Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Le stragi di Termoli e Casacalenda nel 1799: la questione degli Arbëresh

Condividi

La questione degli Arbëresh  in Molise  durante i tragici fatti dei primi mesi del 1799, è piuttosto complessa ed è il caso di chiarirne le varie sfaccettature

Molte cose che verranno annotate sono state già scritte o comunque acquistano senso con riferimento a vicende, testimonianze, riflessioni che hanno costituito espressione della soggettività storica del Meridione e in questo caso della Rivoluzione del 1799.

In questo frangente in cui gli Arbëresh  del Molise si ritrovano ad affrontare un secondo processo dalla Storia, concausa la pubblicazione del libro “Termoli e Casacalenda nel 1799 – Stragi dimenticate” della storica napoletana, Antonella Orefice, mi  sento in dovere, extra forum, di prendere, in parte, le difese dei famigerati 300 albanesi molisani fautori delle stragi di Termoli e Casacalenda.

L’illuminismo tentò di razionalizzare la cultura del tempo, le strutture e le istituzioni feudali, entrò nelle menti di vaste schiere di intellettuali e parti consistenti di popolazioni appartenenti a numerose nazioni.

Non da tutti queste nuove idee vennero ben accolte e le motivazioni possono essere ritrovate in una sola grande causa: la totale mancanza di erudizione fra le masse popolari ancora succubi della religiosità pagana e superstiziosa che la Chiesa Romana, infelicemente andava propagandando.

Guardando alle tendenze storiche, riformatrici e allo sviluppo economico emergente e propugnante un sistema basato sulla libera concorrenza e che potesse limitare in gran parte l’intervento dl regime feudale,  la Repubblica Napoletana era una prospettiva logica, giusta e promettente. Per mettere in atto una simile e nobile prospettiva occorreva però avvalersi di un popolo medio colto.

Il popolo, ignorante, sottoposto alla sopravvivenza  e logorato dall’ancestrale sistema feudale, divenne una canna al vento. I feudatari, laici ed ecclesiastici, forti e consapevoli della precaria condizione di vita in cui versavano le popolazioni arbëresh del Molise, si diedero a manipolarle con evidenti minacce, sicuri di trovare fertile terreno.

Ebbene, lo trovarono. Ritengo sia necessario, a questo punto della disamina, rileggere quello che proprio in quel periodo, l’Arberesh di Calabria, Angelo Masci, ripartitore demaniale, scrisse a proposito della sua gente:

“Gli Albanesi fuggiti dal proprio suolo, qui non poterono portare che la semplice spada. Quindi senza denaro, senza protezione e senza incoraggiamento, come potevano coltivare i terreni, abbracciare le arti ed aiutare i comodi della vita? Gli stessi terreni che precariamente han ottenuti dai Baroni, o dalle Chiese, lungi di formare nelle Colonie Albanesi un oggetto di ricchezza, le hanno anzi vieppiù immiserite e rese pressochè selvagge.

Oltre che, la maggior parte  di tali terreni erano luoghi sterili ed insignificanti, si sa molto bene, che il non possedere in proprietà, il non poter piantare alberi, il non poter serbare l’erba per i propri animali, distruggono ed annichiliscono qualsivoglia industria. – prosegue il Masci – “I Baroni e le Chiese, invece di proteggere gli Albanesi, che formavano la loro ricchezza, li hanno piuttosto gravati di tante soverchierie, che fa orrore di sentirle.”

Ecco come si presentava il modus vivendi degli Albanesi sottoposti al duro regime feudale!

"Ad imbarbarire ulteriormente queste popolazioni furono i Vescovi Latini, che con il pretesto di rimuovere, a loro dire, lo scismatico Rito Greco Bizantino, invece di promuovere fra di essi l’istruzione e – scrive ancora il Masci – far crescere i lumi, proteggere le scienze e le arti per una male intesa Religione, non hanno avuta altra cura che abbattere il Rito Greco da loro adottato. Da ciò sono avvenuti eterni litigj e reciproche ostilità, che tenendo sempre alla maggior depressione degli Albanesi, aumentavano in loro l’aborrimento della vita civile, delle scienze e delle arti.”  

Nel difendere e nel contempo denunciare lo stato di sopravvivenza al rigido sistema feudale delle popolazioni Albanesi,  Angelo Masci così conclude la sua requisitoria: ”Il funesto odio della Chiesa e dei baroni verso le popolazioni sopraggiunte è stato il motivo perché le Colonie Albanesi nel regno non hanno fatto progressi nella cultura. Basterebbe togliere quegli ostacoli per veder fiorire una Nazione capace delle più grandi cose e per vedere aumentare  nel regno la popolazione di gente brava e fedele.”  

E questa, scritta da Angelo Masci, è una grande verità, infatti gli Arberesh di Calabria, con il loro Istituto di istruzione, prima il Collegio Corsini e poi quello del San Adriano, raggiunsero un grado di erudizione sublime e condussero vita diversa da quella dei loro connazionali stabilitisi in Molise.

La Repubblica Napoletana, che era stata proclamata tra l’entusiasmo generale e che tra i suoi promotori aveva avuto pochi popolani e molti borghesi edotti, non aveva saputo venire incontro alle aspettative della popolazione nello sciogliere quello che era il nodo fondamentale della questione della feudalità e della ripartizione delle terre che interessava in modo diretto e concreto quella gente.

