Napoli 1799 Memoria sugli avvenimenti – Amedeo Ricciardi

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Creato Domenica, 13 Gennaio 2013 16:37
Ultima modifica il Lunedì, 26 Agosto 2013 12:22
Pubblicato Domenica, 13 Gennaio 2013 16:37
Scritto da Antonella Orefice
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Introduzione di Antonella Orefice

Allo scoppio della rivoluzione napoletana del 1799, Amedeo Ricciardi fu uno dei primi a sostenerne la causa ed a porre mano alla narrazione di quegli eventi che tanto condizionarono la sua vita.

Era nato nel 1756 a Palata, nel Molise, da Paolo e Diana Carunchio. Per intraprendere gli studi giuridici e poi l’attività forense,  si trasferì giovanissimo a Napoli.

Secondo quanto registra Eleonora de Fonseca Pimentel nel N.28 del Monitore Napoletano, durante i sei gloriosi mesi della Repubblica, Ricciardi fu  inviato nel dipartimento dell’Ofanto come commissario organizzatore ma, avendo subito una disastrosa rotta nei pressi di Nola, fu costretto a tornare a Napoli a piedi.

Ciononostante, scrive la direttrice, “tanto pel suo caldo patriottismo, e costume, quanto per gli servigi, che sta ora rendendo alla nostra Repubblica, non dovea non nudrire, che sentimenti da renderlo benemerito della Patria».

Stroncato nel sangue il sogno repubblicano, il 12 agosto Ricciardi  partì per la Francia a bordo di un bastimento, dopo aver sottoscritto un documento nel quale si impegnava a non tornare in Patria, pena la morte. [Atto fatto sottoscrivere ‘a patrioti napoletani a bordo de’ bastimenti parlamentarii, prima della partenza per Marsiglia – Manoscritto conservato presso la Società Napoletana di Storia Patria  XXVI A8, f.190]

Sbarcato a Marsiglia il 30 agosto si trasferì a Parigi dove visse con le sovvenzioni della Repubblica francese. A Parigi ebbe modo di conoscere Guy Jean-Baptiste Taget, membro della Corte di Cassazione che lo introdusse in una fitta rete di relazioni.

Tornato a Napoli durante il decennio francese ( 1806-1815)  fu nominato prima Procuratore Generale della Corte d’Appello, poi Consigliere della Corte di Cassazione.

 

Con la restaurazione borbonica fu mandato a presiedere la Gran Corte Civile dell’Aquila, incarico che perse nel 1831 con la venuta degli austriaci.

Morì a Napoli il 3 agosto del 1835.

Da quanto scrive lo stesso Ricciardi nella prefazione delle sue Memorie era stata Miss Helen Maria Williams, conosciuta durante gli anni di esilio a Parigi, a chiedergli di stendere una narrazione dei fatti allora avvenuti.

Secondo lo storico Benedetto Maresca, che pubblicò per la prima volta il manoscritto nel 1888 in “Archivio Storico per le Province Napoletane” (Società Napoletana di Storia Patria), il lavoro del Ricciardi precede sia il Saggio Storico sulla Rivoluzione Napoletana del 1799 di Vincenzo Cuoco, sia il Rapporto al Cittadino Carnot di Francesco Lomonaco.

L’analisi del Maresca si sofferma su alcuni particolari cronologici contenuti nelle Memorie, ancora incompleti rispetto alle opere degli altri autori. Il riferimento in particolare è dato dalla mancanza di notizie circa gli ultimi giustiziati, ossia Gennaro Arcucci, giustiziato il 18 marzo 1800 e Luisa Molines Sanfelice, l’11 settembre 1800.

La narrazione del Ricciardi si ferma a Marcello Eusebio Scotti, giustiziato il 3 gennaio 1800.

Il Maresca interpreta la data apposta dal Ricciardi alla lettera dedicatoria delle sue Memorie,  26 nevoso, come corrispondente al 16 gennaio 1800.

L’immagine di una Maria Carolina che aveva promesso in voto all’ombra di Maria Antonietta il sangue di tutto il popolo francese, apre il memoriale.

La Regina di Napoli è conosciuta  generalmente per la furia d’Averno che allumò la nera torcia della guerra in tutta l’Europa. Ma si è mai ravvisato che la condotta di questa donna non è che il risultato dello spirito animatore di quella corte: che fino a tanto che essa dominerà in quella parte d’Italia, la pace per la nazione francese, ad onta di qualunque trattato, sarà sempre precaria, ed illusorj i suoi rapporti commerciali? Si sa che sulle rovine della monarchia di installò a Napoli un governo repubblicano. Ma si sono mai conosciute tutte le circostanze che accompagnarono questo memorabile avvenimento? Troppo rumore ha fatto la contro – rivoluzione di Napoli: ma si sono mai sapute le cause che han preparato questa catastrofe assai funesta all’umanità per le sue conseguenze ferali?


Ad oltre due secoli di distanza, nonostante il certosino lavoro di ricercatori storici ed il ritrovamento di manoscritti simili a quello del Ricciardi, pare purtroppo che la verità faccia ancora fatica e ritrovare luce per l’oscurantismo ed i falsi storici che l’ondata controrivoluzionaria ha gettato su questo sacro pezzo di storia napoletana così scomodo da ricordare.

La losca mano della contro-rivoluzione ancora opera, alimentando quell’ignoranza incancrenita oramai da secoli attraverso l’opera di  lestofanti e sedicenti cultori della storia che continuano a manipolare verità, documenti, inneggiando ad un fanatico quanto discutibilissimo riscatto di un ricchissimo Sud deprivato dall’unificazione dell’Italia.

Ed a tal proposito il memoria del Ricciardi ha in sé una chiara testimonianza di quanto la tanto decantata ricchezza dei Borbone fu un qualcosa che, specie nel 1799, fu tolto al suo stesso popolo lasciato a morire di fame e di anarchia mentre lui se scappava con la sua degna corte alla volta di Palermo portando via tutte le  ricchezze.

Ferdinando IV non può essere in alcun modo riscattato dalla storia. I documenti e le testimonianze sono univoche. La sua tirannia è intrisa di reati, dal peculato  alla diserzione, dall’inottemperanza delle capitolazioni stipulate in accordo con altre potenze europee, ad una serie infinita di omicidi.

Eppure, a distanza di oltre due secoli, le sue spoglie riposano beate e venerate nella chiesa di Santa Chiara ed i suoi adepti venerano lui e la sua stirpe quali sovrani che resero grande e ricco il sud dell’Italia.

Ricco si, ma delle miserie di un popolo lasciato a macerare nella povertà e nell’ignoranza!

Il quadro che ci offre Amedeo Ricciardi non lascia dubbi sia sui vinti che sui vincitori. I protagonisti ci sono tutti: la dispotica corte di Sicilia, gli Inglesi assoggettati al Borbone, il Ruffo che assoldò i briganti e li lanciò in una guerra fratricida, i Francesi ed i Patrioti. Patrioti e non giacobini come dispregiativamente furono definiti. Patrioti ed Eroi che con il loro sacrificio hanno donato la vita alla libertà.

Ad oltre due secoli da quell’eccidio le loro sacre spoglie giacciono ancora nei sacelli fangosi della chiesa del Carmine Maggiore di Napoli senza nemmeno una lapide a ricordarli, mentre la statua di Ferdinando troneggia in piazza del Plebiscito ed in quella del Mercato, che allora fu teatro delle esecuzioni capitali, anziché erigere un meritato monumento in loro memoria, sedicenti cultori della storia vengono premiati in nome di Masaniello, calpestando quel suolo intriso di sangue innocente con le loro deplorevoli fandonie date in pasto ad un popolo mentalmente rimasto “lazzaro”.

Eppure…

La tirannia ha potuto umiliare la vostra spoglia mortale, ma la vostra fama brillerà sempre d’una luce, cha la rotazione de’ secoli non potrà scolorire giammai.

Il tempio della memoria, ove sono scolpiti i vostri nomi, vi restituisce una vita assai più durevole di quella, che il pugnale del dispotismo vi tolse.

Giorno verrà che la vostra patria vi erigerà un monumento, ove chiunque ha in pregio virtù, patria e libertà, verrà a rendervi un culto regolato.

E frattanto che questo voto non si verifichi, tutti i repubblicani della terra si fanno un sacro dovere di erigervi dentro de’ proprj loro petti un altare.

La controrivoluzione purtroppo, dopo oltre duecento anni e fiumi di storia patria, ci ha ancora impedito di erigere quel monumento tanto auspicato non solo dal Ricciardi, ma anche da Benedetto Croce, Gerardo Marotta ed altri storici.

Bande di lazzari filo-borbonici e sanfedisti ancora osteggiano con le loro deplorevoli ed arroganti pretese il cammino della verità. Ma certo non potranno mai impedirci di venerare i nostri Eroi su quell’altare che con amore abbiamo edificato nel nostro petto, e già la sola consapevolezza d’averlo caro più di qualsiasi altra ricchezza, è tesoro inestimabile e linfa per la nostra anima.

La speranza è che i nostri umili gesti possano un giorno essere utili ai posteri, a quei  ricercatori di verità a cui auguriamo di vivere in un’epoca molto più “illuminata” della nostra.

A noi oggi resta la consolazione di donare la nostra opera a quegli Eroi immortali, pregni di un amore e di una devozione che nessun tempo e nessuna contro-rivoluzione potrà mai scalfire.

 

 

Memoria sugli avvenimenti di Napoli

Amedeo Ricciardi

 

Signora


Invitato da Voi a scrivere una memoria sull’orrorosa catastrofe di Napoli, promisi tosto di compiacervi.

Non sentendo che il solo desiderio di eseguire i comandi di una persona che a tanti titoli io rispetto, non mi accorsi allora che l’impresa era troppo ardua per me.

Come mai poter soddisfare un gusto fino e delicato, quanto il Vostro?

Vi voleva il pennello di Zeusi per piacere di Apelle?

Altronde scossa la mia sensibilità dall’atrocità di tanti fatti, che si sono tutti operati sotto de’ proprj miei occhi, et quorum magna pars fuit, mi ea pressocché  impossibile di non entrare in certi dettagli, che potranno forse crearvi della noia.

Ma la promessa era già fatta: ed esitare ora mai anche per un momento ad eseguirla, sarebbe stato epr me un delitto.

Voi,che alla dolcezza del temperamento, alla delicatezza delle vostre maniere, ed ala bellezza del vostro ingegno, riceveste il dono di accoppiarvi un’anima ancor più bella; e che inglese di origine, ne possedete tutte le virtù, senza esserne contaminata da alcuno de’ vizj; sì voi stenterete a concepire il complesso di tante nefande scelleratezze, che, nella dolcezza de’ costumi europei, da’ vostri nazionali si son commesse in Napoli: e vi  sentirete urtare soprattutto dalla parte attiva, che in questa deplorabil tragedia vi han giocate le famose due donne, Miledi Hamilton, e Carolina, degne l’una dell’amicizia dell’altra.

Ma sovvengavi che in un secolo di lumi, dei Sejani non potevano armarsi per combattere la ragione, senza demoralizzare interamente i di loro agenti ed esecutori: e che l’angelo delle tenebre, esso pure, senza il soccorso di due furie, giammai non sarebbe pervenuto ad affliggere di tanti e sì orribili mali la troppo languente umanità.

Afflitta nel contemplare le tante e variate scene di delitti e di atrocità, che la controrivoluzione di Napoli vi offre, consolatevi riflettendo all’economia inalterabile della natura. Quando più minaccia di distruggere le produzioni della sua mano, è allora che questa madre benefica è più feconda di riproduzione. E’ il soffio distruttore degli uragani che fertilizza le Antille. La fermentazione istessa, la dissoluzione degli esseri viventi non è che il principio d’una vita novella. Chi sa che la devastazione, portata dalla mano della tirannia nelle più belle regioni d’Europa, non giovi ad accelerare l’arrivo d’un epoca troppo fortunata pel genere umano?

I popoli europei allora, discepoli tutti egualmente della filantropica filosofia sviluppata dal seno della rivoluzione francese; più non formeranno tra essi che una gran famiglia di fratelli, sanz’altra gara fra loro che quella di poter ciascuno più potentemente contribuire al benessere ed alla perfettibilità dell’umana natura.

Sulla speranza che questa porzione dell’umanità possa offre un giorno a tutta la terra uno spettacolo così imponente, possiamo consolarci ancora d’essere stati noi stessi le vittime.

Qualunque poi sia per essere il destino, di questo picciol travaglio, che vi presento; esso senz’alcun dubbio sarà sempre, per me, un monumento di rispetto per la vostra persona, e dell’intero attaccamento del cuore all’infelice mia Patria, ed alla memoria di tanti illustri suoi figli, che distinti in amore per essa, lo hanno finalmente suggellato col proprio di loro sangue.

Si appartiene ora alla robustezza ed all’incantesimo della vostra penna di vendicare dinanzi al tribunale dell’opinione pubblica l’oltraggiata umanità; e di raccomandare questi eroi del patriottismo alla venerazione de’ secoli avvenire.

Me beato! Se somministrandone li primi e li più informi materiali, avrò io il merito di aver affrettato questo religioso ed interessante lavoro, che la filosofia a ragione reclama dalla vostre mani.


Salute e rispetto


Montmorency, 26.

 

Napoli 1799

 

Il gabinetto di Napoli, malgrado al picciolezza di quel Regno, ha fatto parlar molto di sé nel corso della guerra presente: ma si è mai conosciuta tutta l’influenza che esso ha avuto in questa sanguinosa lotta di Europa?

Tutti sanno che la Repubblica Francese, rappacificata col re di Napoli, riprese indi le armi contro di lui, e giunse pure a sbalzarlo dal suo trono: ma si è mai saputo quale ne è stata la vera cagione?

Si sono mai svelati gli occulti ma terribili colpi, che nel seno stesso della pace, quella corte lanciò al Popolo Francese, e le profonde ferite, ch’essa gli fece?

La Regina di Napoli è conosciuta generalmente per la furia d’Averno che allumò la nera torcia della guerra in tutta l’Europa: Ma si è mai ravvisato  che la condotta di questa donna non è che il risultato dello spirito animatore di quella corte; e che fino a tanto che essa dominerà in quella parte d’Italia, la pace per la nazione francese, ad onta di qualunque trattato, sarà sempre precaria, ed illusorj li suoi rapporti commerciali?

Si sa che sulle rovine della monarchia s’installò in Napoli un governo repubblicano. Ma si sono mai consciute tutte le circostanze, che accompagnaron questo memorabile avvenimento?

Troppo rumore ha fatto la (sic)! contro – rivoluzione di Napoli: ma si sono mai risapute le vere cause che han preparata questa catastrofe assai funesta all’umanità per le sue conseguenze ferali.

