Erich Priebke: quel demone centenario

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Priebke lega il suo nome alla più orrenda strage di inermi civili italiani di tutto il Novecento. Era un individuo detestabile, un criminale di guerra, e ha lasciato un testamento di ributtante negazionismo.

Nelle cronache di questi giorni sulla morte del nazista Erich Priebke, però, si può quasi sempre ritrovare un’enfasi che supera il trapasso di un demone centenario. Priebke non era un generale, ma un esecutore.

Non era un mostro che trucidò di testa sua, ma il braccio armato di ordini impartiti per conto del più feroce capopopolo del Ventesimo Secolo.

Come lui ce ne furono decine di migliaia, ad amministrare la morte e la tortura in tutta l’Europa occupata.

Però alla nazione italiana uscita stritolata dalla seconda guerra mondiale questi personaggi negativi sono serviti e continuano a servire – al di là delle loro gravissime e non relativizzabili colpe – per tracciare un’arbitraria linea di demarcazione, tra «noi e loro», e affrancare «noi» da ogni responsabilità.

Eppure l’Italia entrò in guerra da alleata della Germania, e prima ancora varò le infami leggi razziali, e abbandonò poi la guerra e la Germania solo perché la stava perdendo.

Per questo il Re destituì Mussolini, per questo Badoglio accettò l’armistizio con gli Alleati, per questo i nazisti occuparono Roma, mentre il Re e Badoglio scappavano al Sud.

La fuga ingloriosa dalla capitale e dalle responsabilità rese possibile e facilitò tutto quello che accadde dopo.

Peggio: passò solo un mese da quella fuga alla retata del Ghetto, il cui settantesimo anniversario si ricorda in questi giorni.

Non solo fu lasciato campo libero ai nazisti, ma li si aiutò a compiere quel rastrellamento degli ebrei nel Portico d’Ottavia.

1021 italiani mandati nei campi di sterminio nell’indifferenza degli altri italiani: solo 16 di loro tornarono.

L’occupazione nazista di «Roma città aperta» si macchiò di mille orrori, in un mare di connivenze, delazioni, ambiguità e indifferenza.

Lì crebbe la stella luciferina di Herbert Kappler, comandante della Gestapo, e di riflesso del suo satellite Erich Priebke. In via Tasso coloro che venivano arrestati con l’accusa di essere spie, o militanti della Resistenza, erano torturati per estorcere notizie o confessioni.

Quando partigiani comunisti attuarono l’attentato di via Rasella (33 componenti del reggimento di polizia Bozen uccisi da una bomba, il 23 marzo 1944) Kappler ricevette da Berlino l’ordine di uccidere dieci civili per ogni soldato morto. E con chi concertò le persone da fucilare?

Con l’italianissimo questore di Roma, Caruso, che di suo fornì 50 nominativi tra gli oppositori politici detenuti a Regina Coeli.

335 persone furono portate alle cave di via Ardeatina e uccise con un colpo alla nuca.

A ogni sparo il capitano Priebke spuntava un nome dalla lista dei condannati: ebrei, trotzkisti, azionisti, un prete e un colonnello monarchico.

Poi i genieri fecero saltare in aria le cave. Questo fu l’eccidio delle Fosse Ardeatine.

Priebke alla fine della guerra fu fatto prigioniero a Vipiteno, ma fuggì grazie alle complicità dentro la Chiesa. In Argentina si rifece una vita.

Fu ripescato 50 anni dopo l’eccidio, a Bariloche, da una troupe Usa.

Ma era stato mai ricercato? Sull’elenco telefonico si leggeva «Erico Priebke». Il più longevo dei boia rimasti in vita, i suoi burattinai erano morti da tempo.

Era rimasto lui, anello della più feroce catena militare del Terzo Reich. In sua difesa, e a parziale giustificazione dell’eccidio, si è detto che dopo via Rasella i tedeschi avevano invitato gli attentatori a consegnarsi per evitare la rappresaglia, o che il diritto internazionale legittimasse in tempo di guerra la vendetta «dieci per uno».

Nulla di vero. Era proprio così il terrore nazista. Ma né quel terrore né l’orrendo Priebke erano calati su Roma per caso: gli avevano aperto le porte taluni italiani.

 

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