Gaetano Filangieri, l'illuminista napoletano
Gaetano Filangieri, giurista e pensatore politico (Napoli 1752 - Vico Equense 1788). Terzogenito di Cesare, principe di Arianello; alfiere nell’esercito borbonico (1766-69), lasciò poi il grado per darsi agli studi e, per breve tempo (1774), all’avvocatura. Concepì allora il disegno di ridurre la legislazione a unità di scienza normativa, e lo tradusse poi in atto nella Scienza della legislazione (8 voll., 1780, 1783, 1785, 1791). L’opera propone riforme in materia di procedura penale, lotta contro i residui di feudalità, prospetta un sistema di educazione pubblica d’ispirazione platonico-rousseauiana, pone l’esigenza, ancor prima dei legislatori della Rivoluzione francese, di una codificazione delle leggi. In economia Filangieri, sotto l’influsso, oltre che di Genovesi, di Verri e dei fisiocratici, convinto dell’importanza fondamentale dell’agricoltura, propugnò la rimozione di ogni ostacolo giuridico, fiscale ed economico al suo sviluppo e alla libertà del commercio dei suoi prodotti e sostenne l’imposta unica sul prodotto della terra. Tali proposte, conformi ai postulati fondamentali dell’Illuminismo, soprattutto francese (mentre l’omaggio reso a Vico risulta in fondo esteriore), spiegano la fortuna dell’opera di Filangieri , e le traduzioni che se ne fecero in tedesco, francese, spagnolo, inglese e svedese, nonché le polemiche che l’accolsero (tra l’altro, nel 1784 fu posta all’Indice). All’opera di Filangieri, inoltre, si richiamarono gli uomini della Repubblica napoletana del 1799 per promuovere le riforme che solo in parte riuscirono a realizzare. Nel 1822 apparve una ristampa della prima traduzione francese della Scienza della legislazione, con ampio commento di B. Constant, che polemizzava con Filangieri da un punto di vista liberale. Per la grande notorietà l’opera ebbe numerose edizioni, per lo più parziali e poco attendibili; venne valutata la migliore delle ristampe ottocentesche quella del 1864 con discorso proemiale di Pasquale Villari. Solo negli anni Ottanta del 20° sec. apparve un’edizione che riproponeva La Scienza della legislazione di Filangieri con il Commento sulla Scienza della legislazione di B. Constant, e che comparava le più importanti edizioni con revisione critica dei testi (2 voll., a cura di V. Frosini e F. Riccobono, 1984). Nel 1999 è stato pubblicato il carteggio Il mondo nuovo e le virtù civili: l’epistolario di Gaetano Filangieri 1772-1788 . Agli albori della consacrazione dei diritti individuali, in un’Europa scossa dai tremiti rivoluzionari nel cuore del secolo dei lumi,faceva il suo ingresso la monumentale opera di Gaetano Filangieri “La Scienza della Legislazione” che per la prima volta osava argomentare sul rapporto necessario tra morale e politica,rinnegava ad un tempo la concezione ereditaria della nobiltà e la natura arbitraria del regime feudale,l’inammissibile privilegio del maggiorascato, l’eccessiva concentrazione della ricchezza a tutto danno delle libertà individuali,con ciò effondendo il seme della genesi del moderno pensiero repubblicano e costituzionale europeo. Ai Martiri della Repubblica Partenopea del 1799, primo fra tutti il giurista Mario Pagano, non fu certo estraneo l’insegnamento del Filangieri, accomunati a quest’ultimo dal medesimo afflato riformistico. E dunque se è lecito intravedere nelle drammatiche vicende della effimera Repubblica Partenopea, il primo segno della nuova Italia, non può non scorgersi nel crogiuolo di idee riconducibili alla “Scienza della Legislazione” uno straordinario laboratorio dei postulati politici, economici e sociali della modernità al quale, ancor oggi, è bene, di tanto in tanto, ritornare per ravvivare il senso della comune Storia e la purezza dei concetti della tradizione democratica italiana. Alle sua pagine, pur imprescindibilmente figlie del loro tempo e certo non esenti da fisiologiche Incompiutezze, è lecito tributare, ancor oggi, sincera gratitudine. Quanto profonda ed estesa l’eredità di questi insegnamenti nell’attuale congerie politico- sociale dei tempi moderni? Quanto è ancora possibile fare per rivitalizzare questo patrimonio immenso, salvaguardandolo dall’usura dei secoli? Sicuramente non poco perché le idee, prima che nelle menti degli uomini albergano nei loro