Tremila patrioti napoletani gittati dalla corte di Napoli sulle coste di Francia, ricchi una volta nella patria loro, e condannati ora alla mendicità, sembra che non reclamino, che il sol diritto di ospitalità dalla Nazione francese, che li sta in gran parte nutrendo con delle largizioni degne della sua generosità: ma si sono mai osservati li sacri diritti, ch’essi portano scolpiti sulla di loro fronte, e la garanzia che tutti i popoli civilizzati sono nell’obbligazione di dover prendere, se pur non si voglia far rinculare l’umanità ne’ tempi tenebrosi della più orrorosa barbarie?

Questi sono appunto gli oggetti che mi sono proposto, scrivendo la presente memoria.

La Corte di Napoli, la nemica più dichiarata della rivoluzione francese, de’ sui sublimi principii, sbalordita dal rapido progresso delle armi del Generale Bonaparte in Italia, fu una delle prime ad umiliarsi al governo francese. Domandò dunque pace, e l’ottenne, ma a condizione tra gli altri articoli, di doversi staccare dalla coalizione, ed in particolare dall’Inghilterra, e di non ammettere ne’ suoi porti che solo quattro bastimenti armati in guerra di ciascuna delle nazioni belligeranti.

Come questo trattato per la Corte di Napoli non era che il risultato della propria debolezza e della sua nativa viltà piuttosto che di sentimenti pacifici e di moderazione, così non era difficile a prevedere, che ben corta ne sarebbe stata la sua durata.

Era troppo recente, e troppo forte l’esempio di perfidia dato da essa nel rincontro della presa di Tolone.

Supponendo allora che fosse oramai venuto il tempo di poter impunemente nuocere alla Francia, si affrettò di spedire colà in soccorso de’ coalizzati, vascelli, truppe, e munizioni di guerra; e ciò malgrado la neutralità, che l’anno prima avea giurata, intimidita dall’aspetto minacciante della flotta francese, che a quest’uopo sotto il comando del contrammiraglio La Tuoche si presentò alla rada di Napoli.

Ognun dunque congetturava con fondamento, che quella Corte, inimica implacabile del nome francese, inquieta e disleale per natura, non avrebbe mancato di burlarsi di nuovo de’ suoi giuramenti, tostocche se ne fosse presentata l’occasione opportuna, siccome non mancò indi molto a verificarsi.

La Regina di Napoli in particolare, essa che avea così potentemente influito in tutte le corti di Europa per accendervi il fuoco della guerra: la Regina di Napoli che aveva promesso in voto all’ombra di Maria Antonietta il sangue di tutto il popolo francese; e che rimontare mai sempre la molla della vendetta, teneva finanche dipinto nel suo gabinetto il quadro dell’esecuzione di sua sorella, la Regina di Napoli, vinta ora de abbattuta, non sapea neppure tollerare il pensiero, che un ambasciatore della Repubblica Francese, per colmo di sua umiliazione, spiegasse nella sua capitale tutto il lustro d’una gran nazione, rigenerata colla distruzione della monarchia.

La coscienza de’ suoi delitti verso de’ proprj sudditi e di tutta intera l’umanità, le faceva anche temere che la presenza de’ francesi, cagionando un movimento più rapido alla propagazione de’ diritti dell’uomo, non accelerasse lo scoppio del risentimento nazionale contro d’una monarchia imbrattata d’ogni genere d’iniquità.

Quindi non è difficile ad indovinare quale sia stato il rollo, che in riguardo al ministro francese menò la Corte di Napoli, in conseguenza della sua naturale viltà ed orgoglio, e della sua sospettosa perfidia che ne formano insieme il suo carattere costitutivo.

Se l’ambasciatore francese nel segreto della reggia gustava il piacere di veder umiliata a’ suoi piedi la Regina di Napoli; era poi condannato a divorare in faccia al pubblico delle mortificazioni le più sensibili per un uomo sentimentale.

Egli dovea primieramente tenersi come isolato nel seno di quell’immensa Capitale.

La sua abitazione stava mai quasi sempre bloccata da spione di corte. Infelice quel napoletano che per qualche combinazione fortuita trovato si fosse ravvicinato, non dico ad un individuo della Legazione, ma anche ad un commissionario qualunque francese.

Un giovane dilettante di violino, d’ordine sovrano, fu arbitrariamente condannato ai ferri nella piazza di Messina, perché aveva sonato de’ concerti con un artista francese, il cittadino Kreitzer, spedito in Napoli dal Direttorio per incettarvi delle carte di musica.

E sette altri infelici giovani, d’ordine sovrano parimenti, furono condannati a servire per otto anni nelle milizie, solo perché si erano fatti vedere in teatro con de’ capelli tagliati alla stessa maniera, come li portava l’ambasciatore straordinario Garat che da pochi giorni erasi presentato in quella corte.

Erano poi trattati come rei di delitto captale quei Napoletani, che avessero osato di leggere solamente la costituzione francese.

Così dunque la Corte di Napoli si diportava verso di una Nazione, la cui costituzione aveva già solennemente riconosciuta e se n’era dichiarata l’amica.

Lo specioso pretesto che l’armata francese destinata per l’Egitto piombar potesse sulli Regni delle due Sicilie malgrado l’assicurazione più precisa, che se ne dava in contrario dal Ministro di Francia in Napoli, ridonò al gabinetto di Saint James la solita influenza sulla Corte di Sicilia: ed il Ministero Brittanico ne abbracciò con trasporto l’apertura, sperando di poter rimmergere così ‘Europa continentale in una nuova guerra più sanguinosa della prima, siccome disgraziatamente è avvenuto.

La Corte d’Inghilterra spedì dunque a richiesta della Corte di Napoli una delle sue flotte nel Mediterraneo coll’ordine di covrire li Regni delle due Sicilie da un attentato ostile  dalla parte ei Francesi.

Lord Nelson che la comandava fece rotta addirittura verso i mari di Napoli, dove diede fondo nella rada di Pozzuoli, luogo distante circa due leghe da quella Capitale.

Ivi pervenuto spedì tosto uno dei suoi Ufficiali in Napoli: costui senza che si fosse fato assoggettare ad alcuna delle solite formalità di salute pubblica mise subito piede a terra: ed avendo tenuto un abboccamento col Ministro Inglese il Cavaliere Hamilton, entrambi poi insieme si condussero in corte.

Dispacciatosi quivi delle sue commissioni, l’officiale inglese fece ritorno a dirittura a bordo della sua flotta: la corte di Napoli con egual celerità fornì li vascelli inglesi di piloti delle sua propria marina, per poterli guidare nel periglioso passaggio del canale di Messina: e l’ammiraglio Nelson in seguito non tardò neppure un momento a far vela verso l’isola di Malta, ove sapevasi che ancora si tratteneva colla sua armata di terra e di mare il generale Buonaparte.

Giunto Nelson ne’ mari di Malta riseppe che l’armata francese preso aveva il cammino d’Egitto; ed egli si mise tosto a darle la caccia, inseguendola appresso.

Ma o fosse opra del genio di Buonaparte, o forza del destino che presiede alla libertà francese, Nelson senza incontrarsi per viaggio colla flotta francese, la precedette di due giorni in Alessandria.

Non avendo trovato ivi notizia veruna della flotta nemica, suppose che la spedizione di Egitto fosse del tutto efimera; e che il general Buonaparte non ne avea fatta precorrer la fama, che a solo oggetto di ingannarlo, per poter eseguire frattanto la sospettata invasione della Sicilia.

Ritornò dunque sulli suoi passi, facendo vela verso di quell’isola; ma con sua sorpresa, lungi di ritrovarvi la flotta gallicana, egli ne perdé quivi ogni traccia.

Dopo di essersi trattenuto colla sua flotta nei porti di Sicilia pel giro di un mese, venne avvertito che in Egitto aveva realmente approdato la flotta nemica, e che continuava tuttavia a stazionare in quei mari.

Egli vi accorse, e seguì la famosa azione di Abukir.

Di ritorno d’Alessandria Nelson col suo vascello ammiraglio smattato e perciato tutto da palle si condusse a Napoli.

Il suo ingresso in quel porto fu per lui un trionfo, tanto fu egli festeggiato dalla Corte di Napoli.

Miledi Hamilton cresciuta fra le lordure de lupanari, e per una catena di circostanze le più bizzarre divenuta indi la moglie legittima dell’ambasciatore inglese, era a quell’epoca la prima favorita della Regina di Napoli, così in grazia dell’odio esaltato che essa nutriva contro de’ francesi, come pe rinfluenza segreta, che costei le somministrava presso del Ministero Brittanico.

Quanto di scurrile e l’impertinente può fare una donna furiosa e scostumata, lo fece allora Miledi Hamilton per celebrare in Napoli la disfatta dei francesi: e poco mancò che a forza di sollecitazioni e di denaro sparso da essa non si eccitasse un movimento di lazzaroni della piazza di Santa Lucia, ove albergavano li ministri delle due repubbliche francese e cisalpina.

La battaglia di Abukir fece interamente cadere la maschera della Corte di Napoli.

Non contenta della infrazione, fatta da essa colla sua parte passiva, all’ultimo trattato di pace conchiuso con la Francia, quella Corte volle ancora darsi il tuono di esser la prima a comparire sul teatro delle sciagure di Europa.

Il timore, questa sola forza compressiva per li cuori depravati, pareva oramai intieramente rimosso ed annientito,

L’esercito d’Egitto formato del fiore delle armate francesi, Buonaparte istesso, il terrore de’ tiranni, sembravano rilegati per sempre dall’Europa.

E la Repubblica francese, questo colosso che quattro mesi prima minacciava della loro esistenza tutt’i troni di Europa, denudata ora del sostegno di tanti Eroi, faceva all’occhio volgare la compassionevole figura del leone decrepito di Fedro.

La Corte di Napoli dunque liberata da ogni timore ed incoraggiata dall’assistenza della vittoriosa flotta inglese, risolvé di fare la guerra alla Francia, e si mise subito a fare i preparativi.

A quest’uopo fu ordinata una leva di quarantamila uomini per portare l’armata fino al numero di centomila combattenti: e questa leva in tutt’i punti del Regno fu eseguita in un giorno solo, giorno 2 del mese di settembre 1798.

Per supplire ad una spesa d’una armata superiore di molto alle forze della monarchia delle due Sicilie, bisognò far uso di mezzi che non sono difficili a vedersi in un governo monarchico, soprattutto quando è pervenuto al colmo del dispotismo e della tirannia.

Quattro quinti del numerario del Regno di Napoli si teneva chiuso in sei pubbliche Casse, site nella Capitale, denominate col nome di pubblici banchi, l’origine de’ quali si profonda ne’ secoli.

Erano rei di delitto capitale li cassieri rispettivi de’ Banchi, se avessero osato di dar fuori de’ biglietti per una somma anche la più menoma, senza averne prima incassato l’equivalente in moneta effettiva.

Questi biglietti di Banchi, chiamati in Napoli fedi di credito, autorizzati dalla esistenza reale del denaro che rappresentavano, dovevano necessariamente riscuotere il maggior credito possibile presso la nazione, ed infatti ‘ottennero.

Il vantaggio che ne ritraeva il commercio interno, ben presto ne accrebbe l’uso, e la legislazione del paese venne poi a mettervi l’ultimo sostegno; giacché presso de’ Tribunali non si prestava fede a de’ pagamenti già fatti, se non si fossero eseguiti con fedi di credito.

Tutte queste circostanze riunite insieme facevano dunque che il numerario del Regno di Napoli per quattro quindi della sua massa totale si trovasse tutto concentrato ne’ sei pubblici banchi.

La fede de’ Banchi dalla loro fondazione in poi pel giro di secoli, ed a traverso delle tante catastrofi, che ha sofferto quello sgraziato paese, giammai non era stata vulnerata.

Il popolo nelle sue rivoluzioni, ed il governo ne’ varii cambiamenti della monarchia aveva sempre rispettata in quelli la fede pubblica e la proprietà de’ privati.

Era riservato a Ferdinando IV, il ristauratore in Italia dell’ordine sociale, e della perfezione morale cristiana, la gloria di mettere sono solamente i suoi artigli sopra di questo sacro deposito, ma di distruggerne interamente l’esistenza.

Egli dunque prese a sé tutto il danaro riposto ne’ Banchi.

Per colmo di perfidia creò pure una quantità immensa di fedi di credito, che per mezzo di emissarj di Corte  fece indi cambiare in denaro contante nelle province con la perdita del 10 e 15 per cento, succhiando così quella parte residuale di numerario che si trovava sparso per le sacche de’ particolari.

Divenuto reo di peculato, Ferdinando ambì pure la gloria di farsi ladro sacrilego, e lo fu.

Egli ordinò che le statue e tutti gli altri lavori di argento che servivano di ornato ne’ pubblici tempj si trasportassero nel tesoro reale, facendone la soluzione in fedi di credito, e convenne tosto ubbidire.

Finalmente comandò che i articolari proprietarj nel tesoro reale parimenti trasportate avessero le loro mobilie d’oro e d’argento, promettendone il pagamento a volontà de’ possessori, o in fedi di credito, o in tanti beni fondi di luoghi pii laicali, e di beneficii ecclesiastici.

Con questo editto si era promessa a’ denuncianti rispettivi la valuta degli argenti di que’ particolari, che mancati avessero fra il giro di un mese di esibire il loro vasellame.

Non ci voleva che una sanzione penale come questa, per spargere la diffidenza di tutte le famiglie private, e per obbligare in tal guisa li poveri proprietarj a fare a gara a chi poteva essere il primo a consegnare li propri argenti.

Possessore di tutti i tesori della Nazione, ed alla testa di ottantamila soldati in attività che stavano tutti accampati nelle frontiere del Regno, in Re di Napoli nientedimeno non osava mettere piede sul terreno della Repubblica Romana, presidiato allora da circa ventimila francesi, se prima gli Austriaci attaccati non avessero dalla parte del Veneziano.

La sua natural codardia, più che la storia delle strepitose imprese operate dalle legioni francesi per conquistare la propria indipendenza, rendevalo da giorno in giorno sempre più irrisoluto.

Per toglier dunque le sue incertezze convenne scriverne a Vienna.

L’Imperatore, che aveva risoluto di non riprincipiare alla guerra, se prima arrivati non fossero li Russi, che stava già attendendo, rispose che l’armata di Napoli poteva differire ancor essa di entrare in campagna.

Questa risposta non piacque al partito inglese, alla testa di cui vi erano la Regina di Napoli e il di lei favorito, il famoso ministro Acton.

Importava poco al ministero Brittanico, che l’armata avesse o no felice successo, purchè la guerra di Napoli potesse riaccendere la fiaccola della discordia dalla parte della Germania; ed altronde si era sicuro, che vinto o vincitore, che fosse il Re delle due Sicilie, l’Imperatore si sarebbe allora veduto strascinato a ripigliar le armi, ciò che era l’oggetto de’ voti del gabinetto inglese.

Si falsificò dunque la risposta di Vienna, facendosi supporre al Re, che gli austriaci avevano già incominciate le ostilità dalla parte del Veneziano: ch’egli potea intanto attaccare il nemico comune dalla parte dell’agro romano: e che Bologna sarebbe stato il punto di riunione delle due armate austronapoletane.

