Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Si parla ancora di lui: Gioacchino Murat

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Si parla ancora di lui, di Gioacchino Murat, nel bene e nel male, non importa, ma si parla.

C'è chi lo adora, chi lo denigra, chi lo ignora. In Italia esistono Associazioni, Gruppi, Fondazioni, Club di Giuochi di Ruolo, collezionisti di memorabilia che rendono ancora viva la figura e le gesta dell'ex Re di Napoli, che perseguì caparbiamente tra un mondo di sordi, l'idea dell'Unità d'Italia, portando una ventata di modernità nel Meridione che si lasciò per sempre alle spalle il Medio Evo, la feudalità, i privilegi e quindi i soprusi.

La figura di Gioacchino, umile stalliere che siede sul trono di Napoli, che trascina sui campi di battaglia interi eserciti invincibili, non ha mai finito di incantare l'Italia, il Meridione.

Gioacchino Murat fu, pur con le ombre del tempo, senza dubbio uno dei re più giusti, fecondi ed amati della storia del sud.

Impostò e definì una politica economica, istituzionale, amministrativa ed ordinamentale senza precedenti.

Un complesso significativo di provvedimenti che consentirono, in brevissimo tempo, l'introduzione di un moderno sistema legislativo, un più complesso sistema tributario, la rimozione dei privilegi feudali e l’ avvio di un percorso redistributivo aperto alla flessibilità delle economie di mercato.

Nei sette anni di regno Gioacchino ebbe modo e tempo di trasformare il suo ruolo da pura luogotenenza di potere – segno di unilaterale decisione del cognato Napoleone Bonaparte - a monarchia militante.

Vi furono passione governativa e, per molti aspetti, sapienza politica, che trasformarono un re-fantoccio (longa manus di Napoleone) in re regnante.

 

Inoltre, Murat seppe incunearsi più profondamente in quel bagno di immaterialità che è il potere. Fu massone e, certamente attraverso tale sodalizio, ebbe contatti con i primi sediziosi delle logge o “ vendite” carbonare o di sodalizi similari.

E’ dunque pensabile che il deposto re Gioacchino confidasse, nei giorni dell’esilio in Corsica, sui suoi trascorsi di buon re, di buon agitatore di movimenti popolari, nonché sui crediti maturati sul campo.

E congegnasse, contro le determinazioni di Vienna, il sovvertimento nell’Italia del sud.

D’altronde, gli stessi congressisti, Metternich in testa, ben sapevano che Murat andava trattato con "cautela".

Non era persona da lasciare il campo senza appello. Non è un caso che, in piena restaurazione, unico regno a non subirne gli effetti fu quello di Napoli, il regno di Murat. Per calcolo politico? Certamente.

Murat andava guadagnato alla causa, non perduto, magari con promesse (ricevute) di fedeltà. Né è un caso che proprio il principe di Metternich, l’uomo della controriforma napoleonica, concedesse a Murat, dopo la sconfitta di Tolentino e la sua diaspora, un passaporto, condiviso dagli inglesi, con il quale gli consentiva di raggiungere la famiglia a Trieste e, a seguire, esilio in terra austriaca, senza ovviamente il titolo di re.

Perché tanta prudenza con Gioacchino, in un tempo in cui le teste cadevano senza troppe domande?

Perché Murat era un governante temuto. Grande organizzatore militare; buon conoscitore dei mondi sotterranei della sedizione; buon creditore verso il suo popolo napoletano; grande stratega, con dentro il fuoco della rivoluzione, ma più illuminato, meno giacobino.

E così, mentre gli si concedeva la carota, gli si preparava la garrota. Murat fu infaticabile e tempestivo (precipitoso?) nell’ organizzare la ripresa del regno. Ma non sapeva che le potenze alleate lo tenevano sotto strettissimo controllo.

Più di una spedizione, su mandato borbonico ed inglese, fu incaricata di controllarne i movimenti in Corsica. Si era nel settembre 1815.

Funzionari di Ferdinando di Borbone, infiltrati (?), facevano opera di spionaggio e controspionaggio. E riferivano. Riferivano che Murat aveva in testa di rimettersi in marcia, di proclamare l’unità delle due Sicilie e proporsi quale re.

Sapevano che, per questo scopo, aveva stilato un nuovo proclama, preparato materiale di diffusione, raccolto bandiere con i vessilli italiani.