cuori e nelle loro passioni civili e umane. Una delle chiavi d’accesso alla grandezza del pensiero giuridico di uomini come Filangieri e Pagano, passa attraverso l’introduzione da essi operato, di un lessico nuovo ed in quanto tale “rivoluzionario”. Espressioni come “società civile, repubblicanesimo, sovranità popolare, costituzione, cittadinanza” che oggi appaiono patrimonio comune di ogni ordinamento democratico (ma che nondimeno meriterebbero ogni opportuna rivitalizzazione per non risultare, nella sostanza, desuete e stantie), furono pronunciate, illustrate e propagate in una realtà politica assolutistica, ben lontana dalle conquiste postume e dove il linguaggio stesso della dimensione del potere, era volutamente oscuro e inattingibile. Infatti, solo attraverso la consacrazione iniziatica di un sistema di valori a cui veniva ricondotto il fondamento stesso dell’idea di giustizia ed a cui era delegato il compito di investigare e teorizzare, a nome di una indebita “communis opinio”, in punto di sovranità e diritto, si è potuto costruire il presupposto ideologico di una onnipotente “scientia iuris”, espressione di una ristretta classe di potere. Ora, il primo colpo inferto da questa ristretta pattuglia di illuministi, fu quello di contestare in radice il concetto che il sistema valoriale della società risiedesse nel sapere esclusivo dei giureconsulti, pietra angolare su cui si fondava il potere assolutistico non solo, si badi bene,dei monarchi, quanto delle classi intermedie che egualmente esercitavano una influenza dominante nella società. In buona sostanza,le opere del pensiero giuridico illuministico del tardo settecento,contribuirono in modo determinante a cogliere la natura astutamente politica e fittiziamente tecnica della cd. giustizia, per come veniva comunemente rappresentata. In questo contesto si inscrive il primo, nobile tentativo di ridisegnare il concetto di sovranità “ex parte civium”, contrastando l’arbitrio dei giudici. E’ evidente che l’assenza di una codificazione esaustiva o almeno embrionale, rendeva ardua la tutela delle posizioni soggettive, tant’è che appaiono emblematiche le considerazioni di Giuseppe Maria Galanti che nel suo “Testamento forense” (in appendice alla “Descrizione dello stato antico e attuale del Contado del Molise”) , stigmatizzava l’egemonia dei giuristi, affermando che “tutto è incertezza, contraddizione, arbitrio.La nostra miseria è tale che non possiamo possedere facoltà, senza dipendere da Tribunali”. Una causa civile è, per lo più, un arcano”. Per conseguenza, andavano introdotte, secondo il Filangieri, il principio di uniformità ed eguaglianza, ridimensionando il ricorso al meccanismo equitativo, veicolato, ostentatamente, attraverso lo strumento dell’interpretazione e l’obbligo della motivazione che doveva richiamarsi alle leggi, in sintonia con il principio di eguaglianza tra gli uomini. Orbene, per giungere ad un simile straordinario conseguimento, sarebbe stato necessario, non solo smantellare l’eresia di un asserito (ma indimostrato) ”consensus gentium”, a fondamento dell’ordine giudiziario, riconducibile agli evanescenti concetti della tradizione e dei costumi originali della nazione, ma occorreva porre mano e scolpire un nuovo protagonista della Storia,”il giurista filosofo” che non privilegiasse, nell’esercizio della sua funzione, solo l’erudizione, ma andasse umilmente alla ricerca delle leggi universali dell’uomo, allo studio dei principi secolarizzati e verificabili da chiunque ed in ogni momento, attraverso lo strumento precipuo della “Ragione”, non più mitizzata e non più espressione di un ristretto gruppo sociale elitario. A fronte di tale preziosa intuizione, l’ordine giudiziario avrebbe dovuto assolvere ad una funzione altrettanto centrale e tuttavia servente, divenire cioè esecutrice delle norme di questa rinnovata specie di leggi, di vera e universale giustizia. La “Scienza della legislazione”, per certi versi, si giovò degli eventi rivoluzionari americani perché essa incarnò alcune delle felici intuizioni del Filangieri, attestando la concretezza e vitalità del modello politico teorizzato. Non fu solo in gioco, nella vicenda americana, la pur legittima ribellione al dominio inglese, ma il riconoscimento dei diritti dell’uomo e degli ideali illuministici