La santità
Il filosofo napoletano Pietro Piovani, nella sua celebre opera Principi di una filosofia della morale ha dato un’ originale definizione dell’uomo: “Il volente non volutosi”. Ciò significa che l’uomo, caratterizzato come essere esprimente volontà, in fondo è stato chiamato a vivere non per sua volontà ma per quella degli altri. Partendo da questa definizione intendo fare alcune riflessioni sulla vita e sul suo significato. Il fatto che non sia stato l’uomo a volere la vita, non significa che egli non sia contento di essa o non mostri riconoscenza verso coloro che gliel’ hanno data, cioè i genitori. Si può anche pensare che sia stato il Creatore che abbia deciso di dare la vita ad ognuno di noi tramite essi. Inserito non per sua volontà nella storia, l’uomo si interroga sul perché della vita e su come deve agire, perché egli possa comportarsi nel modo più corrispondente ai motivi della sua misteriosa, imprevista e provvisoria esistenza. Si pone quindi il problema di come bisogna manifestare questa volontà non voluta o più precisamente di come gestire nel migliore dei modi il “dono della vita”. E’ evidente che la vita donata può esplicarsi in una infinita gamma di possibilità, prima che conosca il suo tramonto. “Schiavi della realtà che ci genera e ne sa più di noi”, per dirla col Croce o “soggetti al condizionato” per dirla col Buddha, gli uomini, a mio avviso, scoprono il volto della verità nel percorrere l’obbligata via del bene. Nella sua libertà di pensiero e di volontà l’uomo ha il dovere di districarsi in una realtà umana in cui vigono sia il bene che il male. Il bene è tutto ciò che porta alla sua salvezza. Il male invece tutto ciò che porta alla sua perdizione. Qualsiasi atteggiamento che vuol porre l’uomo al di là del bene e del male – come ha cercato di fare il Nietzsche – per dargli una maggiore libertà, a me appare altamente individualistico e pericolosamente solitario, perché non tiene conto che non si può vivere senza la presenza e la solidarietà degli altri. Anch’io quindi sono d’accordo con chi non mette in discussione i valori eterni della vita, come la libertà, la giustizia, l’amore e la fraternità. Nel rendere relativi questi valori si corre il rischio di aprirsi maggiormente alla visione hobbesiana dell’ homo homini lupus o all’assunto nietzschiano Dio è morto: tutto è permesso. L’accettazione dei valori è d’obbligo sia per gli atei che per i religiosi. Essa non ha niente a che vedere né con il fondamentalismo etico, né con il moralismo. E’ un fatto razionale. La fede invece delle persone religiose in Dio, visto come traguardo finale della propria esistenza, è inerente alla libertà della propria coscienza. Chi rivendica questa libertà non deve però mettersi in posizioni di chiusura, di integralismo e di violenza, come spesso è accaduto nella storia. Bisogna rimanere aperti al pensiero diverso degli altri, a dialogare e convivere anche con chi professa un’altra ideologia o una diversa religione. La volontà di Dio, per chi crede in lui, è nonviolenta e non può permettere chiusure, soprusi e peccati. Chi cerca il bene, anche se non ne ha chiara coscienza, ha come fine la santità. Per perseguirla bisogna non solo percorrere le strade della libertà e della giustizia, ma, a mio avviso, anche quelle della trasformazione interiore, per cercare di sradicare la violenza che è in noi, e della preghiera, che ci rende umili e contemplatori della gloria di Dio, sorgente e porto di ogni umana salvezza. L’umiltà è fondamentale per conseguire la santità. Essa è lo specchio della pochezza umana. Essa disdegna gli orgogliosi e i vanitosi. E’ contro ogni forma di individualismo. E’ la vera origine dell’apertura, del rispetto e dell’uguaglianza. E’ la strada di accesso all’amore e alla verità. Predispone alla vera fraternità. Anche Gandhi era di questo avviso se nell’ introduzione alla sua Autobiografia ha scritto: “Colui che ricerca la verità dovrebbe essere meno che polvere. La gente calpesta la polvere, ma l’umiltà di colui che ricerca la verità dovrebbe esser tale da indurlo a lasciarsi schiacciare anche dalla polvere”. Per perseguire la santità, oltre a essere umili bisogna poi diventare seguaci della nonviolenza, vero volto dell’amore. La nonviolenza non può non essere che integrale, cioè il suo atteggiamento di amore deve investire tutta la realtà, da quella interiore a quella esteriore. La santità non è nient’altro che cercare di vivere l’amore in ogni situazione e in ogni momento della vita. L’amore è la legge a cui bisogna attenersi. Essa viene spesso violata dall’uomo per ignoranza, egoismo, immoralità e presunzione. Si può concepire il vero amore solo se è nonviolento. In nome di esso non si possono commettere atti violenti. Non si deve poi parlare di amore nonviolento in modo teorico. Si parla troppo spesso di amore ma in pratica si contraddice quanto si afferma. Bisogna stare attenti a non diventare dei falsi santi. Non si può però non essere anche aperti alla tolleranza, che non è solo capacità di comprendere gli errori dell’imperfezione umana e di perdonarli, ma è anche volontà di aiutare l’uomo a redimersi. I santi sono sia tradizionalisti che rivoluzionari. Questa non è una contraddizione. I santi sono sempre per il bene, sia che esso si trovi nella tradizione che nel cambiamento di essa. In genere bisogna essere tradizionalisti rispetto al bene e anticonformisti rispetto al male. Il contenuto dell’agire dell’uomo, cioè del “volente non volutosi”, deve quindi essere l’umile amore che porta alla santità. In definitiva santo è certamente colui che vive di amore e di moralità concrete, ma ancor più lo è, a mio avviso, colui che aggiunge alla perfezione morale e laica anche quella autenticamente religiosa, che rivela una maggiore umiltà, un più profondo amore, una più radicale fede nei valori. Infatti per il credente ogni vero valore proviene dal supremo orizzonte del bene, laddove risplende il volto salvifico di Dio, e da dove la vita umana con le sue speranze riceverà la luce salvifica della sua completa giustificazione. Il santo deve quindi avere sempre gli occhi fissi nell’ amore per divenire un innamorato radicale della verità. E chi ama può trovare facilmente Dio nella fede della propria tradizione religiosa. Non ha senso e forse è violento essere strappati dalla fede in cui siamo nati e sentimentalmente educati, se si ispira all’amore. Gandhi diceva che ognuno deve rimanere nella propria religione, ma essere impegnato a migliorarla. E’ giusto quindi biasimare gli aspetti corruttivi che in essa si possono riscontrare al fine di crescere praticamente nel bene. Il male che però vediamo negli altri non deve indurci per risentimento e debolezza a separarci da essi. Ognuno dia personalmente l’esempio, aprendosi anche alla compassione e comprensione degli errori che si possono commettere. Cerchiamo di rimuovere con nonviolenza ciò che rende malvagio l’uomo. La santità deve aprirci all’amore verso tutti e – come ha affermato Gesù – soprattutto verso i peccatori. |
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