Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Il Regno di Napoli, tra i Vicerè e i Borbone

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Dopo due secoli in cui l’operato dei viceré Spagnoli si era distinto per immobilismo e malgoverno, nel  Settecento il Regno di Napoli visse un risveglio culturale, artistico ed economico.

I vicerè  avevano considerato Napoli un territorio di conquista, una colonia da cui trarre ricchezze, in gran parte sperperate da una burocrazia corrotta ed avida.

Il sistema sociale si era fondato  su una aristocrazia estranea al potere politico ed impegnata solo a conservare gli atavici privilegi, e su una potente borghesia formata da un consistente numero di giudici, notai, medici ed avvocati, che di fatto deteneva il potere amministrativo, perché professionalmente mediava tra interessi dei nobili e del clero e la condizione sociale di un popolo, sempre più oppresso da imposizioni e tributi vari.

Napoli era la città degli opposti eccessi e la sua popolazione si ripartiva, in linea generale, in due gruppi numericamente molto disuguali: i privilegiati, clero e nobiltà da una parte, e dall’altra i non privilegiati, popolino e plebe.

Il popolo avrebbe lavorato se avesse potuto trovare lavoro: Napoli attirava tutti i poveri del regno, ma non dava loro una occupazione.

L’insensata politica del periodo dei viceré aveva distrutto il commercio e l’industria ed inoltre il sistema fiscale colpiva e stroncava i veri lavoratori.

 

Soltanto il parassita era onorato e protetto. In un tale stato di cose la legge della facilità, del minor sforzo era divenuta una legge fondamentale della popolazione: procacciarsi i mezzi di sostentamento con il minor  lavoro, anche senza lavoro, era la regola di condotta alla quale si uniformava la maggior parte dei napoletani e che essi applicavano con modalità diverse, a seconda della loro categoria sociale.

Ingannare, truffare, era dunque il principio dell’attività del napoletano: non trovava in ciò nulla di male, era la regola del gioco.

Così la parola buscare, che aveva una significato che stava tra guadagnare e rubare, era una delle parole più correnti del vocabolario popolare tutt’ora in uso.

C’erano mille maniere di buscare: una delle più singolari e molto fiorente era l’industria della falsa testimonianza.

Pullulava a Napoli una schiera di uomini rapaci di ogni genere, che provocavano l’imbroglio e la giustizia si vendeva. Il diritto napoletano era dunque una foresta inestricabile e, come la foresta favorisce il brigantaggio, così il diritto napoletano, con i suoi inghippi offriva il mezzo più propizio per qualsiasi azione disonesta.

La città contava un avvocato o un notaio ogni centocinquanta abitanti, proporzione superiore a quella di tutte le altre città d’Italia.

Tutti erano dottori in legge, ma questa laurea, il più delle volte comprata a buon denaro contante al Collegio dei Dottori e non concessa dall’Università, non era affatto una garanzia di competenza. Tuttavia si univano ad essa dei vantaggi fiscali ed onorifici: una tale laurea conferiva una specie di dignità che permetteva al beneficiario di bazzicare con la nobiltà.

Gli uomini di legge vestivano secondo la moda spagnola: giacca nera con le maniche strette, calzoni neri, un lungo mantello ed il cappello senza fregi.

Poi conservarono il vestito nero per i giorni feriali ed adottarono per quelli festivi e di gala la moda francese al fine di confondersi con la nobiltà.

La Vicaria era il dominio di questo mondo del tranello dove lanciavano urla spaventose nel proferire ingiurie più grossolane. Da lì un altro modo di dire ancora in uso nel vocabolario popolare per indicare chi con toni alti prevarica gli interlocutori: voce da tribunale.

Il soprannome di paglia o paglietta, proveniente dal cappello di paglia che gli avvocati usavano portare d’estate, fu il nomignolo che il popolo diede a questa corporazione ignorante, venale ed odiata.

Tuttavia, si trovavano tra costoro anche persone amabili e colte che, sotto l’aspetto esteriore grezzo che avevano contratto a Napoli, nascondevano uno spirito  sottile e cortese ed un cuore eccellente.