continentali. Il più celebre dei rivoluzionari americani,Thomas Jefferson, ebbe ad affermare: “Noi riguardiamo come verità evidenti per se stesse che tutti gli uomini sono stati creati eguali, che hanno ricevuto dal loro Creatore certi diritti inalienabili,che nel numero di questi diritti sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità, che per assicurare tali diritti sono istituiti i governi fra gli uomini e che non traggono il loro giusto potere fuorché dal consenso di coloro che sono governati ed ogni volta che una forma di governo diventa distruttiva di detti fini, il popolo è in diritto di alterarla o di abolirla e di istituire un nuovo governo con stabilire i suoi fondamenti sopra altri principi e con organizzare il suo potere con la forma che gli parrà la più propria per ottenere la sua sicurezza e felicità”. Questi primi conseguimenti d’oltreoceano, dettero la stura anche in Italia a fenomeni, almeno in parte, emulativi, quanto meno, sotto il profilo culturale, favoriti da una sia pure embrionale diffusione a mezzo stampa di tali eventi. In America essi approdarono alla realizzazione del cd. Governo rappresentativo,espressivo della sovranità popolare, rafforzato da un costituzionalismo fatto di testi scritti e deliberati dai Congressi delle tredici repubbliche, con chiara enunciazione delle categorie dei diritti inalienabili e incomprimibili ad opera del potere legislativo. La fama del Filangieri, alimentata anche attraverso i suoi rapporti personali con Franklin, Laband e Dupaty, si espanse non poco nei circoli internazionali e così anche grazie al suo capolavoro. In tale contesto, tra i primi in Europa, propugnò quale correttivo “all’incostanza della Costituzione”, la necessità ineludibile di individuare le “leggi fondamentali”destinate a prendere il posto del cd. ”Costituzionalismo consuetudinario” che aveva legittimato storicamente la teorica degli “status”. Non v’è dubbio che di fronte all’eccezionale configurarsi del potere costituente del popolo sovrano in America, la fortuna ideologica del filosofo Filangieri, tracimò senza più argini. Il suo modello di Carta costituzionale coincideva con un “piccolo codice a parte delle leggi Fondamentali che determinassero la vera natura della Costituzione, i diritti e i limiti dell’autorità di ciascheduno dei tre corpi e non ammettessero né interpretazione, né ambiguità. In questo codice ci dovrebbero essere solo le vere leggi fondamentali, non già quelle alle quali abusivamente si è dato questo nome; la legislazione, io lo ripeto, non deve né può distruggere la Costituzione, deve solo riparare ai suoi difetti. Si è detto che il diritto di alterare o di mutare le leggi fondamentali che la determinano non si può togliere al Congresso senza distruggere la natura stessa della Costituzione. Bisogna dunque rendergliene difficile l’uso”. Occorreva dunque proteggere dagli interventi manipolativi del Parlamento, esposto al variare delle maggioranze, il “piccolo codice delle vere leggi fondamentali”. “Questo si può ottenere, scrive Filangieri, determinando che allorché si tratta di alterare, abolire o creare una legge fondamentale, non basti la pluralità dei suffragi per ammettere la novità che si propone di introdurre nella Costituzione; ma che si debba richiedere la pienezza dei voti per renderla valida e legittima. Questo rimedio non toglierebbe all’Assemblea quel diritto che non può mai perdere, ma garantirebbe, al tempo stesso, la Costituzione dalle continue vicende che la rendono pericolosa e incostante”. Ciò premesso, terreno di scontro ideologico sul piano della configurazione di un nuovo modello di assetto del potere, fu la teoria propugnata nell’Esprit des lois, da Montesquieu dei cd. ”Corpi cetuali intermedi” che avrebbero dovuto, secondo l’avviso del grande filosofo francese, mitigare le derive dispotiche delle monarchie. Trattandosi, com’è evidente, di una discutibile prospettazione di costituzionalismo di “ancien regime”, tesa essenzialmente, non già a garantire un sia pur limitato accesso e tutela di diritti fondamentali, quanto preservare i privilegi di ristrette oligarchie sociali. Filangieri ebbe dunque l’ardire, cogliendo forse anche lo spunto della lettura di Adamo Smith del 1776 (“Sulla natura e sulle cause della ricchezza delle