A questo tratto di perfidia Nelson, che seguitava a trattenersi nella rada di Napoli, volle aggiungervi anche della comica.

Mentre in quella Corte si ordivano tute queste reti alla tranquillità de’ popoli di Europa, Nelson fece vela verso Malta, spaccando che andava a farsene padrone in pochi giorni; ma ivi giunto, per rendere più brillante la sua spedizione, in luogo di Malta, fece l’invasione dello scoglio di Cozzo, ove conquistò una bandiera tricolorata. Di ritorno da questa campagna, che li cortigiani di Napoli decantarono assai più che non fu celebrata dall’antichità la spedizione per la conquista del vello d’oro, Nelson si condusse addirittura nella reggia di Caserta, ove la Corte dava delle feste per seguito parto della principessa ereditaria.

Giunto ivi in presenza del Re, Nelson gittò ai suoi piedi la bandiera suddetta novellamente da lui conquistata.

Una bandiera francese, altre volte tanto formidabile a Ferdinando, messa ora a’ suoi piedi, e postagli come in tributo da un ammiraglio della Gran Brettagna coronato dalla vittoria, funzione fu questa che appagò pienamente il suo naturale orgoglio, e finì di fargli perdere il cervello.

Riputatosi oramai a giusto titolo il Re de’ Re, egli non pensò che a rendersene sempre più degno, facendo la guerra per restituire ai troni d’Europa il perduto decoro.

Diede dunque subito il segno di marcia al suo esercito, e se ne mise egli stesso alla testa.

La marcia  dell’armata napoletana dalle pianure di S. Germano sino a Roma non incontrò ostacolo alcuno dalla parte de’ francesi.

Ma mentre il Re delle Due Sicilie si tratteneva in quella capitale, mentre quivi godeva delle adulazioni de’ suoi vili cortigiani, e pasceva insieme la sua natural crudeltà colla persecuzione destata ai poveri patrioti romani, ginsagli la ferale novella, che la sua armata era stata da’ francesi attaccata in tutt’i punti, e che in tutt’i punti parimente era stata abbattuta, e messa in piena dirotta.

All’istante egli se ne fuggì via da Roma, ed immaginando nella fuga di aver sempre a’ suoi fianchi le baionette repubblicane, non respirò da’ suoi panici timori, se non quando si vidde arrivato nella reggia di Caserta.

Il partito inglese temé, che abbattuto il Re da questa successo infausto, altrettanto da lui non preveduto, la sua naturale viltà non gli consigliasse una pace precoce, ciò che avrebbe potuto forse attraversare la desiderata guerra, che oramai sembrava inevitabile dalla parte dell’Austria.

Quindi lo impegnò a ritirarsi in Sicilia, e per determinarlo a partir subito per quell’isola, egli si fece credere, che il rovescio da lui sofferto non era che il risultato di tradimenti de’ propri uffiziali, e che nella istessa città di Napoli era prossima a scoppiare una rivolta popolare, organizzata da partigiani francesi.

A quest’uopo la regina collo sborso di seimila scudi napoletani, fatti spargere fra i lazzaroni del molo piccolo da uno de’ suoi emissari, fece eccitare in quella piazza un movimento popolare, di cui ne fu vittima, stata da essa stessa designata, il corriere di gabinetto, che recata aveva da Vienna l’ultima lettera dell’Imperatore, di cui si è parlato di sopra.

Questo infelice giovane coverto tutto di ferite, e già morto, fu trascinato per terra sotto le finestre del palazzo reale, ed all’aspetto dell’istesso re, che spaventato dagli urli della moltitudine era corso ad affacciarsi.

Con questa tragedia mentre la Regina accreditava i timori sparsi già nell’animo di suo marito, volle anche disfarsi di un testimonio, che in quella circostanza era troppo incomodo per lei.

Un fatto così atroce, avvenuto sotto dei proprii occhi, mise il colmo dello spavento, che il Re avea già incominciato a concepire.

Quindi si risolvé a partire la notte vegnente, ed a quest’uopo si fecero riporre a bordo de’ vascelii inglesi il tesoro reale e li capi d’opera di scultura che esistevano ne’ reali musei.

Però primacché la corte si fosse imbarcata si usò la precauzione di far smontare tutte le batterie, che guardano il porto e la rada di Napoli.

Si temé che i popolo, giustamente irritato da questa vergognosa diserzione del Re, che fuggendo trasportava seco tutti i tesori  e le spoglie le più anche preziose della nazione, non si portasse per dispetto e per disperazione a qualche atto di ostilità.

Il Re partendo lasciò per suo vicario generale in Napoli il general Pignatelli, a cui tra le varie istruzioni ordinò di fare affondare i vascelli componenti al sua flotta, che per difetto di velame e di altri attrezzi non poteva menar seco in Sicilia;

di brugiare tutte le barche cannoniere, che erano centoventi di numero, e di vuotare nel mare tutto il magazzeno della polvere; di mettere in fiamme oltre a ciò all’avvicinamento de’ francesi l’arsenale ed i pubblici granai della capitale, e di far trucidare finalmente li due ceti civile e nobile, che tutt’indistintamente erano de’ giacobini agli occhi suoi.

Li vascelli furon tosto sommersi, e l’acqua ed il fuoco distrussero successivamente la polvere e tutte le scialuppe cannoniere.

La vigilanza e la coraggiosa resistenza però della comune di Napoli, che riscuoteva allora tutta la fiducia ed il rispetto del popolo, non permise che il general Pignatelli eseguir potesse parimenti l’incendio dell’arsenale e de’ granai; ed un puro colpo poi di provvidenza fece andar a vuoto la proscrizione stata già da lui organizzata, siccome diremo a suo luogo.

La notte del 24 dicembre 1798 la flotta inglese fece vela per la Sicilia.

Per viaggio fu sorpresa da una tempesta delle più orribili di mare.

Il vascello Nelson, che portava a bordo la Corte , restò smattato; una polacca carica di cameriste e di altra gente di corte fu inghiottita dalle onde; e l’ultimo de’ figli maschi del Re preso da una violenta convulsione in mezzo all’urto de’ flutti vi perdé la vita.

Chiunque ha cuore, suppone certamente che il Re di Napoli, disertore della sua armata e del suo popolo, ch’egli aveva sagrificato per suo proprio capriccio e perfidia: esule del suo regno, ove avea ricevuto al vita: avanzo esso stesso d’una tempesta, della quale sotto de’ proprii occhi veduto avea annegarsi un vascello de’ suoi cortigiani, e spirare uno de’ proprii figli; chiunque ha cuore, io ripeto, suppone che il Re di Napoli, afflitto in un punto da tante e sì terribili calamità, o dovea perire d’affanno, o odiar dovea per sempre la luce del giorno.

Purtuttavia niente di ciò avvenne.

Ferdinando, sempre uguale a se stesso, arrivando in Sicilia avea già tutto obliato, e prima di mettere piede a terra, dal bordo del vascello di Nelson scrisse in Napoli a D. Onorato Gaetani, duca di Miranda, suo favorito di Corte, incaricandogli di mandargli certi fucili da caccia, ed alcuni cani che Egli gli designava. L’infelice umanità! A quali esseri, annunciati dal fanatismo li rappresentanti della Divinità in terra, deve’essa sacrificarsi!

Frattanto le colonne francesi, marciando sempre col passo della vittoria , penetrarono nelle frontiere del Regno, e dopo pochi giorni padrone già di tutte le piazze – frontiere e delle province settentrionali, si presentarono sotto le mura della piazza di Capua alla distanza di cinque leghe da Napoli.

Mentre ivi si rimanea l’armata repubblicana, il viceré Pignatelli ed il general Mark, che comandava l’armata napoletana, conchiusero un armistizio col generale in capo francese, il generale Championnet.

La piazza di Capua fu rimessa ‘a francesi.

Circa sei province furono comprese nella linea di demarcazione, che si sarebbe occupata di essi; e si obbligò pure il viceré Pignatelli di versare fra il giro di pochi giorni dieci milioni di moneta di Francia nelal cassa dell’armata francese.

La prima rata di due milioni venne dal Viceré sborsata all’epoca convenuta.

Ma o sia che la Corte di Sicilia disapprovasse, com’è probabile, l’armistizio; o che si trovasse egli nell’impossibilità di adempire all’altro pagamento già maturato; quello ch’è costante si è, che Pignatelli destò l’insurrezione in Napoli, consignò al popolo insorto tutte le armi ed i quattro castelli della città, ed indi se ne fuggì tosto in Sicilia.

Il movimento della capitale si comunicò subito all’armata.

Le truppe napolitane immmantinente si sciolsero tutte, ed il general Mark si vide costretto a chiedere asilo nel campo francese.

Nel momento che vi fu destata l’insurrezione, il Viceré consegnò la nota fatale della proscrizione a de’ satelliti, già da lui disposti a quest’uopo, perché il popolo ne’ suoi movimenti anarchici l’avesse poi eseguita.

Ma la massa del popolo, ricevendo l’impulsione verso dell’insurrezione, prese fortunatamente una direzione opposta a quella che si era tracciata.

Persuaso d’esser stato tradito dai ministri e dai generali del Re, divenne furioso contro costoro, che non ebbero a durar poca fatica per salvarsi.

Una Capitale di quattrocentocinquantamila abitanti agitata tutta nel vortice dell’insurrezione; un popolaccio ignorante, e fanatizzato per dieci anni continui, messo tutto in arme ed arbitro assoluto della vita e delle proprietà di tutti i cittadini, offrivano uno spettacolo orribile all’occhio dell’uomo sensibile, che ne calcolava in segreto tutte le conseguenze ferali.

Pur tuttavolta il popolo non si abbandonò ne’ primi giorni a tutti quegli eccessi, che se ne dovevano temere.

Colpito dal rispetto che aveva sempre conservato per la comune di Napoli, riguardavala ora come sua legittima Sovrana.

Per colmo di fortuna il giovine Principe di Molitierno, che si era distinto in bravuta nell’armata reale, era per questo stesso motivo divenuto allora l’idolo del popolaccio, e fu da esso proclamato suo generale.

Egli con suo editto a nome del popolo ordinò che ciascuno deponesse le armi nella Casa della Comune, e minacciò pena di morte a coloro che v’avessero contravvenuto, o che in altra maniera turbassero la pubblica tranquillità.

Il disarmo fu in parte eseguito, ed il popolo cominciava già a rientrare nel buon ordine.

Era questo il momento più favorevole per gittare in Napoli le basi d’un governo libero e veramente indipendente.

Tutti si accordavano per esecrare lo stupido e feroce Ferdinando, e per odiare la sua dinastia.

Ma il cieco fanatismo di taluni pel realismo, il timore di alcuni altri di perdere anche in menma parte le loro gotiche prerogative  consagrate dal tempo e dall’ignoranza, e l’inerzia in molti altri, fecero che si perdesse questa bella occasione, in cui la libertà si offriva da sé alla nazione napoletana, accompagnata dall’indipendenza e dalla pace insieme.

Il general Moliterni finì con perdere la confidenza del popolo, e fu fortuna per lui di potersi chiudere nel castel S. Eramo, ove con destrezza v’introdusse de’ patrioti dopo di averne mandati via li lazzaroni che vi stavan di guarnigione: la Comune di Napoli si sciolse, il popolaccio riprese le armi: e l’anarchia in un momento si riaccese ed avvampò  da per tutto; ma con dei fenomeni assai più spaventevoli della prima.

Il duca della Torre e ‘l suo germano fratello D. Clemente Filomarini, uno de’ bell’ingegni napoletani, furono le prime vittime dell’ empito popolare.

Entrambi furono trucidati, li loro cadaveri restarono inceneriti dalle fiamme; ed il di loro ricco e superbo palazzo venne abbandonato al saccheggio ed alla devastazione la più completa.

E dopo che il popolaccio si ebbe una volta imbrattate le mani nel sangue; ed aveva gustato insieme la dolcezza della confisca insurrezionale, il saccheggio, il suo furore non potea che sempre più divenir ferale in progresso, se a questo torrente una mano benefica non veniva ad apporvi una diga.

Che far dovea intanto il general Championnet, la cui armata teneasi allora accampata a tre leghe da Napoli?

Il Viceré Pignatelli ed il generale Mak, co’ quali avea egli trattato, avevano rispettivamente disertato dal posto loro: l’armata napoletana più non esisteva: ed il Viceré Pignatelli, abbandonando il governo tra li flutti dell’anarchia popolare, eccitata da lui medesimo, sciolto avea in Napoli ogni nodo sociale.

Svincolato dunque da ogn’impegno contratto coll’armistizio, il sacro diritto di natura, l’umanità istessa abbligavalo ora per contrario ad accorrere in difesa d’un infelice popolo, che l’anarchia era prossima a divorare.

Quindi egli s’indusse a marciarvi colla sua armata il giorno 21 gennaio 1799.

Li lazzaroni corsero tutti alla difesa. Essi si battono non già a nome del Re, che aveano interamente obliato, e che detestavano ancora; ma si battono per sostenere la propria anarchia, e per respingere li francesi, che il fanatismo per dieci anni continui non aveva mai cessato di mostrargli come li distruttori della Religione, e li violatori della pudicizia e della pace privata delle famiglie.

Dopo due giorni e mezzo di combattimento il più ostinato, l’armata francese composta di soli seimila uomini giunse a piantare in tutti i punti della città il suo vessillo tricolorato.

Non vi voleva che il coraggio repubblicano e l’abilità francese per superare tante barriere, quante ne opponeva una grande Capitale , divenuta tutta un vulcano, e che tra torrenti di fuoco vomitava per tutto la morte.

All’istante li lazzaroni deposero tutti le armi, e l’ordine pubblico rinacque.

La bella Partenope, che giorni prima sembrava squallida e semiviva, sorrise ora in volto, e parve rinata a novella vita, ricevendo per le mani della libertà l’olivi di pace, ed il pegni di perpetua amicizia e di una sorte migliore.

Il Generare Championnet infatti, entrando vincitore in Napoli, proclamò amnistia per i rivoltosi, e libertà della nazione napoletana sotto la protezione della Repubblica Francese.

Istallò indi un governo provvisorio di ventiquattro persone nominate da lui, ed in tal rincontro proferì in faccia di tutta la nazione e dell’Europa intera, che la istituzione del nuovo governo repubblicano in Napoli era legittimata da doppio titolo, dal diritto cioè che tutti i popoli hanno di riportarsi alla libertà, soprattutto quando dal proprio governo sono abbandonati a loro stessi, e dal diritto di conquista, di cui la Repubblica Francese ne faceva cessione alla stessa nazione napoletana.

Giammai popolo alcuno, uscendo dalle catene del dispotismo, non ebbe la fortuna di eriggersi in Repubblica con titoli meno soggetti alla calunnia degli schiavi del re.

