Nel carcere delle idee non c’è Rivoluzione ( Francesco Mario Pagano)

Categoria principale: Storia
Categoria: Articoli sul 1799
Creato Sabato, 01 Giugno 2013 15:00
Ultima modifica il Lunedì, 26 Agosto 2013 12:23
Pubblicato Sabato, 01 Giugno 2013 15:00
Scritto da Rossana Di Poce
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Recentemente ho avuto modo di visitare il carcere borbonico di Santo Stefano nell’arcipelago ponziano, e la vista di quello che è stato uno dei luoghi del ‘799, mi ha lasciato molte impressioni da decifrare.

Nel penitenziario ponziano furono stipati nel 1799 circa 500 prigionieri politici dei fatti napoletani, la cui storia è ancora tutta da scrivere: sappiamo pochissimo di loro, ma quello che sappiamo è che furono brutalmente confinati per le loro idee politiche assimilate alla “feccia “ della società che a Santo Stefano veniva relegata.

Gioiello della progettazione borbonica con la sua forma a ferro di cavallo che l’architetto Carpì ragionò pare senza aver letto il trattato del Bentham, Santo Stefano è a tutti gli effetti il più bell’esempio di carcere panottico della storia.

Sull’isola tonda spersa trai flutti la detenzione dei prigionieri era osservata da ogni parte: dovunque dalle guardie verso le 99 celle.

Spettatori e spettacolo -torture e crimini furono denunciati lucidamente dal Settembrini qui detenuto in quell’altra Rivoluzione (come pure ilFascismo vi relegò personalità del calibro di Sandro Pertini)- molto ordinatamente si osservavano dalle guardiole; la logica del controllo della mente e della paura che le punizioni potevano incutere, lasciano oggi riflettere su quanto la realtà della detenzione dovesse ancora adeguarsi ai trattati filosofici dell’epoca che mise mano alla riforma dell’idea di Legge e di pena: l’Età dei Lumi.

Sulla scorta delle innovazione di Montesquieu e del suo “Esprit de loix” (1748) nonostante nel 1765 fosse stato scritto da Beccaria “Dei delitti e delle Pene” e il caffè dei fratelli Verri ne avesse immediatamente ripresa l’eco, fu proprio a Napoli grazie all’operato di Gaetano Filangeri (La scienza della legislazione, 1780) e di Francesco Mario Pagano (Considerazioni sul processo criminale 1787, Principi del codice penale) che le novità illuministe sui processi e sulle pene trovano massima amplificazione europea fino alla Russia dello zar Paolo I.

 

La questione della Legge e della pena erano per gli Illuministi massimamente fondamentali per la ricostruzione degli Stati moderni, e proprio Mario Pagano, morto ormai di tubercolosi il Filangieri, rese grande lo spirito delle innovazioni che attecchirono a Napoli in quei tumultuosi anni: la Rivoluzione passava dapprima per la mente, e fu il Pagano a sostenere che l’idea della pena fosse indissolubilmente legata alla “perdita di un diritto per un diritto violato o per un dovere omesso”.

Nei giorni ultimi del ‘799 furono 8000 i processi indetti contro gli insorti e almeno 100 condanne a morte furono eseguite con processi sommari che la dinastia borbonica non esitò a imbandire unitamente a persecuzioni personali: dopo gli episodi cruenti della repressione del 1794 (3 condanne a morte che Mario Pagano aveva difeso fino allo strenuo, rischiando in prima persona e meritandosi l’esilio a Roma) 3000 cittadini furono incarcerati in ogni dove della città fosse possibile e molti di essi perirono senza che se ne sappia altro.

Il sospetto e la delazione che avevano accompagnato fina dalle prime battute del Settecento la corte e la città di Napoli, non risparmiarono a nessuno degli insorti i trattamenti che le idee di Beccaria, Filangieri e Pagano avevano contribuito a trasformare a livello mondiale nella filosofia giurisprudenziale non disdegnando di impugnare le armi nella battaglia.

A Mario Pagano, la mente delle grandi trasformazioni nei giorni della Repubblica toccò, capitolata la Repubblica, la famigerata “cella del coccodrillo” in Castelnuovo, dove non v’era che un solo vaso per ogni mangiare e per altre attività corporee, senza giaciglio e senza alcuna visita, con percosse regolari e interrogatori tutt’altro che democratici, poi fu trasferito alla Vicaria e in Sant’Elmo, fino all’impiccagione in Piazza Mercato del 29 ottobre del 1799.

Solo per dare un esempio dell’azione tenace e di grandi riforme che il Pagano riuscì a compiere in uno sforzo immane nei soli primo tre mesi di Rivoluzione, basta scorrere le pagine del Monitore Napoletano di Eleonora Pimentel (a Mario Pagano dobbiamo il progetto mai approvato della Costituzione della Repubblica napoletana 1799) e basta enumerare le Leggi che vennero proclamate per la Repubblica Partenopea:

-abolizione delle servitù feudali

-abolizione della tortura e delle carceri segrete

-abolizione dei fidecommessi (privilegi dei primogeniti)

-abolizione dell'imposta sui grani, farina, pesce e pasta

-abolizione del testatico (ciascuna persona pagava una tassa per esistere)

E la plebe che non seppe d'esser trattata da popolo come ben sappiamo reagì assecondando la sete di vendetta del sovrano borbonico, che vedeva come unica realtà quella della distruzione sistemica, panottica, dell’esperienza napoletana.

Da Roma, la Chiesa condannava i philosophes e non soltanto quelli francesi: accusati di minare i dogmi della religione e considerati soprattutto nemici politici in grado detonare irrimediabilmente senza ritorno lo status-quo del potere.

Così i grandi pensatori come Francesco Mario Pagano corrisposero con la vita le proprie innovazioni per i diritti dell’uomo.

A distanza di oltre due secoli, la città di Napoli ancora non conosce, nè apprezza la grandezza del pensiero che caratterizzò i fatti del ‘799, nè il grande sforzo europeo che i philosophes partenopei sostennero per elevare la loro città al clima di un’epoca che ha cambiato la storia del mondo.