nazioni”), di farsi portavoce dell’istanza di rafforzare quel “ceto mezzano” escluso dalla titolarità della piccola proprietà a beneficio esclusivo, fra l’altro, oltre che della nobiltà feudale, anche delle enormi ricchezze degli ecclesiastici. “Togliete prima di ogni altro la primogenitura e i fedecommessi. Sono queste le cause delle ricchezze esorbitanti di pochi e della miseria della maggior parte”. Una simile intuizione scatenò una violenta reazione articolata sul concetto che solo la nobiltà avrebbe potuto fare argine, da un canto, allo sviluppo della tirannide, ma altresì alla possibile affermazione di un’anarchia dei governi popolari. E pure, nell’ottica del Filangieri, era questa e non altra la strada obbligata per conseguire l’obiettivo della conquista dei diritti della libertà civile, superando i privilegi cetuali che attribuivano ai corpi intermedi, frammenti della sovranità e abbattendo quel mostruoso sistema di “giustizia feudale” che legittimava i baroni persino alla nomina del magistrato cui spettava fare le indagini e giudicare sui reati che avvenivano nel feudo, così relegando quest’ultimo al ruolo di “miserabile e vile mercenario del barone”. In questo solco non reggeva, al lume dell’analisi critica, l’affermazione secondo cui la giurisdizione feudale discendeva dal potere sovrano del re, atteso che per il Filangieri, non vi era dubbio che il monarca non era il proprietario assoluto, ma il semplice amministratore della sovranità. All’ombra di un siffatto e così rinnovato sistema di potere, ai cittadini, è dato di vivere: ”tranquilli sotto la protezione delle leggi…questa tranquillità è quella che chiamasi libertà civile, vera e unica libertà che possa conciliarsi con lo Stato sociale”. Nessun privilegio di nascita poteva essere accordato ai corpi intermedi, magistrati e nobiltà dovevano rispondere personalmente del loro potere politico (“Le ricompense sono dovute alle azioni, le cariche al talento ed al merito. Un figlio può avere diritto a ritirare le ricompense ottenute dal padre, ma potrebbe avere diritto ad ereditare le sua cariche?”). Tutto lo sforzo concettuale del Filangieri fu, dunque, rivolto, più che all’analisi astratta della natura del potere, alla determinazione dei suoi limiti, ex parte civium, alle modalità di esercizio dell’autorità, più che all’individuazione del soggetto titolare della sovranità. Egli ebbe modo di affermare che “un’autorità esorbitante data ad un cittadino in una repubblica è il peggiore dei mali: essa fa una monarchia o peggio di una monarchia. In tutte la cariche la legge deve compensare l’estensione del potere con la brevità della sua durata”. Il grande oggetto della legislazione è di unire “gli interessi privati con i pubblici; l’unico mezzo per riuscire in questa intrapresa nei governi liberi era di dare al popolo la distribuzione delle cariche”. Orbene, pur considerando le simpatie chiaramente repubblicane del Filangieri, egli prendeva atto di vivere in una realtà politica contraddistinta dal potere assolutistico e tuttavia a cagione di tale ineludibile ragione storica, rimetteva alla nascente opinione pubblica, supportata dal progressivo e impetuoso sviluppo dell’Illuminismo di filosofi e letterati, il compito di preparare il terreno di una radicale metamorfosi politica. Perché un simile correttivo potesse effettivamente operare erano necessarie almeno due condizioni: l’Istruzione e l’Educazione del popolo e la garanzia della libertà di stampa. Il Filangieri affermava: “Vi è un Tribunale che esiste in ciascheduna Nazione che è indivisibile perché non ha alcuno dei segni che potrebbero manifestarlo ma che agisce di continuo e che è più forte dei magistrati e delle leggi, dei ministri e dei re, che può essere pervertito dalle cattive leggi o reso giusto e virtuoso dalle buone, ma che non può né dalle une né dalle altre, essere contrastato e dominato. Questo Tribunale che col fatto ci dimostra che la sovranità e’ costantemente e realmente nel popolo,questo Tribunale è quello dell’opinione pubblica” A sostegno di un simile convincimento, militava la diffusa consapevolezza che era ormai al Tramonto, nella seconda metà del 700, l’idea di una realtà fissa ed immobile e che i mutamenti del potere costituito erano più che mai nell’ordine naturale delle cose. La dimensione