Il Re di Napoli, spergiuro a’ suoi giuramenti, infrattore d’un trattato, che di recente veniva di conchiudere, congiura col governo Brittanico per la distruzione dell’armata di terra e mare della Repubblica Francese.

Perfido e disleale, e per solo genio di moltiplicare i mali della umanità, marcia con mano armata ad assoggettare la Repubblica Romana, nata sotto la protezione del governo francese, e che da truppe di quella nazione veniva allor presidiata.

La guerra dunque, ch’egli quindi si attirò dalla parte de’ Francesi, fu giusta in tutte le sue parti; giusta fu parimenti la conquista che quelli fecero indi del suo regno;

e la legittima perciò la istituzione del governo repubblicano in Napoli, nata in conseguenza della cessione della conquistata sovranità, che la Repubblica Francese si onorò di fare a beneficio della nazione napoletana.

Ma il re di Napoli era anche disertore della sua armata e del suo popolo, su di cui per sola sua perfidia attirato aveva il flagello della guerra.

Egli aveva pure abdicata la sua corona nel momento, che trattò da nemica la innocente sua nazione, involando via i suoi tesori ed ordinando che tutti i suoi mezzi di difesa fossero distrutti, incendiati i pubblici granai, e massacrati li suoi più onesti cittadini: ed il suo ministro finalmente rimasto in Napoli, disertando poi esso pure, prima di fugirsene nel seno dell’anarchia suscitata da lui medesimo, sciolto aveva non solo il governo monarchico, ma tutti i legami finanche d’ogni associazione politica.

Respinta dunque la nazione napoletana per mano del proprio governo nella sua naturale e primitiva indipendenza, e  trattata senza sua colpa come nemica dal suo Re, divenuto a lei ribelle; era essa certamente nel diritto di crearsi un governo, per richiamare a sé la tranquillità e l’ordine sociale: e questo diritto, accoppiato alla cessione fatta a lei dalla Repubblica Francese, diveniva sempre più saldo ed incontrastabile.

Questi due diritti dunque, che uniti insieme servirono di base alla istallazione del  governo repubblicano in Napoli: questi diritti che la ragione reclama, che la filosofia sostiene, e che tutti i partigiani del dispotismo non potranno combatter giammai; questi stessi diritti furono indi calpestati dagli agenti in Sicilie del Re della Gran Brettagna, che seguita a chiamarsi Re d’un popolo libero.

Essi reputarono rei di alto tradimento i membri del governo provvisorio napoletano, e tuti quelli ancora che invitati indi a nome della legge e della patria, impiegarono i loro talenti o le di loro braccia in servizio del governo repubblicano di già stabilito.

E come se la sola ingiustizia non bastasse a far distinguere gl’inimici del genere umano, i satelliti della tirannia: gli agenti inglesi, fattisi li vili istrumenti della vendetta della Corte di Sicilia, vollero pure ricovrirsi del manto della perfidia e del tradimento, come vedremo a suo luogo.

Già il cuore de’ napoletani si apriva alla speranze d’una felicità di progressi senza termine: la gioia era dipinta su tutt’i volti; ed un sole più brillante pareva che abbellisse quel delizioso orizzonte.

Li dolci nomi di libertà e di eguaglianza, elettrizzando il naturale entusiasmo d’un popolo di fuoco, gli faceva fare de’ slanci immensurabili nella carriera della vita repubblicana.

Giovani e vecchi, allevati e cresciuti nel seno della più ricercata mollezza, si viddero tosto trasformati in guerrieri, capaci di tolerare tutte le durezze d’una campagna.

I nobili, vergognosi delle loro gotiche prerogative, che avevan per tanti secoli degradata l’umanità, gioivano ora di chiamare loro fratelli ed eguali quelli stessi che l’orgoglio consacrato dalle leggi facea chiamare loro vassalli.

Tosto il moto di comunicò dalla Capitale alle provincie.

Da tutti gli angoli arrivavano ogni giorno delle deputazioni per felicitare il Governo Repubblicano.

I vescovi nella più grande parte si affrettarono essi pure di  scrivere lettere al Generale Championnet, protestando attaccamento all’armata conquistatrice, ed ubbidienza alla Repubblica.

Fu nelle province napoletane, ove si ebbe, e forse per la prima volta, il consolante spettacolo di vedere la libertà coronata per le mani della religione.

Quasi da per tutto l’albero della libertà fu piantato coll’intervento del clero, che vestito di abiti sacri, coll’apparato il più imponente della religione gl’implorò sopra le benedizioni del Cielo.

Mentre gli spiriti erano in Napoli in questa effervescenza di civismo: mentre il governo provvisorio applicavasi con una mano di rimediare a’ guasti di un’amministrazione viziosa e tirannica, e creava coll’altra li rapporti del nuovo patto sociale; un nero temporale formavasi già nella Corte di Sicilia, che dovea tosto rovesciare l’edificio, che il patriottismo e la generosità del popolo francese si studiavano d’innalzare alla felicità de’ popoli della più bella parte d’Italia.

Quella Corte scaltra ed insidiosa ben si avvisava, che se il nuovo governo si andava a stabilire nelle province, se i popoli della campagna, apprendendo per l’organo del governo, e della legge la teoria de’ diritti imprescrittibili dell’uomo, venivano di uscire una volta da quella stupidezza, in cui venti secoli di schiavitù e di barbarie li teneva sommersi, se uomini sempre laboriosi, e sempre condannati alla indigenza per li vizj d’un governo gotico e tiranno, venivan di gustare una volta il frutto prezioso del proprio travaglio nel seno della sicurezza di un governo costituzionale, ben si avvisava, io dico, la Corte di Sicilia, che se tutte queste cose venivan per un momento a realizzarsi, l’albero della libertà, piantato in mezzo d’un popolo, in cui la sola natura tien luogo di tutto, tosto avrebbe certamente approfondato le sue radici, e che la Repubblica Napoletana sarebbe progredita avanti seguitando l’immutabile corso degli astri.

Denudata dunque intieramente di truppe di terra, ma feconda mai sempre di artificiose risorse, la Corte di Sicilia concepì il progetto di impedire l’organizzazione civile nelle provincie napoletane, con agitare solamente a quest’uopo  la facile, ma turbolenta imbecillità dei popoli.

Il cardinal Ruffo, questo prete impostore e sanguinario, alla testa de’ satelliti di Corte, erasi fissato in Reggio Calabria , ultimo angolo dell’Italia continentale.

Egli assumendo il nome di Papa, col crocifisso e colla spada nelle mani, comandava a nome d’un Dio di pace la guerra civile, il massacro e il saccheggio.

Una felicità eterna ne’ cieli ed il possesso quaggiù delle spoglie de’ patrioti erano le promesse che questo Papa infernale faceva a’ suoi briganti calabresi.

Così cominciò a formarsi quel torrente, che allagò indi tutte le province, e che ingoiò finalmente la nascente Repubblica Napoletana.

Cinque avventurieri emigrati Corsi erano sparsi per la provincia di Lecce.

Costoro prendendo ciascuno chi il nome di principe ereditario di Sicilia e chi quello di principe di Sassonia, ora coll’eccitativo della compassione, ed ora colla forza di briganti accorsi per sostenerli, misero in insurrezione tutta quella provincia.

La credulità giunse talmente ad acciecare li spiriti, che ci furono di quelli che dalla mano di questi impostori brigarono finanche de’ vescovati vacanti e delle piazze di tribunale.

Per le provincie di spargevano poi con profusione de’ proclami stampati coll’armi, ed a nome del Re.

Negli Abbruzzi si annunciava ch’egli era con campo di ottantamila uomini in Puglia; ed in Puglia dicevasi che era negli Abbruzzi.

Ciò bastava per mettere in allarme le popolazioni, e rendevale ritrose a prestarsi agli ordini del governo repubblicano.

Per colmo di disgrazia tutti i facinorosi chiusi nelle carceri o nelle galee, scatenati in mezzo all’anarchia, erano ricomparsi di nuovo sul teatro de’ loro delitti.

La Corte istessa ne avea fatti pure vomitare sulle province  napoletane circa cinquecento altri, ch’erano detenuti ne’ forti di Sicilia.

Tutti costoro, accostumati al sangue ed alla rapina, portavano l’insurrezione ne’ rispettivi paese, per farsi indi un dritto di saccheggiare le case ed i beni de’ patrioti e degli uffiziali municipali, che venivano da essi crudelmente massacrati.

Gl’inglesi, maestri nell’arte di fare la guerra, eccitando da per tutto delle Vandee, si erano stabiliti nell’isola di Procida, alla distanza di sei leghe da Napoli, che avean presa facilmente per mancanza assoluta di guarnigione.

Ivi stabilirono un tribunale di sangue, nella sola persona d’un ministro siciliano a nome Speciale, uomo quanto ignorante, altrettanto crudele e scostumato.

Partendo da questo punto gl’inglesi scorrevano lungo le coste della provincia di Salerno e Terra di Lavoro, e mentre tenevano la corrispondenza di tutte le diverse orde de’ briganti dell’interno, e ne diriggevano l’insieme delle operazioni, essi eccitavano la rivolta de’ popoli del littorale.

Quivi si procuravano degli assassini, ed a forza d’oro si facevano indi consignare da costoro le autorità costituite, cadute nelle di loro mani, o altri patrioti messi nella proscrizione della Corte di Sicilia; e caricatili di catene li conducevano in Procida, ove per mano dell’empio Speciale venivano poi avviati al patibolo.

Il governo provvisorio , privo intieramente di truppe di linea napoletane, non aveva forza disponibile a suo talento, che marciasse subito nei varj punti, ove la Repubblica era minacciata, e dove respinto poi il nemico esterno e compressi gl’interni movimenti, seguitasse indi a stazionare per opporsi a degli ulteriori attacchi dalla parte della Sicilia e per assicurare le rispettive provincie da novelle commozioni intestine.

Circondato dunque da tante procelle, che si sollevavan da per tutto, ed inoperoso per necessità, il Governo non aveva per sé che la sola voce dell’opinione.

Ma altro che proclami ci voleva per sospendere il braccio parricida degli assassini, e per arrestare il progresso di tante orde di contro - rivoluzionarj, che marciavano nella speranza di arricchirsi col saccheggio del dovizioso patrimonio dei poveri patrioti, consacratisi alla causa pubblica.

Quando il pericolo diveniva troppo pressante, allora vi accorreva l’armata francese riunita in Napoli e nelle sue adiacenze.

Tutto cedeva alla presenza di battaglioni invecchiati nella vittoria. Gl’inglesi erano li primi a fuggire, riguadagnando il bordo de’ loro vascelli, ed abbandonavano li popoli della campagna sedotti da essi, ad un inevitabil massacro.

Ma per una funesta filiazione, il disordine attirava la forza francese, e la forza francese moltiplicava poi il disordine.

Istizziti li spiriti sotto il peso di quei mali, che la guerra civile trae seco di necessità, tosto che li francesi eran di ritorno dalla di loro spedizione, l’insurrezione tornava a riprodursi nell’istesso luogo e con violenza maggiore.

Tale era dunque la situazione in ci trovavasi la Repubblica napoletana all’epoca in cui l’armata francese abbandonò Napoli per accorrere in Lombardia, ove le Armate Austro Russe, superate le barriere della Cisalpina, non trovavano più ostacolo che trattenesse il di loro corso impetuoso.

La partenza de’ francesi di necessità consumar dovea in un istante l’opera funesta, della contro-rivoluzione.

Il Governo abbandonato a sé stesso, e denudato interamente di truppe regolate, mancava finanche di fucili, per lo innanzi così abbondanti negli Arsenali di Napoli, e che la timidra prudenza de’ generali francesi fece indi inutilizzare o distruggere.

La sua esistenza dovea dunque divenir precaria presso dell’opinione pubblica: ed il difetto d’opinione contribuì ad accrescere maggiormente l’impossibilità di crearsi de’ mezzi per la formazione per la forza armata.

Quindi la Repubblica napoletana non vidde altro sostegno intorno a sé, che quello della sola guardia nazionale napoletana, e del deciso patriottismo di tanti bravi, che si eran risoluti di non sopravvivere alla perdita della libertà della di loro patria.

Li briganti per l’opposto, liberati dal timore di vedersi affrontati dalle falangi francesi, tanto ad essi formidabili, credettero già sicura per loro la speranza del promesso saccheggio: e questa stessa sicurezza gli accrebbe di ardire e moltiplicò maggiormente il di loro numero.

Li patrioti poi sparsi per le province, perseguitati a vicenda non già per un zelo male inteso, ma per la sola avidità delle loro insanguinate spoglie, furono o massacrati, o fuggendo dal pugnale degli assassini rifluirono nella Capitale.

Così si estinse quel fuoco elementare, che eccitava e manteneva ancora tra i popoli della campagna un avanzo dello spirito repubblicano.

E fu in mezzo a questi orrori controrivoluzionari che cadde vittima monsignor Serrao vescovo di Potenza.

Questo illustre prelato, celebre per le sue produzioni letterarie, aveva travagliato non poco per ristabilire la purità ecclesiastica, combattendo le superstizioni pratiche e le usurpazioni della Corte di Roma.

Fedele interprete degl’insegnamenti evangelici, fu esso il primo fra i suoi diocesani a dichiararsi pel nuovo governo repubblicano, ed impiegò tutte le sue cure pastorali per istillare il vero spirito della democrazia nel cuore de’ popoli, che formavano il suo grege.

Restò egli trucidato per mano de’ briganti, e la città di Potenza ebbe pure il dolore di vedere scherniti per le pubbliche piazze li suoi rispettabili avanzi.

Le provincie e le popolazioni finalmente state fedeli fino a quel punto alla causa della libertà, disperando oramai della repubblica, si affrettarono di sottoporsi a’ satelliti del cardinal Ruffo, per prevenire o per iscansare almeno in parte la vendetta reale che ciascuno già immaginava terribile ne’ suoi effetti.

Così in pochi giorni tutte le provincie si viddero ricoperte dal nero velo della controrivoluzione.

Il realismo vi alzò sopra la sua orgogliosa testa, circondata de’ segni del fanatismo, della desolazione e della morte, e la Repubblica Napoletana restò quasi limitata nel perimetro della sola Capitale.

Come mai è dunque avvenuto che la libertà nata in Napoli con auspicj così fausti sia poi perita, stando ancor nelle sue fasce?

E’ stato ciò forse l’effetto dell’attaccamento de’ popoli al realismo, o della seduzione del fanatismo religioso, o di entrambe queste cause unte insieme?

Purché non si voglian confondere li sintomi con la causa del male, diciamo piuttosto che il difetto di sistema nel governo provvisorio e la mancanza nella repubblica di un’armata a lei propria, da cagione assai più alta derivata, sono state la vera sorgente de’ mali, che colla perdita della libertà hanno interamente distrutta la più bella regione d’Europa.

