Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

“Fanti e briganti nel sud dopo l’Unità”

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Per un’analisi rigorosamente documentata del brigantaggio nelle Murge,  Josè Mottola, avvocato lavorista del foro barese e scrittore di diversi saggi storici, ha scritto un interessante testo , “Fanti e briganti nel sud dopo l’unità” (Capone editore, Lecce 2012) concentrando  la ricerca storica  sull’altopiano delle Murge tra Terra di Bari e Terra d’Otranto, attraverso documenti di archivio, individuati anche tra quelli dello Stato Maggiore.

Un lavoro ben ricostruito, considerato che molta documentazione,  tra le 250.000 carte del Fondo G 11 dello Stato Maggiore dell’Esercito, gettano nuova luce sugli avvenimenti postunitari nelle Murge, ove operò la Legione Carabinieri del colonnello Sannazzaro, la Divisione Territoriale del generale Regis e la Colonna Mobile del generale Pallavicini.

In un contesto storico in cui vi furono tragedie ed eccessi dall’una e dall’altra parte, la tesi condivisibile del lavoro di Mottola è che i briganti “non si battevano per la libertà, ma per la conservazione dello status quo.” Bisogna riconoscere che il sergente Romano non aveva precedenti di delitti gravi, come Carmine Crocco, Ninco Nanco e altri, ma il suo fu un brigantaggio esplicitamente legittimista per riportare sul trono i Borbone, e nel testo di Mottola emergono tanti episodi nuovi che dimostrano come la reazione borbonica organizzata, con l’aiuto dello Stato pontificio, fornì armi e supporto alle bande dei briganti operanti nelle Murge.

Quindi un brigantaggio endemico, in tal caso anche espressione dell’esasperazione dei contadini, che diventò politico nel momento in cui la sua componente si fece esplosiva e dirompente a causa del legittimismo borbonico che trovò il suo appoggio della gerarchia ecclesiastica reazionaria, senza voler sottacere alcuni errori evidenti, quali lo scioglimento degli eserciti garibaldini e la leva obbligatoria che provocò la renitenza.

Giusto allo scopo di evidenziare  la componente  legittimista e reazionaria del brigantaggio della banda Romano, facciamo riferimento agli avvenimenti del 28 luglio del 1861 che videro Gioia del Colle teatro di una sanguinosa battaglia in cui un bambino di 8 anni, Federico Stasi, fu ucciso brutalmente da un brigante solo perché alla domanda se preferisse come re il Borbone o Vittorio Emanuele, rispose “ Vittorio Emanuele”.

La centrale borbonica aveva sede a Roma e la sua fomentazione del brigantaggio fu decisa e notevole anche nel territorio delle Murge, sia via terra che via mare.

Scrive testualmente l’autore “ Salvo il gioiese Pasquale Romano, figura religiosissima senza precedenti penali e animata da ardenti ideali legittimisti, i capibanda sono spesso latitanti per un delitto occasionale, talora connesso alla leva o diserzione; oppure sono delinquenti professionali come Crocco, disertore borbonico con una sfilza di delitti comuni per i quali era stato condannato dalla magistratura del Regno delle Due Sicilie a diciannove anni di lavori forzati e recluso nel bagno penale brindisino di Forte di Terra, da cui era evaso la notte del 13 dicembre 1859”.

Il lavoro di ricerca del Mottola ha innanzitutto il merito di aver offerto spunti nuovi di riflessione e verità documentate sull’argomento.

Ciò che scrive Valentino Romano nella postfazione chiarisce che non si può parlare di brigantaggio, ma di brigantaggi, ossia di varie tipologie di brigantaggio, riconoscendo che il brigantaggio legittimistico delle bande di Pasquale Romano non è assimilabile a quello che vide protagonisti dei criminali quali Carmine Crocco e Ninco Nanco, colpevoli di delitti gravi commessi ai tempi dei Borbone e per cui avevano subìto condanne esemplari.

“Il caso Puglia – scrive Valentino Romano -  è paradigmatico di quello più ampio di tutto il Sud: convivono infatti nel brigantaggio pugliese, come in tutto il brigantaggio postunitario, personaggi motivati da grandi idealità e individui sospesi tra la patologia criminale pura e la delinquenza da pollaio; così come tra i fanti si possono osservare atteggiamenti e sensibilità contrastanti e contrapposti. Ma è proprio nella coesistenza di tali contraddizioni che può esserci una delle chiavi di lettura del ribellismo postunitario delle classi subalterne e della sua repressione: tutti protagonisti e comparse di una rappresentazione tragica sul proscenio delle nostre terre. E proprio l’ammissione dell’esistenza, nei fatti d’arme e nelle stanze del palazzo, di anime e motivazioni diverse può essere il primo punto di condivisione dal quale partire per un’analisi serena e pacata che tenga lontano il tifo da stadio e gli eccessi tribunizi delle diverse scuole di pensiero.”

A tali considerazioni aggiungiamo un ulteriore elemento importante che emerge dal lavoro di José Mottola, ossia la questione rilevante delle lotte di potere nelle varie comunità che utilizzavano il brigantaggio per colpire gli avversari.  In  tante comunità il brigantaggio fu determinato da rancori fra parti opposte all’interno della stessa comunità. E’ questo un altro tassello di analisi, quello delle vendette personali, che l’autore analizza nei suoi momenti rilevanti e che arricchisce il quadro storico del brigantaggio postunitario.

 

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