giuridica quindi, anche al di là della posizione del Montesquieu, non poteva essere esaminata come un dato definitivo da indagare e comprendere in quanto tale. Era necessario quindi indagare sul concetto di giustizia senza preconcetti e arbitrarie concessioni agli “arcana iuris” (“Le leggi sono le formule che esprimono i patti sociali”). “Io chiamo bontà assoluta delle leggi la loro armonia con i principi universali della morale. Il diritto della natura contiene i principi immutabili di ciò che è giusto ed equo in tutti i casi”. Il Filangieri era altresì conscio che i predetti principi, almeno in parte, potevano essere mutuabili dalle radici cristiane degli ordinamenti esistenti per poi essere canalizzati nel prodotto legislativo, la cui dimensione, è bene sottolineare, rimaneva comunque storica e transeunte e quindi revocabile dalla volontà dell’uomo (“Io non scrivo per i solitari né per gli oscuri misantropi”). Siamo forse in presenza di una utopia, tuttavia ragionevole che teneva in debito conto la storia concreta dei popoli ai quali, in certa misura andava adattata, anche alla luce dei grandi principi del giusnaturalismo (“La migliore legislazione è quella che è più adatta allo stato della nazione; chi potrà mai dubitare che la migliore legislazione di questo mondo può divenire la peggiore e che la più utile per un popolo in un tempo ,potrà divenire la più perniciosa?”.) Il predetto assunto avvalora ancor più la convinzione che il Filangieri non era affatto assertore di una forma specifica di governo, ma, per converso, priorità assoluta del suo magistero erano i concetti di società civile, diritti dell’uomo e giustizia. In questo solco si colloca la sua proposta di procedere alla creazione di una nuova magistratura:”il Censore delle leggi”, composto dai “più savi e illuminati cittadini dello Stato” cui sarebbe spettato il compito di indicare al legislatore quando una legge cominciava ad essere “in contraddizione coi costumi, col genio, colla religione, colla opulenza della Nazione”. A tale magistratura era anche affidato l’onere di vagliare l’organicità e l’efficacia dell’intero corpus legislativo, stigmatizzando, se del caso, “l’immenso numero delle leggi che opprimono i Tribunali e che rendono lo studio della giurisprudenza simile a quello delle cifre dei cinesi”. In tal modo la legislazione “di continuo riparata avrebbe potuto acquistare un certo grado di stabilità e perfezione atta a garantirla dagli insulti del tempo”. Certo tale magistratura non avrebbe avuto che carattere consultivo, non potendo abrogare concretamente alcuna legge e, tuttavia, cominciava a farsi largo per la prima volta, l’idea di una possibile distinzione tra leggi fondamentali e ordinarie (le prime racchiuse nel cd. “piccolo codice a parte delle vere leggi fondamentali”) e tra esercizio della sovranità popolare e Costituzione, come tale incomprimibile. Antesignano, nel cuore del 700, della tesi filosofica dell’innatismo del principio di egualitarismo, fu Rousseau, il primo a sostenere che la storia della disuguaglianza costituiva il segno caratteristico, sempre più marcato, dell’evoluzione della società moderna, della sacralizzazione del diritto di proprietà, del monopolio arbitrario della ricchezza e di un asserito progresso economico che sempre più avvelenava il mito del “buon selvaggio”, ossia di una condizione di natura originaria ove, di contro, l’uomo era legittimato ad esprimere la propria creativa personalità ed a perseguire la felicità. In verità, il repubblicanesimo già manifestava il suo vigore alla metà del 700, ma è indubbio che con Rosseau poteva avvalersi di più potenti argomentazioni filosofiche. Certo, non mancavano a fare da contraltare a tali rivoluzionarie aperture, letture più moderate e conservatrici. Il Filangieri non condivideva il mito del “buon selvaggio” e tuttavia non rinnegava, certo, il principio dell’eguaglianza morale di tutti gli uomini in ogni momento dell’evoluzione storica. Ed era giustappunto la società civile, sin dal suo sorgere, l’entità chiamata a garantire tale sistema di valori. Essa, interpretando e sviluppando la legge naturale, era chiamata a fissare i diritti e a regolare i doveri “prescrivendo le obbligazioni di ciascun individuo con la società intera e con i membri che la componevano”. Ne