Che i popolii fidino nell’esistenza politica, e nella durata del proprio governo; che questa fiducia sia il risultato di una seria organizzazione interna, o d’una forza capace d’imporre al nemico esterno, e di far rispettare nell’interno l’ordine sociale;

si potranno eccitare allora delle collisioni in fatto d’opinione: ma siamo sicuri che quella dettata dal governo, se coincide coll’interesse del popolo, diverrà tosto la dominante, e d’altronde chi non sa, che le opinioni anche le più bizzarre ed assurde, sostenute dal successo, si han sempre trascinato dietro il torrente della moltitudine.

La sola libertà, che è figlia della natura, dovrà dunque incontrare degli ostacoli insormontabili per penetrare nel cuore dell’uomo, ove ha ricevuto la sua sede naturale?

Ministri del culto fanatici o impostori predicavano, è vero, anatema alla libertà: ma perché mai li popoli dovevano prestarsi alla voce di questi esseri sconosciuti o sprezzevoli ai loro sguardi, piuttosto che ubbidire alle esortazioni di tanti vescovi venerandi per le loro virtù, per la loro età, e che essi erano accostumati a riguardare come li successori degli apostoli, e gli organi legittimi della verità  evangelica?

Non fu il santo cardinale arcivescovo di Napoli che scomunicò il pseudopapa Ruffo , e fece della contro-rivoluzione un peccato da non potersi assolvere che da lui solo?

Il vescovo Natale non minacciò li suoi diocesani di anatema, e di consegnare le loro anime al demonio, ne presto non si rimettean nella subordinazione del governo, abbandonando gl’inglesi, e non piangeano innanzi a Dio il grave peccato da essi commesso consegnando nelle mani di costoro le autorità municipali?

Nello stesso tuono, e con la stessa unzione veramente religiosa non erano scritte le pastorali del vescovo della Torre, del vescovo Serrao e di tanti altri arcivescovi e prelati divenuti oggi li martiri del di loro zelo pastorale, sotto la ferrea tirannia del Re di Napoli?

Ma nel Regno stesso di Napoli non si hanno pruove bastanti dell’impotenza de’ calmori del fanatismo quando i popoli per la bocca dellìautorità pubblica, che riscuote tutta la di loro fiducia, sono invitati a rientrare in possesso de’ loro diritti, anche di quelli, che più si collidono coll’interesse immediato del clero?

Nelle rispettive controversie per l’abolizione delle decime ecclesiastiche, e della famosa chinea, suscitate a tempo della monarchia, la nazione si condusse con tutta la calma del coraggio, ad onta de’ fulmini del fanatismo, e finalmente giunse pure ad estinguerli interamente colla sola forza del disprezzo e del sorriso.

Bisogna dunque convenire, che il fanatismo ha potuto accrescere in Napoli la forza della contro-rivoluzione; ma che non n’è stata sicuramente la causa primitiva.

Molto meno se ne può riportare la origine al supposto attaccamento della nazione pel realismo, ed in particolare per la dinastia di Ferdinando.

In un paese, dove li spiriti erano bastantemente istruiti de’ preziosi loro diritti, quale attaccamento aver si poteva per un regime, in cui il governo, dice Du Pati, era un disordine di più?

In un paese, in cui lungi di essere fatta cosa dal governo per la perfettibilità umana e sociale, si mettevano anzi degli ostacoli, per impedire li benefici effetti della natura, troppo prodiga de’ suoi doni in quel clima fortunato; in un paese, in cui la libertà civile era interamente sconosciuta: ed in un paese finalmente in cui, per li vizj del governo, l’uomo della campagna, dovendo dividere il frutto del suo travaglio con tante arpie, spesso non gli restata un pane per darlo a’ figli suoi?

Ma i popoli erano forse personalmente attaccati a Ferdinando?

Ah! Ricordiamoci che gli annali del suo regno e della sua corte sono gli annali della dissipazione, della deboscia, dell’intrigo, degli assassinj, de’ veneficj e de’ delitti, li più rivoltanti.

Qual’amore poteva poi aversi attirato un uomo, noto solo alli boschi ed alle fiere, forse meno insensibili e meno feroci di lui?

Quale desiderio finalmente dalla parte dei sudditi poteva conservarsi per lui, esso che saccheggiate avea le pubbliche e le private sostanze? Che vile e codardo avea indi disertato della sua armata e dal suo popolo; e che fuggendo avea lanciati contro l’innocente sua nazione tutt’i tratti d’una ostilità la più feroce?

Li stessi clamori de’ briganti, che saccheggiando gridavano Viva il re, non sono forse bastanti ad attestare quale dovea essere l’interno sentimento della sana parte del popolo al suono di questo nome fatale, che tornava di nuovo a ferire le sue orecchie?

Delle provincie si misero in insurrezione al rumore che Ferdinando fosse rientrato sul territorio napoletano: ma due anni dopo la morte di Nerone, la fama di esser egli ricomparso in qualche angolo dell’impero, non eccitò delle provincie alla sedizione?

Il timore e l’amore, agendo per vie opposte, sovente si riscontravano negli effetti.

Sei anni di terrorismo il più feroce, esercitato dalla Corte di Napoli, impressioni troppo profonde avea fatte sugli spiriti, perché il timore di una vendetta sanguinosa non li riconducesse subito al servaggio.

Ma chi vuol conoscere ciò e chè animi liberi giudicavano di lui, vegga le maledizioni che sulla sua esecrata testa vennero indistintamente proferite dal popolo, nel momento che il suo trono fu fulminato, e che sì credea già crollato per sempre.

Non sono le supplicazioni fatte per la ristabilita salute di Caligola quelle che ci fan giudicare delle vede disposizioni degli spiriti per rapporto a lui, ma li decreti sì bene che il Senato proferì indi contro la sua infame memoria, quando il braccio della Cherea ebbe liberata l’umanità dalla presenza di questo mostro.

Che non si calunnii dunque la nazione napoletana di essersi fatta ricondurre nel servaggio per mano del fanatismo, o trascinarsi da una cieca inclinazione verso del realismo.

Diciamo piuttosto, com’è, che la vera causa di questa catastrofe, troppo afflittiva per l’umanità, è riposta nella mancanza di una pronta organizzazione civile nelle provincie, e nel difetto d’un’armata corrispondente alle forse ed al bisogno della Repubblica.

Se il governo, nascendo, portato avesse uno sguardo rapido sopra tutt’i rami dell’amministrazione; ed abbracciandone tutto l’insieme, si fosse affrettato di piantare all’istante tutto il regime repubblicano sulel rovine della caduta monarchia; se avvisandosi che ne’ primi momenti rivoluzionarii è nelle provincie soprattutto che bisogna crearsi li baluardi veramente solidi del potere ce si vuol innalzare; e quindi si fosse moltiplicato in certa maniera da per tutto per portare fino negli angoli li più remoti l’immagine in piccolo della gran famiglia: se tutto ciò, io dico, fatto si fosse dal governo provvisorio, nell’organizzazione civile si sarebbe certamente rinvenuta una risorsa di più per resistere alle prime scosse parziali, e per facilitare insieme le operazioni, che abbracciar doveano la difesa generale dello stato.

Ma questi piani concertati, che dall’ordinario non sono che il risultato della più confermata e riflettuta esperienza, o l’opera assoluta del genio, no potevano sicuramente aspettarsi da un governo nascente, formato nella sua maggior parte d’individui, istruiti nelle teorie de’ governi, ma mancanti di lumj necessari per li dettagli dell’esecuzione: e molto meno eseguir si poteano da un governo tutto passivo, ed obbligato ad occuparsi mai sempre de’  bisogni artificiali ed interminabili dell’armata conquistatrice.

Per contrario se il general Championnet, in luogo d’inutilizzare le armi napoletane, si fosse occupato piuttosto di crearne delle altre: se invece di abbandonarsi alla sua timida prudenza, seguitato avesse piuttosto l’esempio del fondatore della Repubblica Cisalpina: se improntando il linguaggio coraggioso di quell’Eroe, avesse detto ancor egli ai napoletani:

“Volete voi costituirvi in Repubblica? Volete esser liberi? Cominciate dal divenir soldati e guerrieri”; se questo piano appunto avesse egli seguitato, la Repubblica Napoletana avrebbe avuta, nascendo, un’armata capace non solo di custodire l’interno del paese, ma di accorrere anche nella Lombardia per la difesa comune dell’Italia.

Allora la sua libertà o non sarebbe stata giammai compromessa, o avrebbe facilmente superato e respinto tutti gli attacchi del realismo.

Fu egli abbastanza coraggioso per vendicare il popolo francese da una macchia vergognosa, che Commissarii civili del Direttorio in Napoli voleano apporgli, con abusare di quei rispettosi riguardi, che una gran nazione deve per  l’indipendenza de’ popoli dichiarati liberi da essa stessa: ma mancogli egual fermezza per mantenere la disciplina del suo esercito, per impedire il gaspillaggio de’ generali, de’ commissarj e fornitori.

Senza di questi disordini, il governo, abbandonato indi a sé stesso, avrebbe ritrovata tuttavia qualche risorsa nelle sue casse per crearsi momentaneamente una forza.

Non voglio però disturbare le ceneri di un uomo, che fu senza dubbio una volta il salvatore del popolo napoletano , e che piantò il primo in Napoli li trofei della libertà.

Forse se egli continuava a ritenere il comando delle armate, li primi suoi errori sarebbero rimasti corretti. Forse…

Ma già il Direttorio con la sua condotta per ogni lato impolitica decretato avea la perdita dell’Italia, e con essa quella della Francia, e dell’umanità istessa: ed il richiamo di Championnet ne fu in certa maniera il primo segnale.

Lasciamo intanto queste discussioni alla posterità, che più imparziale ne giudicherà certamente assai meglio di noi; e riprendiamo il corso istorico dell’ultime convulsioni della spirante Repubblica Napoletana.

Quaranta giorni circa decorsero dalla partenza de’ francesi siano al momento che Napoli cadde nel potere de’ controrivoluzionarj.

La guardia de’ due golfi, di Napoli e di Pozzuoli; la custodia interna della Capitale; e la sicurezza delle strade adiacenti furono tutte affidate a’ soli patrioti napoletani.

Essi moltiplicandosi nel di loro patriottismi e nel di loro coraggio, là impedirono che gl’inglesi non mettessero mai piede a terra, qui li lazzaroni furono contenuti nell’ubbidienza; ed altrove li briganti vennero respinti da per tutto.

Nel giorno finalmente de’ 13 giugno 1799 le diverse orde de’ controrivoluzionarj piombando come tanti torrenti dalle rispettive provincie, ove si eran formate, si riunirono tutte avanti le porte di Napoli, ed assistite dagl’inglesi nella parte di mare, vennero a formare insieme la famosa armata Turco Russo Anglo Cristiano Cattolica.

Li patrioti uscirono ad attaccarla, e si batterono fuori le mura della Città sino a sera.

Ma soverchiati dal numero de’ nemici cento volte maggiore, e mancanti di un campo trincerato, furono costretti a ritornarsi, ed a chiudersi indi ne’ castelli.

Il primo forte attacco da’ briganti fu quello di Aviglieno  sito sulla spiaggia del mare fuori le porte della Capitale.

Corredato di cannoni dalla parte del mare, e sfornito di fortificazioni verso terra, la guarnigione tenne fermo contro degl’inglesi, che la fulminavano colle scialuppe cannoniere e bombardiere, ma non potè egualmente resistere agli attacchi della truppa di terra.

Costretti dunque li patrioti a cedere alla forza maggiore, essi capitolarono; ma entrativi indi li briganti in gran copia, cominciarono tosto a far man bassa sopra tutti quelli che incontravano.

Allora li patrioti, non trovando la di loro salvezza che in una morte volontaria e generosa, diedero fuoco al magazzeno della polvere. Il forte saltò in aria.

Li patrioti, a riserba di due, vi perirono tutti, ma vi morirono pure circa quattrocento briganti rimasti schiacciati e sepolti sotto le rovine.

Felici essi! Che chiudendo le luci nel seno della gloria, non furono spettatori dell’orroroso scempio, che indi si fece dell’infelice loro patria.

Felici essi! Che morendo da uomini liberi, seppero punire la perfidia de’ satelliti del dispotismo.

Felici essi! Che con una morte illustre e generosa si sottrassero dalla lenta agonia d’una morte fredda ed infame, che la tirannia avea loro preparata.

Ma eccoci già al momento di veder consumato tutto il delitto della Regina di Napoli.

Aveva elle detto, che emigrando da quel Regno avrebbe lasciat’ai napoletani i soli ochi per piangere, e mantenne la parola.

Detto avea pure, che avrebbe passeggiato sulle teste de’ patrioti, e che la provvidenza aveala destinata per compiere l’opera della distruzione di quell’infelice paese: e questa predizione già viene pure a verificarsi.

Il dì seguente li difensori del Trono e della Religione entrarono per più lati della Capitale.

Il popolaccio napoletano, stato tranquillo fino a quel momento, al primo contatto di queste acque impure, si agitò e si mise tutto in furore, peggio assai di un mar tempestoso.

All’istante calabresi, galeoti, briganti e lazzaroni si sparsero da per tutto famelici di sangue e di saccheggio.

Seimila e più case divennero la preda di quest’orda  di assassini.

E come il saccheggio non dovea essere che il premio della morte e della punizione de’ patrioti, così da per tutto colla depredazione errava la carneficina, accompagnata dalla ferocia e dalla crudeltà la più ricercata.

Teste di patrioti imbrattate di sangue si videro tosto portate in trionfo per le strade. Le loro carni furono pure mangiate per eccesso di zelo religioso e morale. E quelli che furono risparmiati dal massacro, infelici assai più de’ loro trucidati compagni, vennero menati alla prigioni, ma con un treno di strana crudeltà, a cui la fantasia de’ Basiridi e de’ Mezenzii non avea spinta l’immaginazione.

E come se  fosse poco di far gemere di tanti e sì diversi mali la sola umanità, si volle finanche allarmare il pudore.

Uomini di primario rango e donne assai rispettabili denudate del tutto furono trascinate nelle prigioni, portando su li loro corpi li segni di quanto di più crudele e di più obbrobrioso può soffrire qui in terra l’umana natura.

Così delle prigioni e de’ sotterranei innumerevoli vennero all’istante ripieni di ciò che faceva altra volta il pregio e l’ornamento della nazione napoletana.

Ma ahi! Caliamo oramai il velo sopra di questa orrorosa e spaventevole scena.

Possa la notte de’ secoli invilupparla per lo decoro della umana natura nella già densa oscurità delle sue tenebre!

E possa penetrarvi per contemplarla il patriottismo soltanto, per apprendere la necessità, che gli assiste, di lanciare all’istante l’ultimo colpo di morte sulla tirannia, se avviene che la sua patria ne rompa una volta le catene.

L’avanzo della Repubblica Napoletana era rinchiuso in due castelli della Capitale, denominati Castel Nuovo e Castel dell’Uovo, e nel forte di Castellammare sito dirimpetto Napoli, sul bordo del mare, ma alla distanza di circa sei leghe da quella città.