Quando, il 29 settembre, Gioacchino lascia la Corsica alla volta del sud d’Italia, Borboni, Inglesi, Austriaci sanno di lui.

Ne disorientano, probabilmente, l’azione e lo attendono. Il resto è storia saputa. Murat sbarca a Pizzo l’8 ottobre.

Tenta, invano, di legittimarsi ma ottiene il solo risultato di allertare le forze dell’ordine borboniche e guadagnare lo stato di arresto, dentro il castello Aragonese.

Pizzo, dunque, crocevia di un atto di insurrezione che riguardava l’Italia, l’Europa, la storia.

Iniziano 5 giorni di tensioni istituzionali senza pari. La trasmissione della notizia a Napoli, le prese di posizione del re borbonico (“Nasone”), la costituzione di una Commissione militare ad hoc, un fitto carteggio che vede Murat, sempre in postura da monarca, interloquire con i più alti rappresentanti del regno e d’Europa a domandare conto del trattamento riservatogli, la inutilità di qualunque tentativo di sfuggire alla sua sorte, il processo “mostre”, la fucilazione, il 13.10.1815, qualche minuto dopo la lettura della condanna alla pena capitale.

E qui tutto si compie, agli occhi della storia. Rimane, solo con il suo destino, con l’ assoluto che incombe, con la solitudine senza rimedio di chi non ha altra sponda che la morte, l’uomo. Ed è in tale istante che Murat scrive la pagina di poesia – umana ed esistenziale – più bella della sua vita: la lettera di commiato alla moglie Carolina ed ai suoi figli.

Tale è la traccia che Pizzo porta in ventre. Poteva tale enormità rimanere affidata alla banalità racchiusa nella frase secondo cui Pizzo, città regicida, subirebbe la “maledizione di Gioacchino“?

Poteva tutto chiudersi nella rilevazione di una colpa che non Pizzo ma i tempi hanno avuto? Certo che no.

Ecco perché, dopo lunghi decenni di oscurità e silenzi, la comunità civile si è riappropriata della sua stimmate storica ed ha iniziato a scavare nella sua identità e nella verità.

Una sequela di iniziative che hanno visto Murat - e la vicenda dei cinque giorni più lunghi della città - collocarsi al centro di una attenzione nuova.

Il recupero delle memorie, la meditazione sulle stesse, la definizione di percorsi di comprensione, elaborazione e puntualizzazione di quei giorni.

La consapevolezza di un orizzonte storico in cui la città, suo malgrado, è stata attore e spettatore.

Un binario di studi e passioni civiche che si è, finalmente, aperto ed ha prodotto, in poco tempo, significativi esiti.

La dotazione storica del Castello di segni rappresentativi della vicenda, la trasformazione del castello stesso, attraverso intesa protocollare tra Provincia di Vibo Valentia, comune di Pizzo ed Associazione ONLUS Murat di Pizzo, in museo provinciale murattiano, nel quale si è parimenti costituita una biblioteca tematica, proposta quale centro di elaborazione ed attenzione scientifica.

Ed ancora, una moltitudine di testi letterari editati sulla questione (recentemente, quelli della Prof. Renata De Lorenzo, della dott. Antonella Orefice, del  Prof. Giuseppe Pagnotta, del prof. Franco Cortese, dei fratelli Pacifico del dr. Pietro D’ Amico, e molti altri ancora); le manifestazioni di tono murattiano, quali lo “Scacco al Re”, l’annuale commemorazione dei fatti, il 13 ottobre, all’interno del castello aragonese; nonché, di respiro rappresentativo alto, la rievocazione storica in costume, con tanto di corteo storico e, a finire, le mostre pittoriche a tema di recente organizzate.

Infine, la recente iniziativa intesa ad individuare le spoglie mortali del re, deposto nella cripta del duomo di S. Giorno e mai con certezza rinvenute. Murat, Pizzo, la trama, la storia.

Questo il quadrante che enti, associazioni, studiosi sono convinti di dover restituire alla vicenda del re Gioacchino, consumatasi nei giorni di ottobre del 1815.

Fuori da enfasi, fuori da banalità, ma dentro un progetto di restituzione alla memoria delle genti di un episodio ancora in parte oscuro che, tuttavia, si staglia imperioso e dirimente nei giorni in cui la restaurazione europea diveniva, anche, restaurazione italiana.

 

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