scaturiva, come corollario che la ricchezza corrompe un popolo unicamente quando essa è ingiustamente e non equamente ripartita e per raggiungere un tale obiettivo non era certo auspicabile imporre con la violenza “l’eguaglianza precisa delle fortune e dei fondi, quanto piuttosto favorendo in ogni modo una equabile diffusione di danaro, evitando la riunione di questo tra poche mani e garantendo le condizioni sociali necessarie alla pratica delle virtù civili, intese come libera partecipazione alla vita della comunità ed impiegando tutte le armi possibili per ridurre le diseguaglianze e le sue più drammatiche conseguenze”. In tal guisa si ponevano le condizioni per pervenire alla creazione di un solido edificio legislativo, suffragato da codici normativi chiari e idonei a regolare ogni aspetto della società civile e del mercato, senza obliterare il primato dei diritti individuali. La nuova arte del buon governo, come ebbe ad osservare anche il Genovesi, doveva trovare le fondamenta morali necessarie per superare definitivamente la Ragion di Stato, non arrestandosi neppure di fronte alla dura realtà sociale, continuando piuttosto a nutrire una ragionevole utopia. L’assunzione di un simile orizzonte imponeva, altresì, la consacrazione del diritto alla partecipazione alla vita della comunità, nelle forme e nei modi più appropriati (“Questo dovere è quello di contribuire, per quanto ciascheduno può, al bene della società alla quale appartiene ed il diritto che ne dipende è quello di manifestare alla società stessa le proprie idee che crede conducenti o a diminuire i suoi mali o a moltiplicare i suoi beni”), perché era ormai maturo il tempo di una rivisitazione dell’uso dell’opinione pubblica e di un concetto di res pubblica, come entità a sé stante e comunque diversa dallo Stato assoluto. “Che ne sarebbe di noi se i colpi arbitrari dell’Autorità onnipotente appena scagliati, non incontrassero mille penne ardite che li manifestino a tutti i popoli insieme con l’ignominia dei loro autori?” Per la prima era lecito teorizzare un ordine giuridico in cui le differenze, benché ineliminabili, potevano pervenire ad una attenuazione, senza che venisse richiamato come unico criterio regolatore, l’appartenenza all’ordine nobiliare e cetuale od il patrimonio accumulato, ma piuttosto, in una qualche misura, il talento naturale e la virtù individuale. Così, in tal guisa, tutelando l’eguale diritto a eleggere e ad essere eletti. (“Nelle monarchie occorre assegnare alcune cariche per quei cittadini che avran prestati alcuni servizi alla patria: cosa che avviene in Cina, paese in cui ogni virtù reca qualche vantaggio, ogni talento utile diviene dominante, dove la nobiltà non è solo una rimembranza ereditaria ma una ricompensa personale; dove colui che ha lumi e virtù, è sicuramente preferito a colui che non ha altro che avi illustri e dove non è il solo arbitrio del principe, non sono i favori di un cortigiano, né la cabale o gli intrighi della corte, ma la legge è quella che distribuisce le cariche”). Il filosofo napoletano nella rappresentazione del suo modello di società ebbe altresì a teorizzare il valore della “felicità” individuale; invero, esso già apparteneva al lessico illuministico e del resto la Dichiarazione di indipendenza americana nel 1776, aveva posto tale valore tra i diritti inalienabili dell’uomo, collocabile sullo stesso piano del diritto alla libertà e alla vita. Dunque si era in presenza, non già di un aspetto individuale ed interiore di ricerca soggettiva del piacere, ma della consacrazione di un bisogno umano il cui soddisfacimento era funzionale ad una vita libera e dignitosa in una moderna società civile e dunque di un vero e proprio fatto sociale e politico, con forte impronta economica. Conseguentemente veniva posto con vigore il postulato di un diritto di eguaglianza alla ricerca della felicità trasversale a tutte le classi sociali e che si sostanziava nella possibilità di soddisfare le proprie legittime aspettative di vita (“Quando ogni cittadino di uno Stato può, con un lavoro discreto di 7 od 8 ore per giorno, comodamente supplire ai bisogni suoi e della famiglia, questo Stato sarà il più felice della Terra, egli sarà il modello di una società ben ordinata; in questo Stato finalmente non ci sarà