Quest’ultimo forte fu indi il primo a rendersi. Presidiato però da capi militari sperimentati del mestiero della guerra, costoro non vollero capitolare che colli sol’inglesi, ossia col comandante della di loro squadra il signor Foote.

Fu promessa sicurezza personale a tutti gli individui componenti la guarnigione cola libertà di ritirarsi nelle loro cose e di partire per esteri paesi a loro volontà, con dover esser messi a tal uopo a bordo de’ bastimenti da trasporto, conservando tutti nel tempo stesso la proprietà de’ loro beni.

In conseguenza  di questa convenzione li patrioti, che scelsero l’emigrazione, furono fatti imbarcare su legni sistenti nella rada; e  fu il forte agl’inglesi stessi consegnato.

Foote militare quanto bravo altrettanto leale, spedì il dì seguente nel forte uno degli uffiziali repubblicani con sua lettera scritta al comandante realista, ordinandogli di consegnare a costui tutti gli effetti appartenenti ai suoi compagni d’arme, che ad essi erano dovuti in forza della già fatta capitolazione, ch’egli dichiarava di essere sacra per lui.

Più difficoltosa fu la resa de’ due castelli nuovo e dell’Ovo.

Li patrioti, che vi erano rinchiusi, risoluti di seppellirsi sotto le rovine della libertà, si batterono da leoni. Cl fuoco continuato e terribile dei rampari, e colle frequenti e vigorose sortire che fecero, seppero imporre al nemico che li credeva già tutti perduti.

Intimati indi a rendersi, risposero con de’ sentimenti che il proprio coraggio e l’amore della libertà loro ispirava.

Ma conoscendo in progresso, che privi della speranza di un soccorso esterno, la loro ulteriore resistenza non avrebbe servito che ad accrescere solamente li mali per proprio paese, senzacche, vantaggio alcuno ne risultasse per la causa pubblica, al nuovo invito dalla parte del nemico li patrioti si prestarono di venire ad una trattativa.

Questo stesso però si eseguì tra la calma del coraggio tutta la dignità conveniente al carattere repubblicano.

Il governo, che si tenea chiuso nel Castel nuovo, dichiarò primieramente, che depositario della sovranità nazionale ad esso affidato per le mani della Repubblica Francese, giammai non se ne sarebbe volontariamente spogliato, senza l’autorizzazione ed  il consenso espresso dal cittadino Mejan, comandante del forte S. Eramo  presidiato tutto allora da guarnigione francese.

Ammessa questa condizione preliminare, d’accordo col comandante Mejan, si divenne indi alla capitolazione, che fu conchiusa coi seguenti articoli. Sicurezza personale, e  sicurezza delle proprietà rispettive a tutti li patrioti chiusi nei suddetti due forti, compresivi anche quelli che armati fossero caduti nelle mani del nemico primachè li forti fossero stati bloccati: libertà a tutti di rimanersi nelel di loro case, o di passare in Francia su di bastimenti parlamentarj, che a quest’uopo a spese del Re di Napoli si sarebbero preparati corredati di tutto il bisognevole: sortita delle due guarnigoni dalli rispettivi forti con tutti gli onori militari, dovendo indi deporre le armi sulla spiaggia del mare nel momento dell’imbarco:

consegna di quattro ostagi finalmente nelle mani del comandante di S. Eramo, da dover indi restare chiusi in quel forte sino a che li patrioti, che sceglievano di emigrare in Francia, pervenuti non fossero nel porto di Tolone.

Per contrario per parte degli assediati si promise che firmata la capitolazione, e seguita pure la consegna degli ostagi, essi avrebbero messi in libertà li prigionieri fatti sugli inglesi, e li realisti presi di stato, che stavan detenuti nei due forti.

La capitolazione convenuta e redatta così, fu autorizzata con le rispettive firme e sugelli del cardinal Ruffo, vicario generale del Re delle due Sicilie, del signor Foote comandante della squadra inglese, e dei comandanti rispettivi le truppe Russe e Turche: e finalmente fu anche approvata per iscritto dal comandante francese Mejan.

Li promessi ostagi furono indi consignati, e successivamente per parte dei patrioti furono subito messi in libertà li presi di stato e li prigionieri inglesi.

Mentre le due guarnigioni seguitavano a tenersi in armistizio nei rispettivi forti, aspettando che s’approntassero li bastimenti, che trasportavar dovevano in Francia li patrioti, che nel numero di mille e cinquecento circa aveano già dichiarato di voler emigrare, giunse Nelson con tutta la sua flotta nella rada di Napoli, portando a bordo del suo vascello l’ambasciatore inglese Hamilton e la famosa Miledi sua moglie.

La Regina di Napoli, istruita per pratica nei mestieri di Venere, si diede la premura di far passare la di lei favorita Miledi Hamilton con la flotta in Napoli, sicura che questa novella Circe, interprete fedele delle sue volontà, avrebbe indi convertito in fiera, ed anche in mostro di iniquità l’ammiraglio inglese, allora suo prigioniero d’amore.

La sera del 26 giugno li patrioti furono fatti sortire dai castelli, e salire a bordo de’ bastimenti già approntati per essi.

Nel dì seguente sotto la direzione degli uffiziali inglesi, montativi sopra espressamente, li bastimenti suddetti vennero menati sotto della flotta, che stava tutta spiegata nella rada in ordine di battaglia, e ciascuno restò quivi ancorato sotto il cannone di ciascuno dei vascelli inglesi.

L’indomani poi li membri della commissione esecutiva, una gran parte di quelli della commissione legislativa, tutti gli uffiziali di primo rango della Repubblica, e li patrioti li più marcati nella Corte di Sicilia, per mano di uffiziali inglesi parimenti furono fatti prendere, e menati via a bordo dei loro vascelli, vennero ivi messi tutti alla catena.

Fra costoro eravi il celebre Domenico Cirillo, membro esso pure della commissione legislativa, e che per tre anni circa era stato l’amico ed il medico di casa Hamilton.

E Miledi ebbe la crudele soddisfazione di vedere alla catena, destinato vittima al supplizio, un uomo che altre volte avea esaurite tutte le risorse del suo genio e dell’arte sua per salvare la vita a lei e al suo vecchio marito.

Se la capitolazione veniva eseguita così per li patrioti che erano in mare, ciascuno immagina che non dovea sicuramente essere migliore la sorte di quelli rimasti nei castelli, che sulla fede del trattato contavano già di restituirsi alle loro case.

Essi al primo ingresso delle truppe inglesi, che furono le prime  a prenderne possesso, restarono tutti presi, e chiusi nei cavi dei rispettivi forti.

Un tratto di perfidia così nera era troppo forte per non dover offendere un’anima sensibile: e la fama disse che il signor Foote, comandante la squadra inglese, a questa infrazione vergognosa d’una solenne capitolazione firmata da lui, vedendo vulnerato col sacro diritto delle genti il suo proprio onore, e l’onor di sua nazione, diede tosto la sua dimissione e partì via.

Alquanti giorni dopo a bordo di una fregata inglese giunse in quella rada il Re di Napoli provveniente da Palermo, accompagnato dal suo degno ministro Acton.

Ivi arrivando dichiarò con suo editto, che sua volontà non era stata mai, che si capitolasse con dei ribelli, e che in conseguenza la sorte di costoro doveva tutta dipendere dalla sola sua giustizia e clamenza.

La clemenza dei tiranni, gran Dio!

Ne vedremo ben presto quali siano stati li benefeci effetti. Con altro editto ordinò indi che li beni dei patrioti si fossero tutti sottoposti a sequestro per conto del suo regio fisco.

In vista di quanto si è detto sopra sulla istituzione del governo repubblicano in Napoli, e sulle cause che vi diedero origine, chi è che non ravvisi da sé la doppia ed enorme ingiustizia di questi editti scritti certamente da una mano di ferro?

Possono mai chiamarsi ribelli i popoli, che immersi dal proprio re in una guerra ad essi straniera del tutto, e per sé stessa ingiusta e capricciosa, vengono poi vilmente abbandonati da lui?  che lo stesso re, disertando, spoglia dei loro tesori, li priva di ogni mezzo di difesa, e li condanna finalmente a perire di massacro tra i flutti tempestati dell’anarchia popolare, di suo proprio ordine eccitata?

Possono, io dico, chiamarsi ribelli i popoli, che in queste deplorabili circostanze, ajutati dalla generosità del vincitore, si creano un governo per ripiantare nel di loro seno l’ordine sociale e politico, distrutto interamente dalla mano nemica del fuggitivo tiranno?

Se il Re di Napoli abdicò li suoi diritti alla corona, nel momento che trattando da nemica l’innocente sua nazione si mostrò egli ribelle al suo popolo; se la monarchia istessa, insieme con tutti i rapporti sociali restò interamente disciolta nel seno dell’anarchia fatta scoppiare dal suo proprio ministro, nel momento che disertò esso pure; se fino le tracce dell’antico dispotismo restarono indi annientate sotto i passi dell’armata francese entrata vincitrice in Napoli, come mai potranno dunque chiamarsi ribelli que napoletani, che da quest’epoca in poi si misero a servire la patria loro, adottando dei sentimenti analoghi alla forma ed allo spirito del suo governo novellamente istituito?

Ma supponiamo che niente di tutto ciò preceduto avesse l’ingresso de’ francesi in Napoli. Supponiamo anzi che nel seno della tranquillità, e forniti d’ogni mezzo di difesa, ma stimolati dal solo desiderio di cambiar la forma del di loro governo, congiurando coi nemici del proprio re, li patrioti napoletani fossero pervenuti a detronizzarlo.

Messa dunque la cosa in questo punto di veduta il più favorevole per lui, vediamo se anche in simili circostanze potea il Re di Napoli legittimamente infrangere la capitolazione fatta dal suo vicario generale il cardinal Ruffo: e se potea farlo soprattutto, avendosi riguardo alla maniera, onde restò quella conchiusa e solennizzata.

Consultando non già il delirio de’ despoti, ch’essi chiamano legge, ma aprendo quel santo codice, che è più antico de’ re, de’ popoli e de’ senati, ascoltando non già le massime di qualche abietto prezzolato scrittore, ma la sola voce della ragione e della filosofia; egli è facile senza dubbio di risolvere il presente quesito.

Giunio Bruto di Roma, Guglielmo Tell nella Svizzera, Washington e Franklin in America sono stati e saranno riputati mai sempre li numi tutelari delle rispettive loro nazioni.

Quelli stessi, che abortendo in simili intraprese sono stati poi le vittime della tirannia, non hanno cessato essi pure di riscuotere egualmente l’omaggio religioso della venerazione di tutte le anime rischiarate e sensibili alla sorte dell’umana natura.

Questo consenso, e  questo grido universale di tutti gli uomini d’ogni epoca e d’ogni regione, non è forse sufficiente a dimostrare, che l’uomo, nato per disgrazia sotto il giogo del dispotismo, non solamente porta seco dalla natura il dritto, ma che è anzi nell’obbligazione di profittare di tutte le circostanze sugerite dalla fortuna, per ispezzare le catene? Se il dritto dunque di riconquistare e di difendere la propria indipendenza è uno dei dritti inalienabili ed obbligatorj dell’uomo, in qual libro mai di morale li satelliti del dispotismo troveranno essi li principj per provare, che un sovrano non è affatto legato da’ patti stipulati in di lui nome colli suoi pretesti ribelli?

Per contrario se il Re di Napoli e li suoi ministri avessero mai letto l’istoria del proprio paese, ne’ tempi sino li più barbari trovat’avrebbero degli esempj bastanti ad istruirli, che la fede de’ trattati fu sempre rispettata da’ buoni principi, e sempre conculcata da’ cattivi.

Vedut’avrebbero infatti che il fondatore della monarchia napoletana, che Rugiero il Normanno, malgrado li ferrei costumi del secolo duodecimo, in circostanze somiglianti usò di quella moderazione, che invano si è oggi reclamata da’ popoli.

Rimenato avendo alla sua ubbidienza per mezzo d’una capitolazione le città di Bari e di Trani, che insieme col resto delle province di Puglia erano insorte contro di lui, il re Ruggiero il Normanno non solo religiosamente osservò il trattato, garantendo la sicurezza personale e reale una volta accordata; ma rispettò ancora con egual religione li privilegj, che quelle due comuni si stipolarono a loro favore in tal rincontro; e che si sono poi perpetuati sino ai tempi presenti.

Altronde si sarebbe pure ravvisato con la lettura della storia della monarchia napoletana, che mentre il nome di Ruggiero si è conservato luminoso mai sempre nel progresso dei secoli, la fama per contrario di Ferdinando d’Aragona è pervenuta sino a noi annerita di quella infamia, che accompagna costantemente gl’infrattori del sacro diritto delle genti.

Purtuttavolta il perfido aragonese, contravvenendo alla santità dei trattati, usò della preponderanza della sola sua forza; ma giammai non ardì di prostituirvi il sacro ministero delle leggi.

Fe’ perire dei tiranni a lui subalterni, che insorti una volta si affidarono indi alla sua parola; ma affatto non osò di profanare in quest’esecuzioni  sacrileghe al santuario della giustizia.

Questo eccesso di tirannia e di scelleratezza era riservato a Ferdinando IV, che in mezzo alla dolcezza dei costumi del secolo decimottavo ha il raro attributo di superare in perfidia ed in crudeltà tutti i suoi serenissimi predecessori.

Ma dimentichiamo la ragione e li fatti istruttivi, che la storia ci ha trasmessi.

Supponiamo pure che tra le tante esotiche prerogative, cha accompagnano il realismo, vi sia questo immane e rivoltante attributo di non essere i re ligati da’ patti stipulati co’ proprii sudditi; in questo caso ancora, per non devenire all’infrazione della capitolazione, il Re di Napoli trovato non avrebbe tuttavia un ostacolo insormontabile ne’ suoi ostagi, stati già consegnati a’ francesi?

Per genio di sfamare la sua vendetta; poteva egli compromettere dei rispetabili personaggi, rimasti a lui attaccati, che garentivano ora colla di loro vita l’adempimento della stipulata capitolazione?

Il comandante Mejan, vedendo infranto questo trattato, usar potea certamente usar del suo diritto di rappresaglia su di quattro innocenti vittime messe in pegno nelle sue mani; e che a vergogna eterna del Soldano di loro padrone non debbono ora la loro esistenza che alla sola generosità francese.

Ma il ministro plenipotenziario del Re di Sicilia, il cardinal Ruffo, capitolando a nome del suo sovrano, trattato aveva non già direttamente con li soli patrioti, ma contratto aveva con essi mediante l’autorizzazione del comandante Mejan, che personalmente v’intervenne nel trattato a nome della Repubblica Francese: e fu così che in forza di questo trattato medesimo li patrioti vennero poi autorizzati di mettere in liberà li prigionieri, che li francesi fatti avevano sugl’inglesi.

