnoli et italiani” si mostrò ben determinato nell'inquisire e punire i ribelli.

Mentre molti rivoltosi riuscirono a fuggire, soprattutto rifugiandosi a Ceppaloni, a ben 45 cittadini inquisiti venne consegnato un mandato di comparizione entro sei giorni, pena la confisca di tutti i loro beni, la demolizione delle loro case ed esilio perpetuo.

Le esecuzioni capitali dei primi giorni di settembre furono il segnale che si era determinati a ribadire duramente il potere della curia romana sull’énclave di Benevento tramite l’individuazione dei sediziosi, l’accertamento delle responsabilità, facendo uso della tortura, e la severa punizione dei colpevoli.

Nel corso dei processi, gli inquisitori si mostrarono interessati a conoscere la provenienza sociale degli insorti, rilevante per i giudici che volevano la conferma che non si fosse trattato di una vaga sollevazione di generica matrice popolare e intesero in tal modo rilevare quale fosse stato il livello di partecipazione degli operatori finanziari, dei titolari di attività artigianali e commerciali e soprattutto l’entità di partecipazione della nobiltà.

D’altronde la curia romana era ben consapevole che, con una bolla così dura, si andava ad intaccare l’élite finanziaria e commerciale beneventana nei propri rilevanti interessi economici, e quindi si mostrava ben cosciente delle implicazioni politiche ed economiche del provvedimento

La vicenda si concluse nell’anno successivo con la condanna della città di Benevento al pagamento di una cospicua ammenda pecuniaria e ad un prolungato mantenimento degli acquartieramenti militari inviati per controllare una città che si era mostrata orgogliosamente ribelle.

 


Bibliografia:

Maria Anna Noto- Viva la Chiesa, mora il tiranno- Guida- 2010

 

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