l’eguaglianza delle facoltà che è una chimera, ma l’eguaglianza della felicità in tutte le classi. Assicurare una equabile diffusione di danaro la quale evitando la diffusione di questo tra poche mani, cagioni un certo agio comune, istrumento necessario per la felicità degli uomini”). Dunque, l’eguaglianza era il viatico primario verso il conseguimento del diritto alla felicità e tuttavia tale obiettivo non poteva compromettere il sacro diritto della proprietà che pure, a sua volta, generava la condizione stessa di cittadino. Nessuna concessione fece al riguardo il Filangieri in merito all’utopia comunista della comunione dei beni, ma spese, per converso, ogni sforzo, per teorizzare una politica legislativa e costituzionale atta a favorire la piccola proprietà e nel contempo a favorire l’eliminazione delle manimorte, dei maggiorascati, dei diritti feudali, dei privilegi e dei monopoli anche in ambito ecclesiastico. Un ruolo assolutamente centrale in questa direzione era rappresentato dalla riforma fiscale e dai meccanismi di giustizia redistributiva. Del resto, il terreno era stato, sul piano del contributo di idee, ampiamente fecondato da altri illuministi, come il Genovesi, il Doria, il Broggia che avevano proposto la liquidazione di ogni esenzione, suggerendo forme di tassazione di tipo progressivo sui redditi. Il Filangieri propugnava essenzialmente un sistema di tassazione diretta, atteso che acutamente rilevava che le tasse sui consumi colpivano indiscriminatamente l’intera collettività, deprimendo i meccanismi di produzione della ricchezza. In un’epoca preindustriale, egli coraggiosamente propose una tassa progressiva sul ricavo delle proprietà fondiarie, asserendo che i fondi andavano tassati proporzionalmente al loro prodotto netto. La storia del diritto e l’esegesi dei suoi passaggi evolutivi non è sempre mero esercizio retorico o semplice cronaca retrospettiva e la Scienza della legislazione rappresenta una conferma evidente della sorprendente attualità del pensiero filangeriano. L’elaborazione del concetto di democrazia in un’epoca contrassegnata dall’assolutismo, ha rappresentato un’intuizione sicuramente dirompente e si è spinta fino al punto di affermare che il sovrano è solo l’amministratore di un potere che viene concesso dal popolo e che si esplica attraverso le leggi. Così, il costante richiamo all’etica nelle attribuzioni delle cariche e in generale nel governo della cosa pubblica, è affermazione altrettanto rivoluzionaria, quanto quella della distinzione fra leggi ordinarie e fondamentali,in quanto queste ultime venivano tutelate dall’arbitrio interpretativo o da modifiche dettate dall’interesse particolare del monarca. Ma anche il valore della partecipazione attiva del cittadino alla vita dello Stato, come bene supremo da garantire e tutelare. Ed ancora la formazione dell’opinione pubblica, con il compito di controllare i processi politici avvalendosi anche del prezioso strumento della libertà di stampa. E’ questo l’humus in grado di generare una nuova classe dirigente, non più espressione della grande proprietà fondiaria, del maggiorascato e di una fiscalità iniqua che colpisse essenzialmente (come di fatto accadeva) i meccanismi di produzione della ricchezza, i consumi e la circolazione dei beni,ma la grande proprietà e soprattutto i suoi ricavi,nel rispetto del principio di progressività. La profondità delle sue intuizioni, la lucidità delle analisi e delle soluzioni prospettate, sotto il profilo della gerarchia delle fonti del diritto, della determinazione dei limiti all’esercizio della funzione giurisdizionale, dell’organizzazione amministrativa e del fenomeno impositivo, nonché della tutela della libertà di stampa e delle risorse da destinare alla istruzione pubblica, sono tuttora una materia viva sulla quale anche le leaderships politiche attuali non dovrebbero cessare di interrogarsi e di orientare l’arte del buon governo. La storia recente ci dimostra che i valori e le priorità indicate dal Filangieri sono obiettivi, purtroppo, almeno in parte irrealizzati, o quanto meno, perfettibili. E’ compito della società civile e del suo spirito critico ricordare ai loro rappresentanti le radici della loro ragion d’essere e dei fini del loro agire
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