Il Disinganno di Raimondo di Sangro

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Entrate, e non lasciatevi rapire dall'eccesso di bellezza e di ricchezza di dettagli.

Né dal Cristo velato, ché giuste e particolareggiate celebrazioni ha già ricevuto in grande quantità. No, vi suggerisco di camminare senza fermarvi, oltrepassando anche lui e la sua posizione in esibizione (originariamente era altrove ma ovviamente molto più nascosto agli occhi), ed andare sulla destra nell'angolo dove è posizionato l'undicesimo arcano della Pietatella (così era chiamato fra il popolo il Tempio della Pietà di proprietà dei Principi di Sangro), altrimenti nota come la Cappella Sansevero.

Qui la parola capolavoro assume un senso inutile da spiegare, perché ci si ferma davanti ad una di quelle opere che letteralmente stonano il senso della ragione, probabilmente perfino più che di fronte al suo vicino che riposa pochi metri più in là.

Non si immagina un artista che si avvicina ad ideare e soprattutto a realizzare con tale virtuosismo tecnico quell'opera: l'idea fu naturalmente di Raimondo di Sangro, tutta rivolta verso la figura del padre Antonio, duca di Torremaggiore, ed il suo nome è il Disinganno delle Cose Mondane, "l’ultima pruova ardita, a cui può la scultura in marmo azzardarsi”, scrisse Giangiuseppe Origlia nell'Istoria dello Studio di Napoli, 1753-54).

Ed è proprio così, ed è un ardimento che non si ferma alla tecnica, come poche volte accade. Entra nel senso, avvolge chi lo guarda e chi lo ha pensato, diventa un unicum con il concetto che esprime, ed a mia memoria rimane forse il più incantevole ed assurdo esempio di questa connivenza fra idea e virtù dentro una mano esecutrice.

La mano è quella del genovese Francesco Queirolo, che ebbe l'incarico di riprodurre l'atto con cui l'uomo si libera dal peccato: il padre di Raimondo, prematuramente scomparsa la moglie, condusse vita dissoluta e dispersa, lasciando che dello stesso figlio si prendesse cura il nonno Paolo, "asservito" com'era -dice la lapide- "alle giovanili brame". Il suo pentimento successivo, dopo un girovagare avventuroso per il vecchio continente, lo ricondusse a Napoli, ed alle requie di una vita sacerdotale.

Come non ritrovare un così classico percorso, oserei dire quasi un cliché, nella nostra memoria, e come dunque farne venir fuori qualcosa di assoluto che vada oltre sentimenti come biasimo e grandezza, ardore e ripiegamento? La risposta è una rete. Una rete a grano abbastanza grosso, se fosse vera, una fibra come quelle che usavano i reziari nei giochi gladiatori del I secolo contro i secutor, che oltretutto per lungo tempo dimorarono alquanto in basso nella scala dell'onore combattente, oppure quella dei pescatori di cui si tramanda della Galilea. Una rete. Date a Francesco Queirolo una rete, e vi ritroverete, quando andrete diritto ed a destra direttamente al Disinganno, dinanzi all'impossibile.

Si tramanda che dovette egli stesso completare l'opera a pomice (ciò che era di solito assegnato ad altri artigiani), poiché costoro di rifiutarono di metterci le mani, giustamente spaventati dalla estrema sensibilità e finezza di quella rete, ed avendone perciò comprensibile timore di rovinarla.

Quella rete è appunto il simbolo del peccato dalle intricate maglie di cui ci si libera per ritornare alla purezza della vita, e per farlo viene in soccorso la mano del genietto alato sulla cui fronte una fiammella reca l’intelletto, ed il cui piede posa sulla sfera terrestre.

Ma c’è molto altro, come accade in ogni centimetro della Cappella che si voglia osservare. Al di là del particolare secondo cui Queirolo raffigurò sé stesso, il proprio volto come volto dell’uomo che si divincola da quella prigionia, vi sono alcuni passi della Bibbia incisi sul lato tratti da varie fonti (Nahum 1,13; Sapienza 17,2; Sapienza 17, 1...20; I Lettera S. Paolo ai Corinzi), che rimandano ad un concetto simile di liberazione e di avvento, quello dentro ad un mondo diverso e fatto di Luce (“Vincula tua / disrumpam / Vincula / tenebrarum / et longae noctis / quibus es compeditus / ut non cum / hoc mundo damneris” ovvero “Romperò le tue catene / prigioni delle tenebre e della lunga notte / dalle quali sei impedito / affinché tu non sia condannato insieme con questo mondo”).

E qui però dobbiamo addentrarci molto di più nell'anima di Raimondo, giacché dalla ricerca di una storia come quella del padre, approdiamo ad echi ben conosciuti e ripetuti del figlio, ritrovando traccia nella sua sorprendente, caleidoscopica e complessa Lettera Apologetica, marchiata di eresia e censurata dalla Congregazione dell'Indice (a nulla valendo perfino la sua esplicita supplica rivolta a Benedetto XIV), nella quale veniva illustrato ed adoperato il sistema di notazione peruviano e precolombiano del Quipu, basato sui nodi e colori, affidando a questo stratagemma preso a prestito dagli Inca le ali per far viaggiare concetti come il rapporto tra storia sacra e profana, l'origine dell'uomo e l'esegesi della Genesi, tanto per capire come mai qualcuno, lassù nelle gerarchie ecclesiastiche, non poteva certo tollerarne la diffusione…

Ed è in quell'opera, che troviamo scritto ad esempio: “[…] io discerno ora, e tanto chiaro, quanto il giorno, tutte le sconcezze del mio passato pensare; ciò che è pure un'indubitata pruova del perfetto mio disinganno”.

Era il 1750, e questo stesso termine due anni dopo “appare” dapprima nel velo del Cristo di Giuseppe Sanmartino, di cui sorvoliamo sulle ardite ipotesi circa l’ingegno chimico dell’esecuzione, ma serve soprattutto per portarci di nuovo sul Disinganno e sulla raffigurazione, alla base, dell’episodio in cui Gesù ridona la vista al cieco, come sull'iscrizione in bassorilievo “Qui non vident videant”: come per molti altri segni, evidente indice di iniziazioni massoniche per le quali il rito prevedeva l’ingresso bendato per l’iniziando al fine di aprire gli occhi alla Verità ed alla sua Luce nuova e custodita dalla Loggia.

Ma ancora più, forse, nella legatura tutta umana contenuta nella dedica al padre, esempio della “fragilità umana, cui non è concesso avere grandi virtù senza vizi”.

Entrate, e per una volta non lasciatevi rapire dall'eccesso di bellezza e di ricchezza di dettagli della Cappella Sansevero. Andate dritti davanti al Disinganno, e lasciatevi sconvolgere.

A cos'altro potrebbe altrimenti servire, l'esistenza di un tale prodigio?

 

 

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