L’arrivo nella capitale il 10 maggio del 1734 di Carlo di Borbone, dopo un breve periodo di occupazione austriaca (1707- 1734 ) segnò l’inizio della rifondazione morale ed istituzionale del Regno.

Carlo di Borbone riuscì a dare un nuovo impulso economico e politico al Regno grazie alla collaborazione dello spagnolo Josè Joaquin Guzman del Montealegre, nominato Segretario di Stato, di formazione culturale riformatrice e convinto estimatore dei nuovi indirizzi economici che si stavano affermando in Europa.

Il nuovo Segretario di Stato per attuare le sue idee si circondò di numerosi esperti, alcuni dei quali provenienti dalla Toscana, tra cui Bartolomeo Intieri e Bernardo Tanucci, ed altri presenti nel mondo accademico del Regno, come Celestino Galiani e Antonio Genovesi.

Tutto ciò venne favorito principalmente dal pieno appoggio e dal consenso di Elisabetta Farnese, conosciuta anche come Isabel de Farnesio, moglie di Filippo V, il primo re di Spagna della dinastia dei Borbone, che inviò direttamente dalla Spagna cospicue risorse finanziarie indispensabili per creare un nuovo esercito, per la costruzione in breve tempo della strada per la Calabria, del teatro San Carlo, dei palazzi reali di Portici, Caserta e Capodimonte dell’Albergo dei Poveri e per dare inizio agli scavi archeologici di Ercolano e Pompei, che destarono l’ammirazione e l’invidia delle altre corti europee.

Dal punto di vista culturale, grazie all’impegno di Celestino Galiani si diede un nuovo impulso all’Università degli studi con l’istituzione di nuovi insegnamenti a carattere scientifico e, grazie a Bartolomeo Intieri, venne introdotta la cultura illuministica.

Gli intellettuali plaudivano al nuovo principe che era riuscito a ricostruire ed a dare dignità ad un Regno, per il quale valeva fornire il massimo impegno per l’attuazione di soluzioni scientifiche moderne nell’attività amministrativa, nel campo economico ed in quello legislativo.

Questo processo di sviluppo sociale ed economico ebbe però un’inversione di tendenza a partire dal 1759, quando Carlo di Borbone, dopo la morte del fratello Ferdinando IV, si trasferì sul tono di Spagna col titolo di Carlo III ed affidò il Regno di Napoli al suo terzo figlio, Ferdinando IV che,  per la sua giovanissima età venne affiancato da un Consiglio di Reggenza in cui spiccava la figura del ministro Bernardo Tanucci.

La parte di Ferdinando IV nel risveglio intellettuale di Napoli fu del tutto  insignificante: per quanto egli avesse il buon senso di rendersi conto della sua nullità e di rendere omaggio alla scienza, in fatto di cultura dovette lasciare campo libero alle fantasie intellettuali della consorte Maria Carolina d’Austria, così come approvò più tardi costei quando consacrò l’intelligenza al sacrificio.

Maledetti furono nei secoli tutto coloro che avrebbero riportato alla luce i sei mesi della Repubblica Napoletana, un momento indimenticabile nella storia di Napoli che ci pose all'avanguardia in fatto di cività in tutta l'Europa.

La maledizione di Maria Carolina oggi onora tutti noi ricercatori di verità. Nonostante l'ondata controrivoluzionaria che ancora opera per metterci a tacere e manipolare la storia, noi continuiamo nel nostro impegno, affinchè la memoria degli eroi del 1799 sia ricordata, compresa e conservata, quale bene inestimabile ed esempio per tutta l'umanità.

 

 


A.A.VV., Il Settecento, a cura di G. Pugliese Caratelli, Napoli 1994, p. 42 e ss.

R. Bouvier A. Laffargue,  Vita napoletana del XVIII sec., Napoli, 2006, p.31 e ss.

B. Croce, Storia del Regno  di Napoli, ristampa a cura di G. Galasso, Milano, 1992, p.259.

A. Orefice, Giorgio Vincenzio Pigliacelli, Avvocato tra Massoneria e Rivoluzione, Ministro e Martire della Repubblica Napoeltana del 1799, Napoli, 2010

 

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