Vi è forse qualche altra massima di diritto pubblico, che dispensi il Re di Napoli di adempire anche li trattati stipolati con un governo legittimo e riconosciuto, qual’è la Repubblica francese?

Questa massima per altro è pur troppo vera nel fatto, giacché esso non ne ha mai osservato alcuno di quanti ne ha conchiusi sinora.

Tremò egli però di sperimentare per la seconda volta gli effetti terribili della giusta collera del popolo francese, che niuno sarà mai permesso di poter impunemente insultare.

Ma questi stessi editti del Re di Napoli, scellerati per lor natura, erano ancora troppo umilianti per li coalizzati, che intervenuti essi pure nella capitolazione, impegnandovi l’onore delle rispettive loro potenze, vedevansi o ridotti a rappresentar la figura di meri servidori della di lui dispotica volontà.

Nelson però, superiore anche a questi sentimenti d’un giusto orgoglio nazionale, si fece un sacro dovere non solo di prestar la mano all’esecuzione de’ rescritti di S. M. clementissima, ma di mettervi egli stesso l’ultimo sugello con un atto scritto di suo proprio carattere.

Difatti li patrioti a bordo di uno de’ bastimenti, stanchi delle sevizie che quivi soffrivansi, ed incoraggiti per l’altra parte dalla santità de’ patti stipulati a lor favore, scrissero un indirizzo all’ammiraglio Nelson, ricordandogli ch’essi eran de’ capitolati, e lo sollecitarono insieme, perch’egli eseguir facesse la di loro capitolazione fatta con l’intervento d’un comandante inglese.

Ma fermo Nelson nella risoluzione di esser lo schiavo di Ferdinando, ed il fedele esecutore de’ suoi ordini sovrani, in piedi di quell’indirizzo, di sua propria mano , freddamente rescrisse, ch’egli avea fatta presente la di loro petizione al Re di Napoli loro sovrano, a cui solamente si apparteneva di conoscere del merito e demerito de’ suoi sudditi.

Dopo il trattenimento di circa venti giorni nella rada di Napoli il re fece ritorno in Palermo.

Tiranno vile e timido, egli non osò di metter piede a terra.

Avido altronde di pascere lo sguardo negli effetti funesti di sua crudel vendetta, non avea affatto bisogno di andare a cercare nel seno della capitale, giacchè il mare gliene offriva pure in gran copia.

Ripiene ormai di patrioti tutte le carceri ed i cavi de’ castelli, si costruirono delle prigioni galleggianti.

De’ vecchi vascelli smattati furon destinati a quest’uso. Intorno al vascello di Nelson, ove il Re dimorava, il mare era tutto ricoperto di queste bastiglie ondeggianti.

E’ quivi che l’umanità maggiormente soffriva. Due volte di più della di loro capienza ripieni li vascelli di tant’infelici presi, essi venivano a formare come una sola e densa massa tra loro.

Denudati interamente di abiti divenuti la preda degli esecutori al momento del di loro arresto, privi di cappelli, e senza il riparo d’una tenda, stavano esposti a tutta l’attività de’ raggi del sole, così percianti nella stagione estiva in quel clima di fuoco.

Mal nutriti e spesso mancanti degli oggetti de’ più necessarj, dovean poi soffrire tutto l’empito della brutaltà de’ briganti calabresi, che vi eran di guardia.

Il Re con occhio di soddisfazione guardava dal vascello di Nelson il quadro miserabile, che in mezzo alle moltiplici loro pene offrivano queste vittime onorate: ed applaudiva alle orgie de’ lazzaroni che, dandogli degli elogj degni di lui, insultavano nel tempo stesso il martirio di quest’illustri figli della patria loro.

Già in Napoli erasi eretta la famosa Giunta di Stato sotto la presidenza del crudele Speciale, de di cui carattere si è parlato altra volta; da ques’epoca cominciò a divenire più metodica, e per conseguenza più numerosa la proscrizione dei patrioti capitolati, messi a bordo de’ bastimenti da trasporto.

Quei che per li loro impieghi politici e militari, e quei che per li loro talenti letterarj, e che per di loro zelo si erano più distinti nella causa della libertà, occuparono ora il primo luogo nella classe de’ pretesi rei di alto tradimento, e per conseguenza eran tutti designati pel supplizio.

A misura dunque che queste note di sangue si formavano, tosto venivan prese le vittime, che vi stavan descritte, e cariche di catene erano ricondotte ne’ castelli per esser ivi rinchiusi in tenebrosi sotterranei.

Ogni giorno, verso le due pomeridiane, andavano in giro delle lancie  per eseguire questo terribile ministero.

Si figuri ciascuno qual esser potea il raccapriccio de’ poveri patrioti, vedendo muovere questi legni fatali, che col decreto del di loro arresto vi avrebbero anche apportato quello del certo loro supplizio.

Queste esecuzioni d’ordinario si faceano per mano degl’inglesi. Nelson infrattore egli il primo della capitolazione coll’arresto delle primarie autorità costituite, politiche  e militari , fatte indi mettere alla catena a bordo de’ suoi vascelli; complice del re di Napoli col di lui tacito consenso alli suoi scellerati editti, che con la distruzione del sacro diritto delle genti ledevano il decoro di sua stessa nazione; approvatore espresso di questi tratti d’inudita perfidia, col recritto fatto di sua propria mano: Nelson, io dico, quasi non contento di tante iniquità, ch’eran tutte sue proprie, volle imbrattarvi finanche le mani de’ suoi uffiziali, obbligandoli a servire da strumenti di una esecuzione che dovea riempirli di vergogna e di orrore.

Così li soldati della Gran Brettagna; li figli del popolo inglese, il primogenito della libertà in Europa; gli allievi di tanti filosofi, stati li fondatori della morale pubblica ed universale; con la maschera di spergiuri in faccia a tutta l’umanità, si viddero umiliati a far li vili satelliti della crudeltà del re di Napoli, e li gendarmi del suo tribunale di sangue.

No, questa macchia di nera turpitudine non resterà impressa per sempre al nome inglese.

L’Inghilterra si guarderà bene di contaminarsi, facendosi la complice degli assassini commessi da’ suoi agenti e ministri.

Vergognosa anzi di esser comparsa per un momento all’occhio di tutta la terra la conculcatrice delle sante leggi delle genti e di natura: tanto più sarà essa terribile nello scoppio di sua giusta collera contro di quelli che ne sono stati gli autori.

Il sangue di questi mostri vendicherà l’umanità oltraggiata da essi. L’infame supplizio, che gli attende mostrerà a tutta la terra, che si può per qualche tempo abusare della confidenza d’una gran nazione, ma che la giustizia del popolo, costante nei suoi effetti, presto o tardi va a fulminare coloro che han compromesso la sua dignità.

E l’obbrobrio finalmente, con cui sarà consegnata alla posterità l’infame loro memoria, attesterà ai secoli avvenire, che le nazioni in un secolo di lumi non sono fatte per divenir  il trastullo d’un pugno di fortunati briganti.

Dopo molti e copiosi arresti fatti per più giorni successivi, credé la Giunta di Stato che le vittime dovute alla collera ed alla vendetta della Corte di Sicilia fossero tutte oramai assicurate. Si ingannò.

Vi erano ancora delle altre, e forse delle più marcate.

Tranquilli ora nel seno di una nazione ospitaliera, e nutriti per le mani stesse della Repubblica Francese, questi bravi figli della patria loro non debbono la di loro vita che alla sola confusione, in cui tra la molteplicità degli oggetti, e pel soverchio numero stesso, restarono avvolti gli esecutori.

Su questa fiducia dunque la Giunta di Stato ordinò che l’avanzo de’ patrioti capitolati rimasti a bordo de’ bastimenti si fosse fatto partire per uno de’ porti di Francia.

Prima però di partire, coll’intervento d’un ministro subalterno della Giunta di Stato, ed in conseguenza di espresso ordine sovrano, fu obbligato ciascuno de’ patrioti di accettare il suo bando perpetuo , e di sottoscrivere la sua sentenza di morte, che inevitabilmente avrebbe subita, se avesse giammai osato di rientrare in progresso negli Stati del Re delle due Sicilie: ed in seguito si prese la più esatta e la più scrupolosa filiazione di ognuno di essi.

Quest’atto solenne, che nella procedura contenziosa del Regno di Napoli appellasi obbliganza penes acta, non è che un contratto giudiziario: contratto che per le leggi poi di quel paese tien luogo di giudicato: ed il giudicato in forza di quelle stesse leggi è sacro ed inviolabile quanto la legge medesima.

Per la più chiara intelligenza di quanto saremo per riferire su quest’assunto, eccone in breve tutta la natura dell’obbligo da’ patrioti sottoscritto.

Distrutta la capitolazione, ed il Re di Napoli considerando come tanti rei di Stato tutti li patrioti capitolati rimasti a bordo de’ bastimenti, prestava ora il suo consenso, mediante l’atto suddetto, che senza esaminarsi la maggiore o minore quantità del preteso reato di ciascuno di essi in particolare, tutti indistintamente fossero perpetuamente banditi, colla sanzione penale di una morte sicura, se per parte di costoro si fosse giammai controvenuto all’ordinato esilio.

I patrioti dal canto loro, per non sottoporsi alla discussione giudiziaria d’un tribunale sanguinario, accettavano l’esilio, e sottoscrivevano essi stessi la propria eventuale sentenza di morte.

Ecco dunque un contratto solenne stipulato già tra li patrioti ed il re di Napoli.

E perché non si altercasse in progresso sulla identità delle rispettive persone quando, facendosi il caso della contravvenzione allo stipolato esilio per parte di alcuno de’ patrioti, si dovesse indi devenire alla esecuzione della stipulata pena di morte, fu a quell’uopo ancora che successivamente si prese la filiazione di ognuno di loro.

Ecco dunque che dopo la celebrazione del contratto si passò pure all’esecuzione di esso.

Celebrati tutti questi atti, li patrioti, che conoscevano a fondo la legislazione del proprio paese, e che quindi riposavano sulla garanzia di leggi non mai vulnerate presso di quei tribunali, credevano con fondamento di essere oramai usciti dagli artigli della Giunta di Stato, ed aprivano già il di loro cuore, guardando verso i lidi della Francia, che dovea raccorli nel suo seno.

Ma quale fu la loro sorpresa! Quando il dì seguente videro ritornare ad essi lo stesso ministro subalterno, annunciando a nome della Giunta che tutti poteano partire in esclusione però di dieci di loro, ch’egli venne indi ad individuare.

Allora non si mancò di reclamare l’obbligo di già stipolato, l’esecuzione che gli si era anche data, e la religiosità di atti di somigliante natura.

Fu risposto che l’eccezione era legittima, ma che la Giunta, eseguendo il reale rescritto, che ordinava l’esilio, avvertito non avea, che in quel rescritto istesso vi erano quei dieci eccettuati.

E si replicò che ciò avea potuto succedere, ma che intanto il contratto era già celebrato, ed erasi stipolato con quella stessa Giunta, che era l’interpetre e l’esecutore del reale rescritto: che se essa errato aveva nel darvi esecuzione, era giusto che ne dasse conto al di lei Sovrano: ma che, quanto a loro, che trattando con l’organo legittimo della Sovranità, legittimamente contratti aveano con Re di Napoli, non potevano certamente per colpa del terzo esser defraudati de’ diritti, che il contratto già stato stipolato gli aveva fatti una volta acquistare.

A questa replica, che non ammetteva risposta, il ministro si tacque, e chinando le spalle, lacerò tutte le carte, che il dì precedente si erano scritte.

Si venne indi a stipolare un secondo obbligo, a cui tutti i patrioti ad eccezione di quei dieci sottoscrissero di nuovo, e si tornò pure a fare per la seconda volta la loro filiazione.

In questo numero eravi Eleonora Fonseca, l’onore del sesso femminile in tutta l’Italia per li suoi litterarii talenti e per le altre sue personali virtù.

Ma oh scelleratezza! Due giorni dopo restando tuttavia nella sua integrità l’obbligo novellamente stipolato, la Fonseca fu presa e menata ne’ cavi de’ castelli, d’onde poi fu condotta alla morte sull’infame legno della forca.

Non è da presumersi, che facendosi indi il preteso giudizio di questa infelice donna presso la Giunta di Stato, l’avvocato reclamato non abbia la santità del contratto stipolato già lei ed il Re mediante l’obligo penes acta, che tuttavia esiste presso di quel Tribunale.

Non è credibile neppure, che egli non abbia ricordato, che costretta la mano di quel giudice ad arrestarsi in virtù di quella carta, egli era dalla legge interdetto di sottoporre alla sua cognizione il rollo individuale, che costei aveva giocato nel corso della rivoluzione, per proporzionare la pena.

Con tutto ciò ella è stata giudicata nelle forme, e fu poi eseguita.

Il giudizio subìto la questa rispettabile donna rivolterebbe assai più che la sua morte istessa, se un contratto garantito dalle leggi civili potesse mai servire di diga al torrente d’un dispotismo, che cominciò li suoi guasti distruggendo un contratto assai più solenne, la capitolazione, stipolato con garenzia di tante potenze, ed al cospetto di tutte le nazioni d’Europa.

Di mille e cinquecento circa di numero, ch’erano li patrioti sorti da’ castelli per emigrare in Francia, non ne restavano ora che intorno a cinquecento: e da capitolati ch’eran prima, ora non sono che de’ rei di stato, condannati a perpetuo esilio, e forgiudicati colla confisca insieme dei loro beni.

Troppo deplorabile sembra che dovea essere la condizione di questi esseri infelici, che andavano a peregrinare per esteri paesi, privi per sempre di patria, di aprenti e di beni di fortuna.

Ma giammai de’ viaggiatori dopo lunghi giri di terra e di mare non rividero i lidi del patrio suolo con tanta gioia, quanta ne provarono li patrioti napoletani la notte del 12 agosto 1799 abbandonando la loro patria.

Doppiamente felici ancora, se non fossero stati conscj ch’essi erano in quel momento oggetto d’invidia fino per quelli che poeteano camminar liberi per Napoli.

Tal’era la tranquillità e la sicurezza pubblica e privata, che si godea allora in quell’infelice paese sotto il regime de’ sedicenti amici dell’ordine sociale e morale.

Prima di quell’epoca si erano già innalzati de’ patiboli in Napoli. Ma per quanto fosse ardente la sete di sangue, che la Corte di Sicilia avea per quelli in particolare, che tenuta aveano la sovranità nazionale nelle mani, e compresi eran tutti nella capitolazione, essa non ardiva ancora di lanciare sulel loro teste l’ultimo colpo della morte.

L’arrivo di Joubert all’armata d’Italia vi oppose un grande ostacolo. La fama della di lui decisa virtù patriottica e de’ suoi talenti militari cagionava delle serie inquietudini nel cuore di quella corte scellerata e vile insieme.