L’amministrazione locale scontava, d’altronde, gli effetti dei ritardi e delle remore politiche nella promulgazione, da parte degli organismi centrali, della legge antifeudale, che, impedendo la saldatura tra il governo centrale e le masse contadine, misero in crisi anche il rapporto tra queste ultime e gli organismi locali, a cui venne a mancare il necessario consenso popolare; l’astratta condotta politica dei repubblicani del centro e della periferia rendeva possibile, obiettivamente, il formarsi e, poi, l’esplodere di un diffuso e giustificato malcontento contadino.

“Il timore di disgustare diecimila  potenti – scrisse Vincenzo Cuoco nel Saggio Storico sulla Rivoluzione Napoletana del 1799 - fece perdere ai Francesi ed alla Repubblica l’occasione di guadagnarsi gli animi di cinque milioni.”

Su questo malcontento, artatamente alimentato ed ingigantito, fece leva il duca di Casacalenda, Scipione Di Sangro speranzoso nel proseguimento delle sue azioni usurpatrici. Si, in effetti Scipione Di Sangro, duca di Casacalenda, a differenza da come taluni lo dipingono, uomo legato alla Chiesa e al re, non era altro che un usurpatore demaniale che aveva trovato davanti a sé dei validi oppositori: a Casacalenda Domenico De Gennaro e a Termoli i fratelli Brigida.

E’ d’uopo a tal punto ricordare i martiri e i grandi personaggi che in quel periodo si distinsero, per coraggio, per erudizione e nobiltà d’animo:

Martiri molisani del ’99

Nicola Neri, nato nel 1761 ad Acquaviva Collecroce, medico e professore di fisiologia, fu nominato da Pasquale Stefano Baffi a capo del  dipartimento del Sangro. Qui egli, in qualità di comandante, dimostrò grandissimo coraggio nella difesa di Vasto e di Agnone, che barbaramente furono attaccate dalle truppe sanfediste, infatti fece abbandonare a quest’ultimi quelle piazze. Maria Carolina, la novella Messalina, di ciò non si scordò, additando, il Neri come un individuo pericolosissimo e quindi da patibolare fra i primi. Fu, barbaramente giustiziato a Napoli il 3 dicembre del 1799. Con lui va ricordato anche l’incitatore giacobino di Agnone, il sacerdote Carlo Lucci.

Gian Leonardo Palombo, nato a Campobasso nel 1749, giurista, processato a Napoli il 9 Novembre del 1799;

Carlo Romeo, giurista nato a Guardalfiera nel 1755, giurista, processato a Napoli il 12 dicembre del 1799;

Prosdocimo Rotondo, nato a Gambatesa nel 1757, giurista, giustiziato a Napoli il 30 settembre del 1799;

Giovanni Varanese, nato a Monacilioni nel 1777, studente in medicina, giustiziato a Napoli il 20 luglio del 1799.

Vanno ricordati, inoltre i grandi personaggi molisani che in quel periodo furono vicino alla causa repubblicana come Giuseppe Maria Galanti, originario di Santa Croce del Sannio, economista, filosofo, politico e letterato e massimo esponente dell’Illuminismo Napoletano, amico di Pagano, dell’abate calabrese Antonio Jerocades e del massimo grecista Pasquale Stefano Baffi. Fu autore di uno studio sulla Storia dei Sanniti; pubblicò la “Descrizione del Contado Molise” dove mise in luce tutta la malvagità e la negatività del sistema feudale vigente nel regno di Napoli.

Inoltre va ricordata la figura di Vincenzo Cuoco nato a Civitacampomarano, scrittore, saggista, economista, filosofo e politico; come il suo conterraneo Galanti fu uno dei massimi esponenti dell’Illuminismo. Parteggiò per la Repubblica Napoletana dove fu segretario di Ignazio Falconieri ed ebbe l’incarico di organizzatore del Dipartimento del Volturno.

Dopo l’effimera esistenza della Repubblica, al ritorno dei Borboni, per quasi un anno subì il carcere quindi l’esilio prima a Parigi e poi a Milano dove pubblicò il suo capolavoro: “Il Saggio Storico sulla Rivoluzione Napoletana”.

Fu uno dei maggiori consiglieri personali di Gioacchino Murat. Nel 1810 ebbe l’incarico di Capo del Consiglio Provinciale del Molise e in questa occasione scrisse “Viaggio in Molise”……che dire ancora di Gabriele Pepe, cugino del Cuoco e anch’egli nativo di Civitacampomarano. Ufficiale, letterato e patriota fu un percursore del Risorgimento e dell’Unità d’Italia.Partecipò alla rivoluzione del ’99 ai fatti di Benevento e di Portici per i quali fu condannato a morte e la stessa pena gli fu commutata in quella dell’esilio perpetuo data la giovane età.

 

Statistiche

Utenti registrati
136
Articoli
3167
Web Links
6
Visite agli articoli
15190976

(La registrazione degli utenti è riservata solo ai redattori) Visitatori on line

Abbiamo 758 visitatori e nessun utente online