Costretta dunque dal timore a rimanersi tuttavia indecisa sulla totale infrazione d’una capitolazione autorizzata dal Comandante Mejan in nome della Repubblica Francese, essa sospese per un momento il suo braccio vendicativo.

Tanto può imporre sul cuore de’ tiranni un generale veramente virtuoso e repubblicano.

Si diede dunque principio all’esecuzione, incominciando da’ patrioti non compresi nella capitolazione: ed una delle prime vittime fu il celebre cavaliere Caracciolo, d’una delle famiglie più antiche della nobiltà napoletana.

Affidabile e dolce per natura, amava per passione la marina. Soldato coraggioso, e marinaio espertissimo nella manovra, egli avea la riputazione di uno de’ grandi uomini di mare di questo secolo.

Uomo onesto per principj, ed amico per sentimento della libertà del suo paese, servì fedelmente il Re fino al momento che divenne libera la sua patria. Diede allora la sua dimissione in Sicilia, e fece ritorno in Napoli per godere della felicità de’ suoi fratelli.

La Repubblica, orgogliosa di questo suo figlio, lo dichiarò subito generale e direttore dell’avanzo della marina napoletana. Egli vi fu sommamente utile.

Religiosamente tenace de’ suoi impegni contratti colla patria, rigettò con disdegno le proposizioni della Corte di Sicilia, che volea fare di lui un traditore: e con vantaggio si andiede indi a batter contro degl’inglesi.

Fu questo principalmente il preteso delitto, che lo condusse al patibolo. Onesto per utto il corso di sua vita, morì da Eroe, dopo aver fatto impallidire li suoi giudici militari, innanzi a’ quali con tutta la serenità della calma perorò egli stesso al sua causa.

Fu appiccato su una delle fregate napoletane in vista della flotta inglese, e sotto gli occhi degli uffiziali di quella nazione, li pericoli de’ quali avea egli più volte divisi in battaglie regolate, e ne avea riportato l’omaggio meritato della di loro stima.

L’infelice giornata di Novi, funestata dalla morte dello stesso generale Joubert, tolse ogni freno alla vendetta della corte di Sicilia.

La proscrizione divenne allora generale per tutti. Caddero li primi colpi su de’ membri del governo, ministri, ed altre autorità costituite, e sui generali, nobile, ed ecclesiastici, che si erano più distinti nella causa della libertà.

La carneficina fu orrorosa, e Napoli perdé per le mani del carnefice tutt’i suoi più belli ingegni, che la faceano distinguere fra le nazioni d’Italia.

Fra le tante vittime, che suggellarono con proprio sangue il di loro attaccamento alla libertà ed alla patria, non si possono omettere taluni senza fare un torto alla virtù.

Mario Pagano, riputato a giusto titolo il genio della libertà napoletana. Magistrato, cattedratico, e scrittore, sostenne con dignità tutti questi caratteri, e ne riempì con splendore le funzioni. Fu esso il redattore del progetto di costituzione della Repubblica Napoletana, e del discorso che lo precede.

Basta solo questo monumento per far passare la sua memoria alla posterità con tutte le attribuzioni che le son dovute.

Marcello Scotti, sacerdote d’una morale severissima, e membro della commissione legislativa. Univa ad una erudizione vasta e profonda uno spirito di critica sodo e penetrante. In vista del suo Catechismo nautici, la Nazione obliò la perdita creduta fino a quel momento irreparabile del celebre canonico Mazzocchi.

Pasquale Baffi e Giuseppe Luogoteta, membri entrambi del governo provvisorio, ed entrambi facevano rivivere coi loro talenti la greca e la latina letteratura.

Nicola Pacifico, eccellente bottanico e buon matematico. La libertà, di cui si era sempre nutrito lo spirito suo, gli restituì all’età di settant’anni tutto il vigore della gioventù.

Capitano della guardia nazionale, bravò tra i suoi fratelli d’arme tutti i disagi ed i pericoli della guerra.

Giorgio Pigliaccelli, avvocato celebre nel Consiglio napoletano: moderato per natura, e nemico d’ogni sordido interesse, ebbe tutte le altre qualità di un perfetto ministro di giustizia.

Eleonora Fonseca, donna che riuniva alle grazie di Saffo la filosofia di Platone. Avea ella meritati i segni della stima di Voltaire, e fu a tempo della Repubblica la redattrice del Monitore.

Onofrio Colaci, scrittore e magistrato, nella carriera delle lettere ed in quella della toga si mostrò egli egualmente il degno allievo del fondatore delle scienze morali ed economiche in Napoli, il chiarissimo abate Genovese.

Vincenzo Bruno, militare di professione, politico per genio e formato alla più profonda letteratura, avea tutte le qualità per doverglisi affidare nelle mani il timone del governo, nelle procelle, nelle quali si trovò inviluppata la nascente Repubblica Napoletana.

Fu egli membro del governo provvisorio, e successivamente non fu impiegato che nel ramo legislativo.

Un uomo dell’austerità de’ suoi costumi, e della gravità del suo carattere, giammai non doveva soffrire l’umiliazione di vedersi esposto agl’insulti ed a sarcasmi d’un imbecille ministro della famosa Giunta di Stato.

Imitatore della eroiche virtù di Catone, illustrò come lui il termine della sua scena. Con un colpo di pistola si seppellì da se stesso sotto le ceneri della distrutta sua patria.

Francesco Conforti, uomo di vasta letteratura e membro delle commissione legislativa.

Vincenzo Rossi e Nicola Neri, giovani entrambi di alte speranze per genio, per cultura di spiriti e per le loro virtù patriottiche.

Francesco Bagni, medico di prim’ordine, e lettore di medicina nell’Università di Napoli. Contribuì egli non poco per formare il cuore de’ bravi allievi dell’ospedale, che si sono poi tanto distinti nella carriera della libertà.

Il vescovo di Vico, monsignor Natale: fulminò esso il primo a nome del Cielo la tirannia, e quelli che si cooperavano per ristabilirla sul suolo napoletano.

Vincenzo Troisi, sacerdote di vera virtù. Dolce nelle sue maniere, grave ne’ suoi costumi, e severo senza fanatismo per la purità della dottrina evangelica, egli era un’immagine perfetta degli antichi padri del Cristianesimo. Membro a tempo della Repubblica della commissione ecclesiastica, e limosiniere del governo, provò col fatto che giammai il sacro deposito della religione e della carità non fu riposto in un cuore più savio, ed in mani più pure.

Considerandosi nella sua prigionia come una vittima destinata ad espiare innanzi all’Essere Supremo le iniquità del popolo napoletano, egli convertì il suo criminale in un tempio di orazione, non attendendo che a prepararsi al suo sacrificio per renderne sempre più accetto l’olocausto.

Un uomo di questo carattere era degno di terminare come Socrate la sua vita virtuosa. Intrepido, la vigilia dell’esecuzione, all’aspetto de’ preparativi della sua morte, fu esso stesso che consolò li suoi amici, che gli piangevano intorno.

Il generale Francesco Federici: uomo di lettere e soldato di professione, avea approfondate tutte le teorie dell’arte complicata della guerra.

Il general Massa, quello stesso che intervenne nella capitolazione a nome de’ patrioti. Formato nella scuola di Pomereuil, ne portava tutt’i talenti, l’urbanità ed il coraggio.

Pasquale Matera, capo di battaglione al servizio delle repubblica francese, ed ajutante di campo del generale Joubert.

Ettore Carafa duca d’Andria, Ferdinando Pignatelli principe di Strongoli, e Mario suo germano fratello: Gennaro Serra de’ duchi di Cassano: Giuliano Colonna de’ principi di Stigliano: Giuseppe Riario de’ Marchesi di Corleto, ed il marchese di Genzano, entrambi giovinetti di soli sedici anni.

Tutti costoro, superiori a pregiudizii dell’illustre loro nascita, non respiravano che la libertà della di loro patria.

Essi la difesero da Eroi. Attraversati dalla fortuna, mostrarono colla di loro intrepidezza sul palco, che la vita scompagnata dalla libertà più non era ai di loro sguardi un dono prezioso della natura.

E fu allora che cadde pure il chiarissimo Domenico Cirillo: gran naturalista, medico sommo, e profondo nelle scienze metafisiche, egli fu l’amico di Buffon, di Franklin, e raccolse pure nel suo seno l’ultimo spirito dell’illustre autore della scienza della legislazione.

Partigiano zelantissimo della libertà, e nemico d’ogni ambizione, ricusò di entrare nel primo governo provvisorio, creato dal general Championnet. L’autorità del Commissario organizzatore della Repubblica Francese in Napoli, il cittadino Abrial gli fece poi accettare una piazza nella commissione legislativa istituita da lui.

La sua sensibilità per la classe de’ poveri ch’era uno de’ di lui principali attributi, gli fece impiegare la corta durata della sua magistratura politica a fondare in Napoli un istituto di pubblica beneficenza.

Attivato sotto la di lui direzione da anime filantropiche, tosto diede quello de’ frutti superiori di molto alla stessa sua aspettativa.

Questo celebre uomo dunque, che tutte le accademie di Europa si disputavano di possedere nel di loro seno; che i dotti viaggiatori si affrettavano di conoscere, e di consultare; e che gl’inglesi in particolare riputavano il medico de’ di loro nazionali; quest’uomo finì indi la sua vita sotto i calci di un infame carnefice. Ombre onorate! Invitti martiri della libertà!

La tirannia ha potuto umiliare la vostra spoglia mortale, ma la vostra fama brillerà sempre d’una luce, cha la rotazione de’ secoli non potrà scolorire giammai.

Il tempio della memoria, ove sono scolpiti i vostri nomi, vi restituisce una vita assai più durevole di quella, che il pugnale del dispotismo vi tolse.

Giorno verrà che la vostra patria vi erigerà un monumento, ove chiunque ha in pregio virtù, patria e libertà, verrà a rendervi un culto regolato.

E frattanto che questo voto non si verifichi, tutti i repubblicani della terra si fanno un sacro dovere di erigervi dentro de’ proprj loro petti un altare.

Francesi! E’ a voi principalmente che ho inteso di parlare abbozzando il lagrimevole quadro delle disavventure dell’infelice mia Patria.

Sviluppando al teoria dei sacri diritti dell’uomo nella conquista che voi faceste del prezioso diritto di reggervi da voi medesimi , grandi obbligazioni avete senza dubbio contratte in faccia a tutta la terra.

Per quanto sia stata orrorosa la caduta della Repubblica Napoletana, crollata sotto il turbine della contro-rivoluzione, essa niente di meno non è che un saggio impercettibile di quello che avverrebbe, se mai, ciò che oso appena di profferire, il Colosso della Repubblica Francese fosse una volta rovesciato per terra.

Schiacciata la vostra Nazione sotto le rovine del suo governo repubblicano, li francesi, come tanti novelli figli d’Israele, si vedrebbero dispersi per tutta la terra.

All’istante la scossa distruttiva verrebbe comunicata fino agli angoli lii più remoti del globo.

Guai allora, e per sempre, a tutta l’umana natura! Le belle arti, la letteratura, il tesoro di tutte le umane cognizioni, li sentimenti liberali resterebbero tutti sepolti ed estinti sotto le ceneri della vostra patria interamente lacerata e distrutta: e l’umanità degradata dalla sublimità della sua natura, perdendo al facoltà di ragionare, si vedrebbe incatenata per sempre al carro trionfale del dispotismo politico, e del fanatismo religioso.

La guerra presente, che da tanti anni desola l’Europa, in apparenza sembra che non abbia oramai per oggetto che gl’interessi politi e commerciali: ma è alli principi eterni e sublimi della vostra rivoluzione propriamente, che li difensori del dispotismo costantemente la vogliono.

Persuasi costoro che sino a tanto ch’esiste un governo cittadino in Francia, li popoli più non si presteranno a credere, che il punto di appoggio della monarchia stia fissato ne’ Cieli; essi non dirigono i di loro sforzi, che a strapparvi al vostra carta nazionale, ove a caratteri indelebili sta disvelato tutto il segreto della di loro impostura.

Se al destino dunque del vostro regime repubblicano è interamente ligata la sorte dell’umanità, l’importanza di questo sacro deposito vi obbliga certamente di raddoppiare la vostra energia repubblicana, e di riunirvi come in un muro di bronzo intorno al vostro governo per conservare eternamente intatte ed illese le sante basi dell’eguaglianza e della libertà, sulle quali sta innalzato l’edificio della vostra costituzione repubblicana.

Disvelando ai vostri sguardi tutte le trame tortuose ed occulte, ordite alla vostra sicurezza dalla Corte di Napoli con quella di Londra, mio oggetto è stato quello di farvi avvertiti solamente, che il primo distruttore della vostra flotta del Mediterraneo sta là nella Reggia di Dionisio in Sicilia.

Si appartiene ora alla vostra sola saviezza, bilanciar dovendo li vostri interessi con ciascuna delle nazioni belligeranti, di giudicar sin dove estender si debba la vostra vendetta per ingiurie, che non risguardano personalmente che la vostra sola nazione.

Ma potrebbe poi dirsi lo stesso del rapporto al sacrilegio antisociale commesso dal Re di Sicilia, calpestando la solenne capitolazione fatta da lui co’ repubblicani di Napoli, rimasta indi consacrata colla speciale approvazione della Repubblica Francese?

Invano i primi padri della vostra rivoluzione avrebbero sin d’allora sperato, che li principj sociali, succhiati da essi nella natura dell’uomo, avrebbero un giorno convertita tutta la terra: invano all’apparire di questo sole novello, spuntato sul vostro orizzonte, l’umanità concepito avrebbe il voto di potersi una volta veder tutta riunita come in una gran famiglia di fratelli: invano, io dico, queste speranze e questi voti si sarebbero concepiti, finché non si cominci dal far religiosamente rispettare i patti destinati a ligare le nazioni fra esse.

Che l’infrazione dunque commessa dal Re di Sicilia sia punita colla severità corrispondente all’autorità di un delitto che lede direttamente la sociabilità umana: che questa vendetta strepitosa, più terribile ne’ suoi effetti dell’esplosione ignivoma e’ suoi vulcani, spaventi pel corso de’ secoli avvenire ogn’altro tiranno come lui, che si sentisse tentato di commettere a danno dell’umanità de’ somiglianti attentati:

potrà allora solamente cominciarsi a credere con effetto che i popoli tutti della terra troveranno finalmente riposo all’ombra del vostro albero di libertà, ed allora pure il vostro governo, meglio assai che il Senato di Roma, meriterà di avere la denominazione, che gli dava il suo console altrettanto virtuoso ch’eloquente, appellando la fortezza di tutte le nazioni.

Cittadini liberi di questa fortunata nazione d’Europa, voi siete troppo sensibili per non apprezzare l’importanza di quell’onore che conquisterete al cospetto di tutta la terra, adempiendo uno de’ vostri più sacri ed inviolabili doveri, degno veramente della sola gran nazione, e del vostro cuore egualmente fiero e generoso.

 

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